mercoledì 1 maggio 2019

FLORIANO ROMBOLI LEGGE: "I DINTORNI DELLA SOLITUDINE" DI N. PARDINI


Nazario Pardini, I dintorni della solitudine, Guido Miano Editore, Milano, 2019, pp. 103


Mi è capitato in più di un’occasione di sottolineare il fatto che la ricerca poetica di Nazario Pardini risulta caratterizzata da forti elementi di continuità tanto in senso formale-stilistico che ideale-problematico.
Anche nella silloge più recente, I dintorni della solitudine, il riferimento alla natura si dimostra primario nella sua dimensione di contesto privilegiato dell’espressione oggettivata degli stati interiori, di àmbito dell’esplicitazione coinvolgente delle varie situazioni sentimentali-morali:

Andiamo lenti, Delia, il cielo è caldo,
lungo è il cammino e ancóra in lontananza
la brezza della foce. Guarda al lato:
le chiome dei pinastri fanno attorno
ombre rotonde olezzanti ragia
mista al respiro fresco di marina.
E’ l’ora di nascondere le membra
fra i rami del corbezzolo e il ginepro,
è l’ora di dar quiete ai desideri
che dentro noi si affacciano con impeto (…)
Sugli aghi dei pinastri ormai ingialliti
riposeranno il cuore e la passione (…)
Andiamo, guarda, ora, si fa rosso,
l’orizzonte ci chiama; camminiamo
sul sentiero renoso, riprendiamo…( Verso la foce, vv. 1-10, 14-15 e 21-23 )

Torna in tali versi la sollecitazione vitalistica, il moto conativo e partecipativo proprî, fin dai testi d’esordio, del discorso lirico pardiniano: l’acuto desiderio d’immedesimazione si precisa come aspirazione panica, come un bisogno di fusione, di “mescolanza” disindividualizzante, ad esempio dinanzi al fiume Serchio in piena:

Piove a dirotto stamani, ed il Serchio
gonfia il suo letto (…)
Niente risparmia l’acqua inferocita,
tutto porta con sé, alla deriva.
Qui dall’argine l’occhio si spaventa
a mirare la potenza che sprigiona (…)
Mi sposto, e vado svelto a miscelarmi
alla furia spaventosa della foce.
Tira Tramontana, se Dio vuole,
fosse Libeccio chissà che inondazione (…)
 Odori di salmastro e d’acqua smossa, 
di erbe trascinate contro voglia,
mi invadono narici. E mi confondo
con tutto quel fracasso naturale:
divento un ramoscello in mezzo al mare ( La piena del Serchio, vv. 1-2, 6-9, 14-17 e 21-25, corsivi miei )

Ritengo tuttavia centrale nella raccolta che ora ci occupa l’inclinazione metodica del poeta a un interscambio intenso fra realtà naturale e oggettiva, e umanità: alla strategia  della naturalizzazione degli atteggiamenti umani  corrisponde,  in significativa antitesi,  la rappresentazione soffertamente antropizzata dei paesaggi (“E’ lo stradone./ Ci passavano  carri ed asinelli,/ con ceste  di raccolti;/ era un viavai. Riflette su se stesso,/ sulla sua solitudine./ Si sente abbandonato. Guarda i campi/ senz’anima vivente. Aspetta solo/ che qualcuno lo ricordi, ripercorra,/ magari anche a piedi, il suo tragitto”, Lo stradone, vv. 4-12), o tout court degli animali, come il cane Pandoro (“Ha nella testa un volto che lo amò,/ un volto che chiedeva compagnia,/ una mano lesta a stropicciarlo./ Per lui ad ogni arrivo era una festa,/ ed è convinto che lo rivedrà”, Pandoro, vv. 7-11), e altresì  degli oggetti, quali una vecchia giacca, una casa, un aratro, una falce:

Nel mezzo ai tanti attrezzi è lì un po’ triste
il falcione che più profuma d’erba (…)
La lama arrugginita pare cinta
da un’aria d’abbandono. Nel cortile
l’ho portato, all’aperto, fra i richiami
di paperi e galline. Riluceva;
mi sembrava felice; era una spera ( Il falcione, vv.1-2 e 12-16 )

Gli oggetti nell’elaborazione artistico-letteraria di Pardini si segnalano per la loro concreta, empirica determinatezza, lontana dalle raffigurazioni di ascendenza decadentistica e pascoliana, improntate alla vaghezza delle situazioni d’assieme e proprio per questo cariche di indefinite suggestioni emotive, di avvolgenti significazioni simboliche; nondimeno anche il loro specifico delinearsi nelle pagine del moderno autore toscano è in funzione di una chiara e coerente concezione della realtà: quest’ultima appare infatti percorsa da un’intima dinamica energetica, da un élan espansivo, insofferente di ostacoli, argini, limiti (“L’inquieto stare chiuso dagli scogli/ senza poter sfuggire oltre le sponde”, La solitudine del mare, vv. 40-41, cors. mio), teso a prorompere e a dilagare:

…Ora son qui
che ti vivo appassito dentro gli argini
stanchi di contenerti. Forse un giorno,
come spesso hai tentato, romperai
 la loro cocciutaggine. Verserai
il tuo letto nei campi per disperdere
memorie ormai sfuocate; per concederti 
a quella terra a cui donasti il sangue,
per non lasciare a un mare senza fini
la sacca dei tuoi anni; felice di non chiuderli
in una immensità che ti rapina ( In una immensità che ti rapina, vv. 20-30, corsivi miei )

Un movimento siffatto non è comunque costante, poiché può conoscere momenti di “caduta”, di ripiegamento, di pausa iflessiva, di solitudine meditativa: allora il recupero memoriale, la riappropriazione intellettuale delle esperienze occorse costituiranno occasioni preziose per riviverle, potenziandone magari, nel ricordo, il valore etico e affettivo:

…Ed il ricordo
l’ho in saccoccia cogli altri (…)
…Ogni tanto
me ne riprendo uno come quando
si gioca con i petali sui prati.
E’ come ripescare un angolino
della vita. E’ come riviverla
col supporto fecondo dei ricordi.
 Allungarla? Chissà…    ( Vis à vis con la sorte, vv. 19-20 e 23-29, corsivi miei )

Altrove sembra che lo scrittore affermi la superiorità di un episodio seducente della vita a petto della memoria, per quanto deliziosa e confortante, del medesimo:

…E se per caso
ti trovi ad abbracciare una compagna
che ti rende felice, vivi l’attimo,
non ti chiedere altro; non pensare
alla miseria umana, al suo degrado,
 fingi che quel momento sia per sempre.
E’ l’unico sistema per fregare
lo scettro imperituro della sorte ( La poesia si scrive, vv. 17-24, corsivi miei )

Non vedo in questo un’apprezzabile contraddizione, data la caratteristica diadica e non dialettica della poesia di Pardini; questi, molto sensibile ai dati contrastanti, alle antitesi che contraddistinguono la vicenda naturale e umana, non è in egual modo predisposto alla necessità della sintesi, pur nel rifiuto convinto di una posizione ispirata a semplicistico, scontato scetticismo.
E’  interessante al riguardo il componimento  che sin  dal titolo rivela uno scoperto  impianto  montaliano  (“ Non domandarmi  cose a cui è impossibile/ poter dare risposte; non ce n’è”, Non chiedermi, vv. 1-2) e una solida struttura gnoseologica e argomentativa, non priva di stimolanti allusioni nietzschiane e heideggeriane:

…Non chiedermi i perché
di questa vita tanto imperscrutabile,
di un cammino ridotto a brevi spazi,
di un sentimento che ci rende tristi,
di una solitudine che lega
il nostro magro essere all’esistere  ( ivi, vv. 14-19, corsivi miei )

A differenza del grande poeta degli  Ossi di seppia, il netto ridimensionamento del quadro conoscitivo non implica nel “pensiero di un uomo troppo umano” come l’autore de I dintorni della solitudine esiti di conclamata negatività: costui perviene infine a un equilibrio fatto di saggezza concreta e positiva:
Ti posso dire solo delle cose
che mi sono vicine e che hanno un corpo,
ma non dei grandi spazi e dei tormenti
che provo innanzi a notti senza fine 
( ivi, vv. 26-29)                                                                           Floriano  Romboli


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3 commenti:

  1. Nota critica e analitica coinvolgente, acquisterò il libro del professor Pardini.

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  2. Grazie di questo regalo: affascinante esegesi!
    Rita Fulvia Fazio

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  3. Grazie di questo regalo: affascinante il linguaggio, l'espressività e la completezza dell'esegesi!
    Rita Fulvia Fazio

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