Il
giardino della vita.
Avevano portato via la mamma. Era un giorno nuvoloso,
cupo. Ella aveva tossito più forte del solito, poi in un rantolo era ricaduta
sul guanciale, e aveva chiuso gli occhi per sempre. Giannino non capì subito il
dramma che si era consumato in pochi istanti. Ma quando due uomini, senza dir
parola, ebbero chiuso la sua mamma in una semplice bara di legno scuro, e ne
ebbero inchiodato il coperchio, allora comprese. Nessuno gli aveva mai parlato
della morte, ma capì tutto ugualmente: capì che la mamma non sarebbe mai più
tornata.
Rimase solo, solo nella piccola casa povera e fredda.
Nella madia c’era ancora il pane che la madre febbricitante aveva impastato a fatica. Quel pane per Giannino era sacro. La mamma non c’era più, ma in quel pane, dove ella aveva impresso col coltello una grande croce, c’era ancora la benedizione del suo cuore, l’ultima benedizione.
Giannino ne prendeva poco alla volta, per timore che finisse troppo presto. Chi, infatti, avrebbe impastato altro pane quando quello fosse finito? E così il piccino, ogni giorno, tagliava una fettina sottile sottile da una delle grosse pagnotte, la baciava, poi, con le lacrime agli occhi, la mangiucchiava lentamente, mentre il cuore gli batteva forte e si riempiva di tristezza.
Rimase solo, solo nella piccola casa povera e fredda.
Nella madia c’era ancora il pane che la madre febbricitante aveva impastato a fatica. Quel pane per Giannino era sacro. La mamma non c’era più, ma in quel pane, dove ella aveva impresso col coltello una grande croce, c’era ancora la benedizione del suo cuore, l’ultima benedizione.
Giannino ne prendeva poco alla volta, per timore che finisse troppo presto. Chi, infatti, avrebbe impastato altro pane quando quello fosse finito? E così il piccino, ogni giorno, tagliava una fettina sottile sottile da una delle grosse pagnotte, la baciava, poi, con le lacrime agli occhi, la mangiucchiava lentamente, mentre il cuore gli batteva forte e si riempiva di tristezza.
Di giorno Giannino ripuliva
la casa, badava alle galline, strappava le erbacce dell’orto, innaffiava il
radicchio e i cavoli. La luce del sole gli teneva compagnia: veniva dall’alto
quella luce, dal cielo…. E a volte il piccino si figurava che quella luce gli
portasse i baci della sua mamma che era volata in Paradiso. E allora guardava
in alto, tra le nuvole bianche che sembravano danzare nell’azzurro del cielo e
si prendevano per mano e parevano inginocchiarsi come candide anime intorno al
sole. Guardava a lungo, fissamente, e talvolta gli pareva di raffigurare in una
di quelle nuvole il dolce viso sorridente della madre morta.
Ma la sera, quando sulla
casa, sull’orto, su tutta la montagna scendevano le tenebre e i fantasmi
paurosi della notte cominciavano a vagare lentamente per l’aria, Giannino, che
non possedeva neppure un mozzicone di candela, cominciava ad aver paura. Ogni
minimo rumore, persino lo stormire delle foglie secche dell’orto, il vento, che
entrava fischiando flebilmente per la gola nera del camino spento, tutto gli
metteva in cuore un terrore infinito. Ed egli, rannicchiato sotto le scarse
coperte, si turava le orecchie per non udire nulla, e rimaneva così per molte
ore, fino a che il sonno gli veniva a chiudere gli occhi brucianti per
l’ansiosa veglia.
Ed ecco che una sera gli
parve di udire qualcuno bussare all’uscio.
Il sangue gli si gelò nelle
vene ed il cuore cominciò a martellargli forte. Passarono alcuni secondi, e
poiché non udì più nulla, disse tra sé, rincuorato: “Sarà stato il vento!” E,
per non sentire, si turò le orecchie più forte che poté con le mani. Ma di lì a
poco si udì picchiare di nuovo all’uscio. Stavolta Giannino balzò a sedere sul
letto e si pose in ascolto: un lieve mugolio, simile ad una voce umana
affievolita dal vento, giungeva dall’uscio. Forse un lamento! Forse una
preghiera!
“Coraggio, Giannino!
Alzati!” gli sussurrò una voce dal più profondo del cuore. Fu in piedi. Si
mosse, s’appostò dietro l’uscio, cercò di farsi coraggio e domandò: “Chi è?”
Una voce d’uomo, grave, ma
infinitamente dolce, lo rassicurò: “Apri l’uscio e non temere!”
Giannino aprì. Un’ombra
nera, grossa, alta, si profilò nel rettangolo dell’entrata, schiarita dalla
pallida luce d’una falce di luna.
“E tu stai qui al buio,
marmocchio?” chiese lo sconosciuto, entrando a tentoni nella casa scura, con un
vocione che fece tremare le pareti.
“Non ho neppure una
candela…” rispose Giannino con voce tremante.
L’uomo aspettò un poco,
come per pensare. Poi domandò: “E così le notti te le passi sempre al buio?”
“Sempre, signore!”
“Non hai nessuno?”
“Nessuno! Mia madre… è
morta da pochi giorni!” Spiegò Giannino in un sospiro.
“Povero ragazzo! Me ne
dispiace davvero! Come ti chiami?”
“Giannino” rispose il
ragazzo con un po’ di timore.
Passarono pochi minuti di
silenzio, come se ciascuno dei due pensasse a tutt’altra cosa che al buio.
Poi l’uomo fu il primo a
rompere il silenzio, e disse:” Chiudi gli occhi, e non aprirli finché non te lo
dirò io.”
Giannino chiuse gli occhi.
Quando li riaprì vide dinanzi a sé un uomo alto e anziano, che gli sorrideva e
teneva nella mano sinistra una grossa lampada, che inondava la stanza di una
gran luce, chiara, forte e viva come quella del sole. Giannino non credeva ai suoi
occhi. Mai le candele della sua povera mamma avevano mandato tanto chiarore.
Quelle davano una luce lieve, tremolante, e costavano molto, e la mamma ogni
sera si affrettava a soffiarci sopra perché non si consumassero troppo. Quella
lampada invece illuminava tutti gli angoli della stanza, proprio come se si
fosse improvvisamente fatto giorno, con la sola differenza che questa era una
luce più viva, più forte, come se lo sconosciuto avesse in mano un pezzo di
sole.
Giannino era ammaliato, e
guardava ora la lampada ora l’uomo, senza osare dir nulla. Ma l’uomo gli si
fece vicino, lo prese per mano e lo invitò a sedersi accanto a sé, dinanzi al
focolare; poi posò delicatamente la lampada meravigliosa sulle ceneri spente.
Si sprigionò allora da essa un tepore insolito, e Giannino stese a quel calore
le fredde manine come dinanzi ad una fiamma. Lo sconosciuto intanto aveva
posato sulle sue spalle la sua grossa mano, e ogni tanto lo andava carezzando
affettuosamente sui riccioli scompigliati. Giannino ebbe la sensazione di
tornare indietro nel tempo, quando, insieme alla madre, si sedeva accanto al
fuoco, che ballonzolava sul ceppo, e sentiva la mano di lei carezzargli il
capo. Entrò allora nel suo cuore una grande dolcezza, e, quando lo sconosciuto
lo chiamò imperiosamente per nome, lo guardò senza timore negli occhi, e
sorrise. L’uomo disse: “Ti piace?”
“Oh, tanto!” E’ una luce
veramente prodigiosa! E poi dà anche calore…. Ma dove l’avete presa?”
“Non l’ho presa!” rispose
l’uomo un po’ bruscamente. “E’ mia! E sai come si chiama?”
Giannino lo guardò in volto
coi suoi grandi occhi stupiti, ansioso di sentirne il nome.
“E’ la lampada della vita!”
esclamò lo sconosciuto. Poi tacque, chinò il capo, e rimase così, a lungo, come
assorto in profondi pensieri, con le grosse mani bianche poggiate sulle
ginocchia. Veramente il ragazzo avrebbe desiderato una migliore spiegazione, ma
poiché lo sconosciuto aveva l’aria di chi non ha troppa voglia di parlare, si
accontentò di contemplare il lume e sentirne il prodigioso calore, che in breve
tempo aveva inondata di tepore tutta la stanza. D’un tratto l’uomo alzò il
capo, quasi di scatto, cacciò le sue grosse mani nelle profonde saccocce del
pastrano, fissò il piccino negli occhi e disse: “Sono stanco, molto stanco,
Giannino. Ho camminato moltissimo. Ho percorso valli, monti, grandi pianure. Ho
guadato dieci fiumi e dieci laghi, ho attraversato un deserto, poi ancora
valli, pianure, monti. Ed ora sono qui.”
“E da dove venite allora?
Certo da molto lontano. Poveretto! Dovete essere molto stanco davvero!” si
affrettò a dire premurosamente Giannino, alzandosi in piedi e piantandosi di
fronte allo sconosciuto, come in attesa di ordini.
“Vengo dal Monte del
Mistero.” Spiegò lo sconosciuto sospirando profondamente. Poi proseguì a bassa
voce come se parlasse a se stesso: “Sono vecchio ormai, molto vecchio…. Ho
cercato per settimane e settimane un fanciullo che fosse degno di diventare il
mio erede, il re del giardino che tra breve devo lasciare. Nessuno ho trovato,
proprio nessuno: cattiveria, malignità, disubbidienza, invidia, superbia,
avarizia, egoismo: ecco i princìpi che oggi governano il mondo.”
Giannino avrebbe voluto
domandare che razza di princìpi fossero quelli che aveva nominato, ma ebbe
vergogna della propria ignoranza, si fece rosso rosso in viso e tacque. Ma lo
straniero sollevò il capo con decisione, aggrottò un poco le ciglia, poi disse:
“Ci vuol altro, ci vuol altro per diventare il re del mi giardino, il re del
giardino della vita! Per tanto tempo ho cercato: nulla! Ho percorso vie
lunghissime, interminabili; ho cercato nelle campagne, nelle città, sui monti:
nulla! E adesso sono stanco, tanto stanco! Ed ho fame, molta fame!”
“Se lo gradite… nella madia
c’è ancora un cantuccio di pane. E’ molto duro, ma se avete tanta fame…” propose
Giannino, vergognoso di non avere nulla di meglio da offrire.
“Dammelo!” ordinò
bruscamente l’uomo. Giannino aprì la madia e ne trasse l’ultimo pezzo di pane.
Col cuore che gli batteva forte, lo baciò, poi lo porse allo straniero.
“Perché lo hai baciato?”
domandò l’uomo incuriosito.
Giannino sorrise
mestamente, poi soggiunse: “Vi dirò, buon uomo: è il pane che fece mia madre
due giorni avanti prima di morire. Aveva la febbre molto alta quel giorno, e
ansimava per liberare le mani dalla pasta. Poi fece il segno della croce sui
cinque pani: è pane benedetto, signore!”
“E’ proprio così, è pane
benedetto!” ripeté l’uomo. Poi chiese: “E per te non ne hai dell’altro?”
“No, è questo l’ultimo.”
Lo sconosciuto non parve
interessarsi granché alla risposta. Ma cominciò ad addentare con voracità il
pane, che scricchiolava sotto i suoi denti, e in un batter d’occhio lo divorò.
Poi esclamò: “E’ ottimo questo pane! Il pane della bontà e del sacrificio è
migliore di qualunque altro.” E dopo una breve pausa soggiunse: “Ora,
marmocchio, puoi ben tornartene a letto. Io, se non ti dispiace, passerò la
notte sdraiato su questa panca. Ho le membra tanto stanche che dormirei
ugualmente bene su un materasso di piume come su un mucchio di spine. Va’, va’
pure!”
“Su questa panca voi?
Coricatevi piuttosto sul mio letto. Io dormirò a meraviglia sulla panca. Voi
siete vecchio e stanco: avete bisogno di riposare bene.”
“Parli come un libro
stampato, Giannino. Si vede proprio che hai buon cuore, ed io farò come tu
dici” disse allora il vecchio sorridendo. E andò a coricarsi sul letto.
Al mattino, di buon’ora, lo
straniero era già in piedi. Giannino andò a salutarlo nella sua stanza per
chiedere se avesse riposato bene durante la notte e se le poche coperte del
letto fossero state sufficienti a riscaldarlo. Il vecchio assicurò che meglio
di quella notte non aveva mai dormito in vita sua, e di ciò il ragazzo si
mostrò molto soddisfatto. Poi, quando vide che il forestiero stentava a
curvarsi per allacciarsi le scarpe, si inginocchiò davanti a lui e gliele legò.
Ho proprio le reni
spezzate. E’ inutile, sono vecchio, troppo vecchio, ormai. E poi tante
settimane di cammino, con ogni tempo, ammazzerebbero anche un giovane. Oh, se
avessi saputo che qui avrei trovato il mio erede, non avrei fatto tanta
strada!”
Giannino stavolta lo guardò
con occhi pieni di meraviglia come se quello avesse detto una sciocchezza, poi
chiese timidamente: “Il vostro erede? Chi sarà il vostro erede?”
“Sarai tu, figliuolo!”
esclamò allora il vegliardo, poggiandogli le due mani sul capo ricciuto come
per benedirlo. Poi trasse un profondo sospiro e soggiunse solennemente, alzando
gli occhi verso il cielo: “Solo la vera bontà è degna d’essere ricompensata da
Dio.”
Giannino si fece rosso in
viso per la gioia, ma, timoroso che il vecchio vedesse quel rossore e ne
rimanesse disgustato, abbassò il capo e disse: “Allora potrò venire con voi….
Non avrete a lamentarvi di me: farò tutto quello che vorrete. Voi siete
vecchio: io lavorerò per voi.”
“Caro ragazzo! Non dovrai
lavorare, non ne avrai bisogno…. Per me… io ho ancora poco tempo da vivere su
questa terra…. Ma già, ora non è tempo di abbandonarsi a malinconie. Ho trovato
il mio erede e sono felice anche se la mia vita sta per concludersi. Prendi
nella tua mano questa lampada, poggia i tuoi piedi sui miei, chiudi gli occhi e
tieniti ben stretto a me.” disse frettolosamente il vecchio. Giannino obbedì… e
quando riaprì gli occhi….
Ecco Giannino nel grande
palazzo di Emanuele (così si chiamava il vecchio). Era un palazzo meraviglioso,
tutto marmi ed ori preziosi. Un cameriere era pronto a qualunque servigio.
Giannino, il piccolo
montanaro, che nulla conosceva all’infuori della sua stamberga, del suo orto e
delle sue galline, guardava tutte quelle meraviglie con occhi increduli e spauriti,
e si interessava più che altro a guardare le innumerevoli fotografie di bambini
appese alle pareti. Erano bimbi paffuti, biondi e bruni, sorridenti, dai grandi
occhi azzurri, pieni di una grande luce. Il vecchio Emanuele era sempre vicino
al ragazzo, gli mostrava tutte le cose, gli dava mille spiegazioni, proprio
come un buon padre, il quale vuole che il figlio impari e si istruisca. Così
Giannino capì il significato di quella palla verde e azzurra che si chiama
mappamondo, imparò a trovarvi i nomi delle varie regioni e finalmente capì che
il mondo non comprendeva soltanto la sua vecchia casa ed il suo orto, ma era
grandissimo, che aveva la forma di un gigantesco pallone e si manteneva librato
nell’aria per opera e volontà del Creatore.
In breve tempo imparò a
leggere e scrivere e cominciò a conoscere anche qualche lingua diversa dalla
sua. Emanuele gli insegnava tutte quelle belle cose con tanto amore, e Giannino
apprendeva con gioia, lieto giorno per giorno, di diventare sempre più bravo e
più istruito. Emanuele gli batteva spesso affettuosamente la palma della mano
destra sulle spalle e lo accarezzava. Un giorno gli disse: “Sei intelligente e
studioso. Sarai degno erede del mio grande giardino, del giardino della vita!”
Poi proseguì con voce bassa, che pareva tremare un poco: “Quando sarà la luna
piena, a mezzanotte ti verrò a svegliare, e ti condurrò a visitare il giardino
della vita: allora vedrai la più grande meraviglia del mondo, quella che
nessuno ha mai visto all’infuori di questi miei occhi stanchi; allora
diventerai il re di questo giardino e io ti lascerò per sempre….”
Giannino, nel sentire queste ultime parole, ebbe un
brivido, non fu capace di profferire sillaba, e rimase gran tempo a guardare il
viso dolce e buono del suo benefattore con la bocca aperta e gli occhi attenti.
Poi Emanuele gli sorrise, ma, pur nel sorriso, una lacrima scese dai suoi
occhi. Giannino capì e allora, scattando in piedi, corse a stringerlo tra le
braccia: “Non voglio! Non voglio! Non dovete morire, né io voglio diventare il
vostro erede: voi sarete il mio re ed io il vostro suddito fedele per sempre!”
Il buon vecchio lo accarezzò sui riccioli bruni, poi
gli sollevò delicatamente il viso e lo guardò negli occhi: “Non devi opporti,
Giannino! Questo è il volere di Dio, e a questo volere dobbiamo inchinarci. E’
legge eterna che il vecchio deve morire per dar posto al giovane, ed io morirò
contento perché ho trovato un fanciullo degno di diventare quello ch’io fui,
perché sono stanco, molto stanco. Ho veramente bisogno del riposo eterno!”
Suonò mezzanotte. Emanuele,
a passo lento e silenzioso entrò nella stanza di Giannino per svegliarlo, ma
non vi fu bisogno di chiamarlo neppure una volta perché il fanciullo quella
sera non s’era potuto addormentare.
“Andiamo! E’ l’ora!” disse
il vecchio con una voce più dolce del solito “in cielo è alta la luna piena, e
le stelle, tremule e chiare, le fanno degna corona. Questa è l’ora, nella quale
tu diventerai il re del giardino della vita.”
Giannino si alzò, ma si
vestì lentamente, perché il cuore gli martellava forte nel petto e le sue gambe
tremavano.
Scesero silenziosi nel
giardino. La luna lo illuminava in pieno, sì che si poteva veder tutto
chiaramente come se fosse stato giorno. Emanuele andava innanzi, alzando e
abbassando il braccio destro con moto solenne, come in un’ultima benedizione.
Giannino lo seguiva. Qua e là dal terreno erboso e soffice, si ergevano strane
piante dal fusto scuro e grosso, dalle grandi foglie squamose, irte di grosse
spine pungenti. In cima ad ogni pianta c’era un superbo fiore, formato da sei
grandissimi petali, più candidi del giglio, i quali, alla luce della luna,
avevano dei riflessi dorati, ma non erano aperti, bensì erano chiusi a formare
come un grande bocciolo.
Un delicato profumo, simile
a quello delle viole, emanava da quegli strani fiori, e sotto ogni piante c’era
una grossa lampada accesa. Ad un tratto Emanuele si fermò, posò una mano sul
capo di Giannino e poi disse: “Io ti consacro re di questo giardino. Da
stanotte tu ne conoscerai tutte le meraviglie. Le lampade che vedi ai piedi di
ciascuna pianta sono identiche a quella che portavo con me quando venni a
bussare al tuo lontano casolare. Anche tu, se dovrai allontanarti di qui, ne
porterai sempre una con te; se non lo farai, questo giardino scomparirà e tutta
la vita del mondo si paralizzerà e verrà la fine di tutto. Ogni notte di luna
piena, a mezzanotte, tu dovrai scendere da solo in questo giardino e ti
accorgerai che al tuo passaggio tutte le lampade si accenderanno. Il
significato di questo fiore ti sarà noto tra poco.”
Così detto, lo prese per
mano e lo condusse al centro del giardino, dove era un grande albero privo di
foglie, ma ricco di grandi fiori rossi di fiamma, i quali scintillavano d’una
purpurea luce e spandevano intorno un profumo inebriante. Appollaiate sul ramo
più alto c’erano tante cicogne bianche che, quando videro apparire Emanuele e
Giannino, non si spaventarono affatto, anzi cominciarono ad agitare le ali e
far dondolare aritmicamente, come in una strana danza, la testa e il lungo
becco.
Il vecchio appariva più
stanco del solito, quasi estenuato. La sua voce s’era fatta flebile, e parlava
lentamente, quasi a fatica. Sulla sua fronte luccicavano, al lume della luna,
grosse gocce di sudore che parevano perle opalescenti.
“Tra poco saprai tutta la
verità del mistero che ci circonda!” disse a Giannino con profonda dolcezza, e
posò una mano sulla sua spalla. Il fanciullo non ardiva parlare, come se avesse
avuto timore di contaminare con la sua voce profana la solennità di quell’ora.
Ed ecco che ad un tratto, una bianca cicogna scende dall’albero, vola, librando
lentamente nell’aria le sue grandi ali, e si posa sopra uno di quei fiori.
Questo immediatamente si apre. Emanuele, come preso da una fretta improvvisa,
stringe per mano il fanciullo e lo conduce accanto alla cicogna. Guardano:
nella cavità profonda del gigantesco fiore bianco vagisce un piccolissimo
essere biondo ricoperto di candidi veli. L’uccello lo afferra col suo
lunghissimo becco e lo posa nelle mani di Emanuele, che le aveva tese per
raccoglierlo. Poi il vecchio si inginocchia, mormora una preghiera e da ultimo
solleva al cielo il bambino come per offrirlo al Creatore. Quindi lo affida al
becco della cicogna, che immediatamente spicca il volo e in breve si perde nei
cieli lontani.
Emanuele sospirò
profondamente, alzo al cielo i suoi occhi buoni sui quali luccicavano due
lacrime ed esclamò: “Ora un padre e una madre sono felici!”
“Ricordati, Giannino, che
se vuoi essere degno re di questo giardino d’incanto che a nessuno al mondo è
dato vedere, serba la tua anima pura come questi candidi fiori che accolgono
tanti piccoli esseri preziosi, e ama il tuo prossimo di un grande amore, perché
l’amore è gradito a Dio.”
Così detto scomparve
misteriosamente. Solo allora Giannino capì la triste verità e pianse a lungo
mentre la luna in cielo sorrideva felice, e le cicogne andavano e venivano.
Al sorgere del sole
Giannino si avviò lentamente verso il grande palazzo e per vari giorni pianse
la perdita del suo più grande amico, che gli era stato padre, madre e fratello
e capì che è proprio vero che la felicità non viene mai da sola, ma è sempre
accompagnata da qualche dolore.
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