mercoledì 5 novembre 2014

ANNA SANTARELLI SU "TRE TESTI DI N. PARDINI"

 Carissimo Prof. Pardini

È stato un privilegio, per me, leggere i suoi tre libri “Le simulazioni dell’azzurro”, “Scampoli serali di un venditore di arazzi”, “Dicotomie”. Una preziosa testimonianza di arte e di vita.
Mi hanno colpito la vastità della sua produzione poetica, la grande vitalità creativa, l’ancoraggio alla memoria personale. La capacità di parlare all’anima del lettore.
In un tempo in cui proliferano poesie-prosa e testi senz’anima, ove la parola si smarca dal soggetto e diviene fine a se stessa, la sua è una poesia sincera, diffonde valori e significati, si attualizza e si rinnova nel cuore di chi legge.
Strada facendo, ho sentito vicini alla mia sensibilità il fascino e “la ricchezza della sera”,  l’amore per le stagioni (soprattutto l’autunno) e per quella natura che ci parla in mille modi. E’ stato un percorso intenso, volto a scoprire “l’ultima rosetta”, “i girasoli in processione”, il verde che “esplode … poi a settembre  … si concede all’ultimo tremore”, “l’antico profumo di gramigna”, “il respiro acutissimo del mare”.
Molte sono le poesie che mi sono rimaste nel cuore. Nel volume “Le simulazioni dell’azzurro” ho letto liriche di straordinaria intensità. Cito “Piazza Belvedere”, “Gente di casa mia”, “Giovinezza”, “Certe volte”: “Io fui con la mia storia questa gente: / mi adirai soffrii amai percorsi lunghi tratti / con lo sguardo rivolto a indagare”. Sempre porterò con me “Non è mestiere”: “Stare a predare nella notte da soli / luminescenze a lampade di frodo / non è mestiere per chi ama la vita”. Tra questi versi si coglie tutto  lo spessore di un uomo e di un poeta.
Nel libro “Scampoli serali di un venditore di arazzi” ho molto apprezzato gli spunti meditativi in “Dichiaro di esistere”, “Vorrei tanto leggere il profilo”, “Se l’aria ci è propizia”, vibrante colloquio con l’anima al cospetto del tempo che scorre, oltre al ricordo vivo dei suoi genitori nelle liriche “La voce” e “Per la morte di mio padre”.
“Dicotomie” mi ha regalato gli interrogativi di “Esisto?”, la bellezza struggente di “Testamento” e ancora sulle orme di quella memoria che s’apre al presente e al futuro “Il potere dell’immagine”, forse la più bella poesia della raccolta. “…Rinati / andremo contro il tempo. Torneremo / sul colle delle acacie, quando l’astro / fermerà la caduta all’orizzonte”. Come a ritrovare il filo d’una storia, il senso dell’esistere.
Di grande impatto lirico ed emozionale i testi dedicati al mare: “Sul mare di settembre”, “Colloquio con il mare” (“Dimmi, quindi, anche stamani / qualcosa del colore / che ti frantuma a sera / qualcosa del tramonto, / per te solo bellezza, forse / per me giorno che fugge”), “La stagione del mare”.
Ancora in “Dicotomie” mi ha colpito il realismo vivo di “Beppe”, la sua storia, il sogno infranto, la terra riabbracciata prima di morire.
Se il poeta chiede alla morte “ritarda la meta di un attimo solo / che finisca i miei versi” e lei acconsente, vuol dire che la poesia non muore, varca i confini, congiunge questa terra e l’infinito.
Il suo poetare, caro Pardini, merita i riconoscimenti che ha avuto per tanti motivi: è umano, radicato nella terra e rivolto verso il cielo, riunisce mille aspetti: ricordi, episodi del presente, elementi del mito, dolori e speranze. Nel segno di una vita vissuta e amata.

Rieti, 3 novembre 2014

                                                   Anna Santarelli





La ricchezza della sera


Sono di nuovo da te dopo il viaggio. Lungo          
viaggio tra sirene e scogli
su mari in bonaccia o gonfi di venti
che una sorte ostile scagliò sulle vele
spesso errabonde. Sono tornato alle tue mura
città che mi contieni. Ti ricordi? Alla partenza
vibrava d’incoscienza e voglia di conoscere il mio animo.
Le vele profumavano di seta e le sartie
sapevano di nuovo. Ora che torno vorrei tanto il tempo               
per dirti le mie gioie i miei tormenti:
naufragi, ninfe maliziose, anfratti
ribollenti di furie incastonate
nelle schiume all’apparenza troppo chiare.
Tutto questo vorrei dirti; tante storie:
incontri con giganti, con fanciulle                 
allettanti che tenevano il sapere
e per quello avrei dato anche la vita. Torno
senza la barca che spesso mi vide
combattere nembi scompigliati.
Accompagna i miei resti la nave pacifica
di un re che mi fu amico. A lui narrai
le storie e le leggende di quel corso
che prese nei gorghi la mia gente.
Ritorno con nell’anima lo sguardo
di una fanciulla intenta al corredo
che giocava spensierata a palla
sorridendo con le ancelle. Torno a sera
zeppo di vita, arricchito di genti di mari e città
che colmarono in parte le mie voglie. E questa è la mia sera:
è un’ora che lascia all’incoscienza del mattino
la ricchezza e i dubbi del ritorno.





Gioia eguale                                


è l’ultima rosetta. Affaccia il volto,
selvatica e indifesa, lungo il viale
di foglie grigie, tumorose e spente.

Uno schizzo di rubino sull’incolto
e brunastro sentiero. Gioia eguale
sulla vita che scorre indifferente.



I girasoli in processione


In processione i girasoli con le teste
coperte di nero rapinano l’ombra.
Rattrappiti dal sole, stanchi di luce,
respirano il passire della terra
frugando tra l’umore del settembre.
Erano acuti i loro lampi,
sfidavano i furti della calura.                 
Si contraggono in autunno i girasoli. Borbottano  
preghiere in ampie schiere
a meditare sull’aria che passa leggera.



Piazza Belvedere


Piazza Belvedere, a sera, sul gradino
stavo disteso immaginando il cielo
e i sogni con voli fittizi senza esito
rischiavano sconfini,
gli stessi che fuggivo da bambino
nascosto nell’ombra di notte
per paura dei grovigli dell’azzurro.

Ficcavo la testa nell’erba                
che ricordava profumi:
l’odore stridente del grano,
delle pesche giallo-luna appese al blu,
degli aghi di un pino sopra la cimasa.
Ronzava in sordina la fiaba
di un eroe che sconfiggeva le distanze.

Stasera mi sono disteso
sul gradino di piazza Belvedere;             
ho sperso lo sguardo tra le stelle
annusando l’odore di gramigna:             
strade bianche di polvere tra i cipressi,
chicchi di maggio a gonfiare le spighe,
spolveri perla dai rami degli ulivi
a spiovere sull’ocra di giunchiglie.                                         

Ho ritrovato i brividi del vuoto
sillabando una fiaba nella mente.




 Gente di casa mia                


Vanno alle mèssi insieme i paesani
della mia terra e dalle falci
percosse dal sole che si leva                                  
zampillano schizzi di luce. Portano sulle spalle             
il peso delle case e non conoscono
letarghi nei loro pensieri né sanno dei riposi,        
ma a volte si soffermano alle brine                                                       
e le guardano distratti che attendono il sole   
per svariarlo in brillanti prima di morire.              

Poi, se c’è gramigna all’aria dei pioppeti,               
ci lasciano le bestie a brucare
col fiato azzurro attorno alle narici.

è questa la mia gente; è senza nome,            
risponde solo se la chiami a soprannome;
lo senti rimbombare in mezzo ai campi                                
gridato dagli amici in un saluto
se tagliano i viottoli tra i grani aperti al cielo.                
Sono come puntini tra il fiottare
del giallo ricamato in modo tale                            
che abbaglia a guardarlo.                               
Conosco i loro pigli, i loro gesti,            
conosco i passi svelti del mattino
e quelli di un ritorno che si attarda
calamitato addietro da un fisso pensiero.                                                      
Resta sempre qualcosa da finire. 
Se lo portano a casa, nella testa;
ne parlano a un tavolo di quercio     
padrone di una stanza che balena.
E con la mente predicono il giorno
che immancabile profuma di recisa.*

* Pastura di fieno e erba fresca recisi insieme per le bestie da stalla.




 Giovinezza           


Una storia indolente mi ovatta l’anima,
si adagia sulle cose, ci si insinua pigramente
e avvolge le strade giovanili                           
tra le penombre della mia mente.
Mi riporta le immagini delle ali
con cui volasti per fuggire via
dall’inverno incalzante. Io sono qui                       
Non ho più il tempo di falcare i cieli             
oltre gli stretti spazi. Ora mi basta                        
che una storia indolente mi accompagni
tra gli alberi, le piane, i verdi prati
nell’ora che si oscura. è sufficiente
mi parli con il vento dell’erranza
ai margini dell’ansia che ingrossavi 
alle mie attese. E forse non è detto        
che non si compia il miracolo. Riviverti        
per me sarà reale. E certamente uguale a farti mia.               
                               Alla tua immagine,
giovinezza, perfino le petraie
avranno le ali in questo gioco breve,
e la foglia paziente                         
lascerà che tutto accada,
prima che il vento se la porti via.




Certe volte            


Certe volte sui nostri brevi spazi ho visto gente
indagare sui misteri delle stelle;
altre volte ho visto gente andare in cerca
di una luce una speranza
sui percorsi macchiati dalla rabbia;
e ne ho vista delusa
da storie di stagioni di promesse
o rinchiusa nel sacco della notte
a ripetersi il perché di tante storie.
Fame dolori sofferenze. E gioie
sui volti non segnati dalla vita.

Io fui con la mia storia questa gente:
mi adirai soffrii amai percorsi lunghi tratti
con lo sguardo rivolto a indagare. Forse
dal sacco della notte la mia mente
si smarrì troppo lontano. Quanto meglio
sarebbe stato accendere la luce
dentro di me a illuminare l’anima.  





Non è mestiere

Chiedo soltanto che il sole
sciori sulle cime dei monti
e che l’aria appesantita dal buiore
si ricarichi di lampi di luce.

Stare a predare nella notte da soli
luminescenze a lampade di frodo
non è mestiere per chi ama la vita.



Se l’aria ci è propizia


Se l’aria ci è propizia e se ridesta
il piano canti e zampilli di luce
dalle sparute chiome; se la mèsta   
e madida campagna riconduce
il ricordo solare dell’estate
passata; se le foglie penzolanti
e secche tornano a farsi argentate
di un sole sfolgorante, andremo avanti,
mia anima, avanti per mano; andremo
tra l’ombre che non sanno di sfumati
ricordi, ma di vita, vita nuova,
anima mia. E sarà un estremo
fulgore di luce la nostra alcova                
a essere insieme rinati.                   




La voce


Rompevano i crepuscoli il silenzio
di una stanza gremita di persone:
giungeva dalla corte un dolce assenzio
di brine e aromi erbosi di falcione.

Mirare mi era caro oltre quei boschi
il nascere di soli agli orizzonti
ed il raccoglimento di quei chioschi
conduceva il mio seno fino ai fonti

di un fiume che scendeva lento a valle.
Mi destava fragranza di pan fritto
e la voce silente di mia madre.

Rumori dalle greppie delle stalle,
battere d’ali dal prunaio fitto,
e verso il cielo il vólto di mio padre.
  


Per la morte di mio padre


L’ultimo respiro desti all’alba
stringendo nel palmo la mia mano,
dopo gli stenti di una vita scialba.
Erano desti i suoni del tuo piano

e tu morivi in un grande silenzio
come era nel tuo stile, inosservato;
l’odore le mie nari dell’incenso
mischiavano al profumo del tuo prato.

Per un’intera vita mi hai lasciato
della pelle il calore sulla mia,
padre! Per fiumi, monti, coste, e mari

ho corso, riposato, navigato,
tenendoti con me tutta la via,
togliendo il tuo silenzio dal sagrato.



Esisto?


Ti ho posto la questione tante volte!
Questa mia vita,
questa mia vita mia che cosa è mai?
Lo so che vivo.
So perfino
che questo è proprio il tempo in cui esisto.
Ma è casuale? o forse programmato fino a me?
Il pensiero mi tormenta.
Perciò dammi speranza, dammi luce,
perché non è ch’io nutra gran fiducia
in questa mia esistenza; è di un mortale.
Confonde anche il fittizio col reale.
Io la vorrei da Te, dall’Alto Cielo
la conferma che esisto per davvero.



 Testamento


Non voglio il nome mio su una via,
o in una piazza, oppure sulla casa
dove abitai per anni come accade
quando un poeta muore. Io voglio solo
l’effigi di mio padre e di mia madre
su un cortile povero e dimesso,
con una falce in mano,
mentre tagliano l’erba in mezzo a un prato
o recidono il grano per il pane.
E quelli di mia moglie e di mio figlio
li voglio in alto, in cima a un grande tiglio
o a una betulla o in cima a un grande pino,
perché guardando in alto sopra il mare
pensino sempre ch’io possa tornare.




Il potere dell’immagine


Ritornerò senz’altro in quel paese
dove sciacquai la fronte,
dove la vita scorre lentamente
fra gesta paesane. Ove la gente
si ferma ad ore a un tavolo di marmo
a giocarsi il quartuccio. Tu sarai
ad attendermi là su quella via
che ci portava dritto a una collina
profumata di acacie. Rifaremo
quelle discese pazze tra papaveri
e code cavalline. Siederemo
sul prato d’erbe nuove a contemplare
i giochi del tramonto mentre sfrasca
fra i tremiti dei tigli. E pregheremo
il sole che ritardi la caduta
e che ci tinga l’animo ed il volto
del sapore di sera. Sai!, la vita
è tutta nell’immagine. È allora
che il reale si tinge di emozioni;
gonfia in petto, fino a implodere dentro.
L’esistenza è tutta qui, se il presente
può sfuggire al momento, quando immagine
si attornia di un sentire che lo rende
struggente e duraturo. È il suo potere:
assume una gran forza se permane
cocente dentro l’anima. Rinati
andremo contro il tempo. Torneremo
sul colle delle acacie, quando l’astro
fermerà la caduta all’orizzonte
per noi che tradurremo quell’immagine
in nuova realtà. Tu aspetterai
su quella via; saremo ancora insieme:
il profumo di acacie,
il prato d’erbe nuove,
e il sole furibondo di colori
a esplodere per noi dopo l’attesa.




Colloquio con il mare


Mi trovo qui davanti alla tua piana
frammentata da scaglie ed azzannata
da becchi di uccelli voraci
ed insaziabili. Mare! Mio mare!
Quanto mi sei vicino!
Tu che vivi di rivoli di cielo
tormentato e irrequieto.
Chiederti qualcosa è sempre poco.
Ma parlare con te dell’immenso
forse mi è più caro. E stamani
la mia voglia è quella di ammirarti;
tu, eternamente instabile,
umano e disumano.
Lo sai? Se ti sono lontano,
ti sogno come amico;
ti vedo, alla mia assenza,
come assenza di amore
della donna che amo.
Ma torno sempre eguale, quando torno,
sempre poco,
davanti a te che immenso mi rapini
e porti via il mio seno.
Tu l’accarezzi, lo invogli
a sfiorare l’eterno.
Ma quando scende a terra,
ancora più ne soffre
di questa sua miseria;
se torna a rimirarti,
ancora più ne soffre,
misurando col giorno il tuo cammino.
Ed io ti chiedo,
ti chiedo del mistero,
ti chiedo della vita,
tu che contieni anni
che ancora non parlavano:
di quando la tua nascita?
da quando il mio destino?
A volte mi rispondi
ed io ti ascolto
disposto a fuggir via col tuo salmastro.
Dimmi, quindi, anche stamani,
qualcosa del colore
che ti frantuma a sera,
qualcosa del tramonto,
per te solo bellezza, forse,
per me giorno che fugge.
“I miei pensieri, uomo, sono eguali
a quelli che tu provi quando tenti
di misurarti a Dio. Anch’io
vado da un mondo a un altro senza pace,
né mai tace
la voglia né si appaga
di copularmi al cielo. Solo a sera
mi quieto in esplosioni
di luci e di colori;
arancio le mie guance
e mi sprofondo
in un riposo umano:
sogno inquieto per te,
per me solo riflesso di una luna
nel mio perpetuo moto.”.



La stagione del mare


Imbionda l’elicriso sulle dune
tra l’arsa tamerice ed il salmastro
brontolìo della bàttima. Mi accosto
all’agave fiorita. Di novembre
s’infiggono campanule di latte
nell’azzurro del cielo. A simulare
spavaldi guizzi estivi c’è una vela:
taglia l’immenso e scivola leggera
sull’acqua color lauro. Manca Venere:
non esce il suo fulgore incastonato
nel mare di Zacinto. Vieni Adone!
Chiama la dea audace in questo quadro
profumato d’elleniche memorie.
Ma tu non hai potere che in anemone
puoi solo ricordare il pianto sacro
sulle tue spoglie fattesi divine.
Questo novembre pregno di marina
mi avvolge e mi trascina in ricordanze
evase dall’oblio. E ti respiro
mare mio mare, autore di fuggiaschi
abbracci giovanili. Non è l’ora
di stagioni diverse. È una sola
la stagione del mare. E se d’inverno
lo vivi ancor di più il suo profumo,
lo senti più vicino il suo colloquio:
ti parla quando è solo.
Ancor di più la sua parola incide
l’animo mio disposto ad assorbire
la sua voce profonda ed il suo grido.





Beppe


Amava quella terra. La campagna
lo riempiva di gioia. Era la vita.
Quand’era solo in mezzo ai suoi raccolti
non chiedeva di più. La mattina
indossava i suoi stracci e al primo sole
prendeva lo stradone per i campi.
L’accompagnava un’alba d’erba nuova
che usciva in fondo al monte a discoprire
la vastità del cielo. Sprigionava
il nascere fecondo della vita
collo sfrecciare d’ali già veloci
al primo accenno di luce, e diffondeva
il sentore dei campi
che si sposava al vento. E lavorava
ora col maglio, ora con l’aratro;
e lavorava fino a tarda sera
senza sentir fatica. Era il tramonto
con i colori spersi fra i cipressi
e i rami degli ulivi a riportarlo
al riposo di casa. E nella sporta
aveva sempre un po’ della sua terra.
Il figlio era operaio in una fabbrica.
Ed un giorno
trasmise al padre, per necessità,
il grande cambiamento:
trasferirsi in città.
Una stradetta cupa dove a stento
penetrava la luce.
In quella strada l’alba non riusciva
a scoprire il suo rosa. Né il tramonto
riusciva a rivelare i suoi bei giochi.
Così la sera Beppe andava in piazza;
da là vedeva il cielo che gli dava
l’idea della campagna
con quello spazio vasto in mezzo ai platani.
Seduto sulla panca
fissava il giallo e il rosso del semaforo,
ricordando la luna sulle mèssi.
Ne aveva una gran voglia. Ritornare una volta,
anche una volta sola a quei profumi.
E il coraggio gli dette una gran forza:
zitto, zitto inforcò la bicicletta e via di corsa…
(Era un gran rischio. E lui ben lo sapeva).
Stanco e col cuore peso, iniziò a fremere
quando imboccò il viale. Sui riverti (*)
le gazze becchicchiavano gli insetti,
e l’egrette seguivano l’aratro
nell’attesa del pasto. Fino al monte
s’apriva l’orizzonte. Finalmente
rivide la sua terra. Si sedette
sul ciglio che per anni aveva visto
quell’uomo sperso in cielo; si smarrì
fra i frutti e gli uliveti, e perse l’ora.
Gli stanziavano attorno quei piccioni
che aveva in altri tempi custodito,
e lui come saluto
simulava di spargere granaglie.
Forse, chissà, l’avevano aspettato.
Beppe guardò la luna che di giorno
era uscita per lui, di certo ben diversa
dal semaforo seppur ben colorato;
e stanco s’accasciò, portandosi nel cuore
tocchi, profumi, e spazi
che sempre aveva amato.
Era là che morì. E non da solo,
era riuscito a farlo sul suo suolo
in compagnia degli alberi
e degli uccelli in volo.


(*) Le due strisce di terra lasciate ai bordi dall'aratro 

6 commenti:

  1. Questo è un tardo pomeriggio che si illumina, sugli scogli di Lèucade.
    Si fa presto a dire pensiamo di meno al passato! Il passato, quando viene riproposto da una poesia che apre la luce, ci prende, ci imprigiona nel fascino di un "romanzo" in versi di un nuovo Odisseo, che non si vede, di cui non si fa il nome, di una leggenda di vita e di una vita che si fa leggenda, di un personaggio che però ti respira vicino, del quale "senti" il viaggio, l'approdo, il ritorno alla sposa abbandonata per anni e ritrovata, le "fanciulle allettanti", "ninfe maliziose" come Circe e Calipso, l'incontro coi giganti, il dolore arrecato a Polifemo in cambio della propria vita,un re amico e la figlia Nausicaa che gioca a palla gioiosamente sulla spiaggia, non puoi dimenticare che ciò che hai già vissuto ritorna con la forza non della leggenda, ma con la forza della vita vera. Ed ancora: " a lui ( "al re che mi fu amico narrai / le storie e le leggende di quel corso / che prese nel gorgo la mia gente") : non solo il tono raccolto quasi di un'elegia, ma anche quello quasi epico di una narrazione rivissuta sul filo delle memorie.
    E' "La ricchezza della sera", della saggezza dell'approdo ad una "età" che ha raggiunto il senso ed il possesso della saggezza della vita, che ha conosciuto " il profumo della vela" e il ribollire dei marosi, l'urlo della bufera e l'ira degli Dei avversi! Quale sapienza compositiva e quale fascino coinvolgente nell'avventura di un'anima vivono in questa "ricchezza della sera", che non è solo la ricchezza della vita, ma la sera che chiede giusto ristoro dopo le traversie di un'esistenza piena e avventurosa per l'amore e la sete del sapere. Ogni volta, sullo scoglio di Léucade, rivivo di riflesso la bellezza e il fascino della poesia di Nazario Pardini. Ogni volta devo notare come il mito rivive in noi, oggi e sempre. Complimenti, dunque a Nazario Pardini e ad Anna Santarelli, che ha saputo mirabilmente selezionare e fondere i versi fascinosi di Nazario.
    Umberto Cerio

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    1. Carissimo amico, grandissimo poeta, e saggio scrutatore delle vicissitudini umane, incarnate in miti di freschi ricami. Come competere con tanta generosità esplorativa, con tanta sapientia vitae. La tua vis creativa e la tua parola, intrecciate in nessi che non possono mai estraniarsi dal dire poetico, fanno impallidire i miei umili canti. Da brividi il tuo commento. Uno di quelli che agguanta la presa e non la molla come il morso di un dobermann, o meglio ancora, come l'abbraccio di una terra che ti ha visto nascere, crescere e volare.

      Grazie, amico, delle tue ineguagliabili vertigini verbali, che arrivano, come pallottole, a spaccare il cuore.

      Nazario

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  2. Grazie al Prof. Umberto Cerio, il suo pensiero è sempre incisivo e delinea grandi orizzonti.
    Anna Santarelli

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  3. Trovo, con vero piacere, pubblicato sul blog questo scritto della mia concittadina e amica, Anna Santarelli, con la quale in più d'una occasione abbiamo condiviso incontri poetici.
    Ora, sono lieto di leggere le sue belle parole sui tre libri di Nazario (li conosco molto bene, e "Dicotomie" ha anche la mia prefazione); parole che fanno chiaramente intendere quanto coinvolga la poesia di Pardini e quanto la stessa sia profondamente penetrata nel cuore di una poetessa sicuramente autentica.
    Grazie, allora, Anna: anche per far sapere che Rieti (perdonino i lettori la nota campanilistica) può dare il suo apporto alla causa della poesia.

    Sandro Angelucci

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    1. Grazie, Sandro. La poesia è un filo sottile e tenace che unisce gli uomini, un sogno che veicola speranza, al tempo stesso un punto di partenza e di ritorno.
      Grazie al Prof. Pardini, poeta sensibile e generoso.

      Anna Santarelli

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  4. grazie a Sandro per il suo generoso commento e a Anna Santarelli per la sua profonda esegesi alla mie poesie che ho riunite antologicamente per dedicargliele.
    Nazario

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