mercoledì 1 maggio 2019

CINZIA BALDAZZI LEGGE: "IL SECCHIO E LO SPECCHIO" DI F. LORUSSO


Dal blog “On literature” di Nicola D’Ugo recensione di Cinzia Baldazzi a “Il secchio e lo specchio”, raccolta di versi del poeta barese Francesco Lorusso


«“Il secchio e lo specchio”, poesie di Francesco Lorusso», di Cinzia Baldazzi

Francesco Lorusso
Il secchio e lo specchio
Nota di Guido Oldani
Manni, San Cesario di Lecce 2018, pp. 96

Cinzia Baldazzi,
collaboratrice di Lèucade

In un’ironia tutta sua, Jean Cocteau era solito affermare: 
Gli specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere.
Ebbene, nella silloge Il secchio e lo specchiodi riflessioni ne vengono offerte numerose, da parte del nostro pensiero e di quello che potrebbe appartenere alle cose in sé: in particolare, a una complessa, arbitraria, ma in certa misura veritiera superficie riflettente di esse. Accade quasi che l’autore Francesco Lorusso, nelle articolate parabole discendenti causate dalla «perdita della memoria e del senso civico», in gran parte relativa all’«onnipotenza elettronica», si liberi dell’idea incombente della morte, illuminata però a tratti, come sostiene Guido Oldani nella nota al testo, in un’atmosfera di casa e di mare, per mezzo di una «scrittura incardinata in questa epoca». E prosegue:

Ma la parabola della traiettoria di queste sequenze dirada il tratteggio mentre si va verso l’apice della narrazione. Man mano la metrica s’impone, persino unitamente a delle tracce di espressionismo d’altre latitudini. Poi, quando la scansione sta andando a compimento, compare qualche concessione al respiro geografico.

Così in Lorusso percepiamo:

La folla già si fondeva al fumo
scuro della sera quando il sogno
si sedeva dietro l’ordine del giorno
accarezzando tutte le nostre cose
come un canto alto di vento
Perfino l’urlo sottile ghiaccia la superficie
e finge di fuggire la goccia di quella bocca
da un pensiero nella pancia che non ritorna
nel dissapore che con forza digerisco per te.

(p. 12)

I versi rievocano alla mente, chissà come, quelli di Nazim Hikmet quando nella poesia «Mosca, 1962» tentava di allontanarsi dal presagio di un’incombente fine:

Mi sono spogliato dell'idea della morte
ho infilato il fogliame di giugno dei viali
quello di maggio era un po’ giovanile per me
tutta un'estate mi attende tutta un'estate in città
con le sue pietre il suo asfalto fuso
le sue gazzose il suo ghiaccio
le sue sale di cinema sudate
gli attori di provincia dalla voce rotonda
[…]
con le poesie che leggerò al balcone
e con i tuoi capelli un po’ accorciati1

Nelle strofe di Lorusso si compie un viaggio ininterrotto: il cammino è tenace, pronto a ogni fatica, mentre il tempo avanza rapido avvicinandosi sempre alla notte, benché le nuvole che l’annunciano una dopo l’altra riflettano il rosso della passione – mai annientato – e il lavorìo delle mani, della mente: 

Rapsodie diffuse silenziano la notte
ti trascinano fuori dalle acque aperte
da questo fiato inceppato nell’onda.

Sono i corpi che muovono la paura
sul mare delle parole marchiate
da una balbuzie digiuna e diversa.

(p. 13)

In un simile ambito, si sviluppa nell’antologia un «accatastamento dei popoli», come evidenzia Oldani forse richiamando il verso di Lorusso «il foglio buono delle figure fitte ora affastellate». Si genera, insomma, un’analisi intorno alle scienze umane che in via strumentale è in qualche misura analoga a quella effettuata sul versante critico-analitico da Algirdas Julien Greimas nel volume Del senso 2 (1983), il quale non a caso nell’edizione italiana porta il sottotitolo Narrativa, modalità, passioni. Alludo a quando il semiologo lituano osserva: 

Il discorso delle scienze umane, lungi dall’essere lineare, appare svolgersi contemporaneamente su diversi livelli, che pur essendo dotati di un’autonomia formale, si intrecciano, si susseguono, si interpretano e si appoggiano gli uni sugli altri garantendo in questo modo la solidità e il progresso – naturalmente relativi – del procedimento a vocazione scientifica.2

Rispetto alla silloge L’ufficio del personale (2014), Lorusso compie un passo ulteriore con Il secchio e lo specchio: lì si consumava, come avverte nella prefazione Daniele Maria Pegorari, «la lenta agonia del soggetto dentro i meccanismi fagocitanti e alienanti del lavoro precarizzato o sfruttato o ricattato», nell’evocare uno «sfacelo personale, scandito dalle ore di un ufficio laico e disperato»; qui trapela, lento e sostanziale tra le righe, nonostante gli ostacoli, un accrescimento di vitalità, un significato dominante della poesia come valido sistema dell’assenza, innocenza della memoria, o dell’esistenza incrementata, di momento in momento, da potenti messaggi innovatori:

Il panno del fiato sulla superficie
combatte i prospetti dal setto preciso,
se l’oggetto ha l’anima di un atomo
deruba tutto fra i sostantivi presenti
e l’odore acre della carne dal gene sano.

Lunghi fusti di canne fumose
è il fregio che tocca a noi patire
ora che la firma delle bandiere
scuote l’aria fiera verso il basso
senza neppure la gloria delle guerre. 

(p. 18)

Dove spogliare la «carne dal gene sano», ossia emanciparla da tanti inganni, dalle apparenze contraffatte? Perché farlo? Perché non? Le aurore, i crepuscoli, scoperti e allontanati da parvenze erronee, sveleranno:

Tutto il seguito impresso sulla tenera massa
rimane nella crosta di un pane poco sano
quello che all’acqua strapperà il raggio delle dita
e il saluto le asciugherà anche da tutto il resto.

(p. 22)

Accompagnati da questa serie di versi, percorriamo un tunnel da un estremo all’altro: al suo interno, dobbiamo purtroppo dimenticare il piacere del corpo – e dell’anima – con una superficie riflettente alle spalle trasformata in specchi ormai sprofondati nell’abisso; intanto, la fatica non blocca il volere, e avanziamo suscitando i ricordi di un giorno magari, per ora, non destinato. Francesco Lorusso vive un’alba non prossima al tramonto, con un gesto di liberalità capace di non mettere a tacere ciò che viene situato in cima alle controversie estetiche, vale a dire l’autentica relazione con gli oggetti stessi. 

Emerge una problematica densa di aspettative: è necessario compiere alcune scelte nell’immediato, non esitando né smarrendosi nel puro arbitrio personale, incomprensibile, come lo scalare una torre d’avorio astratta, svuotata di ogni pregio o valore. 

Francesco Lorusso ha esemplificato l’esperienza vissuta di un siffatto rapporto tra la realtà oggettiva e il punto di vista individuale: 

L’amore per il verso in me è comparso inaspettato, in un ambiente lontanissimo. Provengo da una famiglia di operai e ho intrapreso da subito, per naturale propensione, gli studi tecnico-scientifici, tralasciando quelli umanistici e letterari dove sono risultato zoppo e lacunoso per l’intero percorso scolastico. Accanto però, viaggiava anche la passione per la musica e, in particolare nei primi tempi, per le canzoni, tanto che già da piccolo mi dilettavo a scrivere canzoni, strimpellando da autodidatta la chitarra ereditata dal nonno. Questo prima di iscrivermi al Conservatorio al corso di Canto Lirico e poi proseguire negli studi di Composizione e Direzione di Coro.3

Quindi la sintesi:

Ho cominciato a leggere poesie quando mi sono reso conto che i testi delle mie canzoni si avviavano sempre più alla ripetizione e alla inconsistenza linguistica. Inoltre mi accorgevo che senza un buon verso di partenza, ispirato e illuminante, nemmeno la melodia riusciva a crearsi in me. Lentamente questi appunti di strofe per canzoni hanno cominciato ad avere una loro autonomia, un loro ritmo e una loro musicalità, fino a rinnegare completamente il pentagramma.4

Cos’è accaduto? Francesco Lorusso sembra risentire della questione illustrata da Theodor Adorno negli anni Sessanta. Il filosofo di Francoforte spiegava:

Spesso l’unità dello stile a cui appartiene un’opera – la canalizzazione secondo procedimenti tradizionali – viene equiparata alla sua qualità. Si trascura il fatto che la qualità estetica è il risultato dell’esigenza specifica della singola opera e dell’unità globale dello stile a cui appartiene. La canalizzazione tramite lo stile, le piste battute che consentono di seguirla senza sforzo eccessivo, vengono scambiate con la cosa stessa, con la realizzazione della sua oggettività specifica. La grande arte non si è mai esaurita nella coincidenza della singola opera col suo stile. Lo stile è generato dalla singola opera come questa si costituisce a contatto con lo stile.5

Tornando a Lorusso, l’autore chiarisce: 

Premetto subito che l’approccio con i libri di poesie è sempre stato, e sostanzialmente continua a esserlo, tranne per alcuni casi o periodi, di tipo ludico: non cerco di capire necessariamente un autore o un movimento storico, ma cerco me stesso, il piacere del verso e una eventuale “ispirazione”.6

E il ricorrere frequente del termine parola diviene nucleo cardine in alcuni brani: 

È un panno d’alito il rapido battito
che gioca fra le stanze e il giorno
spazia con la vista il vasto freddo
e ti fissa tra gli occhi l’assenza.
Resisti inutilmente sulle parole
dove adesso allunghi il passo
e ti rendi conto che è solo un inquilino
molesto che ancora ci controlla dalla via.

(p. 25)

Affacciati a una «finestra» inesistente in uno spazio-tempo orientato ma ciclico, con un’ombra sulla mano gestiamo lo strumento della poetica ‘a distanza’. Scopriamo la fronte, il volto, evitiamo di far chiudere gli occhi, solcando un iter familiare comunque perduto in un’altra aura di riferimento, quasi fosse un continente, un campo semantico remoto. Ed ecco il nome della poíesis giungere a noi con musiche essenziali, commoventi, verosimili e struggenti: di conseguenza, da quella «finestra» pare di osservare la pausa di ricreazione di giovani scolari in un intermezzo di dittonghi improvvisati, canti monoritmici ricorrenti:

La lacrima di una finestra in penombra
trepidava nello specchio amaro della via
attraverso un filo ricucito male assieme
agli uomini che dentro vi si muovevano,
poi i discorsi si aprirono ancora sul nuovo
ma la macchia rimase al centro dell’allegria
sola, sulla piastrella fatta con uno strappo
di singhiozzo e carta di fazzoletto buono.
Continua la luce ad umiliarsi con le parole
a saziarsi la pelle con voci modulate anche bene,
mentre fiacca a noi presenzia col suo mistero
l’uso sull’orlo della nostra giacca sempre più liso.

(p. 30)

Le esperienze selezionate nel ventaglio aperto del libro costruiscono così un solido continuum nel reale presente, in cui – con le parole di Umberto Eco – «si fonda la trasposizione metonimica» che procede da «contiguità fattuale o empirica a contiguità di codice» o elemento funzionale allo schema prescelto. 

Nel fondo del «secchio», con un piano di riflessi e riverberi, noi destinatari intercettiamo uno status referenziale di metonimie e metafore non in virtù di naturali parentele logico-causali, ma grazie a sintesi logico-intuitive culturali in una rete di tòpoi estetici coinvolgenti: perché a volte prefigurano un’urgenza di ordine significazionale prima di essere legittimati, definiti e fondati nel peculiare repertorio semiotico delle poetiche. Cerchiamo appunto la sostanza dell’espressione e la forma del contenuto

Nel capitolo Sette interpunzioni strette (contenente altrettante sestine a verso libero) leggiamo: 

e ci stava solo un frammento finito fra le fessure
un luogo comune che ci costava fatica e respiro
il fianco sciupato dalla piega sana del camice
e la narice sottesa sui movimenti senza suono
ad accogliere il rigore composto del nuovo corpo

il foglio buono delle figure fitte ora affastellate 

(p. 36)

Da studentessa, frequentando l’ateneo romano La Sapienza, scorrevo le pagine di Delmore Schwartz, scrittore statunitense di origini rumene, di rilievo degli anni Cinquanta. Cito alcuni passi della poesia «Calmly We Walk through This April’s Day» («Tranquillamente passeggiamo in questo giorno d’aprile»), dove alcuni gruppi semantici del testo sembrano rievocare il viaggio di riconoscimento tra quello che è sarà, autentico Leitmotiv dell’antologia di Francesco Lorusso: 

What will become of you and me
(This is the school in which we learn …)
Besides the photo and the memory?
(… that time is the fire in which we burn.)

[…]

(This is the school in which we learn …)
What is the self amid this blaze?
What am I now that I was then
Which I shall suffer and act again, 
[…]
The children shouting are bright as they run 
(This is the school in which they learn …) 

[…]

May memory restore again and again
The smallest color of the smallest day: 
Time is the school in which we learn,
Time is the fire in which we burn.7

~  ~  ~

Cosa rimarrà di me e te
(Questa è la scuola in cui impariamo …)
Oltre alla foto e alla memoria?
(… quel tempo è il fuoco in cui bruciamo.)

[…]

(Questa è la scuola in cui impariamo …)
Qual è il sé in mezzo a questo incendio?
Cosa sono ora che ero anche allora
Per cui dovrò soffrire e agire ancora?
[…]
I bambini che strillano sono splendidi mentre corrono
(Questa è la scuola in cui imparano…)

[…]

Che la memoria continui a rinnovare
Il colore più leggero del giorno più breve:
Il tempo è la scuola in cui impariamo,
Il tempo è il fuoco in cui bruciamo.

Cosa rimarrà di noi, dopo queste strofe, tra l’una e l’altra, domato l’incendio delle passioni, in fondo al contenitore delle notizie ripetute per difenderle e non farle morire, nella scuola della vita da esse promossa? Rimarrà, può darsi, quel «sé», o «self», garanzia della necessità delle informazioni ricavate, le quali – una volta scoperte – arricchiscono di certo la nostra conoscenza in giudizi fattuali o in divenire, riflessivi e auto-riflessivi, tipici di un point of view del mondo aperto: dove vari aspetti della cultura (in specie, musica e letteratura) sono esplicitate dalla qualità di processi comunicativi dialettici, con spazio equamente suddiviso tra coloro che parlano, ascoltano, meditano sulla sostanza dell’espressione e sulla forma del contenuto. 

Spalancato così il sipario anche sulla parte delle Sette interpunzioni strette, nel quinto brano percepiamo un’atmosfera adeguata a immergere il lettore in un filo di respiro tra il vero e il falso, l’input onirico e di coscienza, infine il target genuino e quello condizionato: 

in un filo di respiro torna questo giorno impensierito
soccorso sempre in un’aria solitaria che ti appartiene
imprecando attraverso tutta la linea del tuo calendario
che ti chiamava tra i tanti nomi e il vivace sorriso amato
mentre un’acqua aspetta alla porta deserta e silenziosa

ma il suono delle corde non pone più la mano sul tuo petto 

(p. 39)

In conclusione, però, tutto aveva avuto inizio con l’epigrafe, nelle parole del Poema senza eroe di Anna Achmatova: «A quel che gli specchi riflettono è meglio non pensare». Lorusso vi ritorna nella prima parte del libro, descrivendo «specchi doppi oramai grigi di luce», tali da sembrare «simili alle grinze che ci cuce la sorte». La sfida è strumentale: insieme al nostro poeta, abbiamo così accolto in ogni rispecchiamento l’esortazione ad afferrare lo scarto di differenza – generatore di poesia – tra rappresentante e rappresentato. 


(Aprile 2019)

(Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione nella stesura del testo).


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