Sonetti,
questi tre di Lorena Turri, che rispettano, nella loro geometria
metrico-stlistica e nei giochi delle rime, la più grande tradizione letteraria
nostrana. Ma rinnovata, pienamente attualizzata, con contenuti che ci
riguardano da vicino per le oggettivazioni dei loro sprazzi esistenziali. O
ancora, riferendoci all’ultimo sonetto, per la sostituzione dell’endecasillabo con
una successione di quadrupli trisillabi che fa risaltare la sincronia dei gesti
e delle immagini. E saper forgiare tali gioielli compositivi non è cosa da
poco. La Poetessa incastona la sua essenza emotiva e meditativa, le sue vertigini panico-creative,
le sue parabole simboliche, in versi di plurale connotazione e di potente intimità
metaforica. Una concretizzazione di cospirazioni esistenziali in mattini senza
sole, in colori scemati nella nebbia, in giorni bagnati, o lordati dal fango,
in finestre di luce, in odore di
fiori, o di spighe dorate. Un vero melologo; un serico mélange fra campi semantici,
input vicissitudinali e musicalità. Non è per niente facile racchiudere in un
linguismo calcolato, in un breve e sintetico spazio apodittico, tanta
generosità esplorativa. Anche se il tutto è generato da una spontaneità che la
fa da padrona in queste mosse versificatorie; in questo tessuto ondulatorio che
si traduce in valore aggiunto all’amor vitae e alla Bellezza dell’incatenazione
semantica e sonora. D’altronde la sindrome oraziana del “labor
limae” presuppone conoscenza, esperienza letteraria, e studio che sono il focus
basilare per il buon canto. Per fasciare i suoi significanti e non lasciare al
caso quell’involucro che li deve evidenziare. Naturalmente senza fare delle figure retoriche e degli accorgimenti
prosodici un fardello oberante a mistificare quel calore ispirativo che dà
sostanza al logos del poièin; è così che la pensa la stessa Poetessa:
“ (I sonetti) Sono
figli di alcuni anni trascorsi a studiare la metrica e a cercare, nella gabbia
del sonetto, una forma espressiva adeguata al tempo attuale evitando il più
possibile quegli artifizi che io chiamo "escamotage linguistici",
atti soltanto ad aggiustare la forma, ma inutili e ridondanti ai fini del
messaggio poetico”.
Se poi è la vita che le si offre con
tutti i suoi perché irrisolti, con tutte le sue durezze, o con tutte le sue
aperture di luci, ella l’affronta con sguardi aperti ed intensi, o con voli che dal
quotidiano si azzardano oltre il cielo e
i colori perduti del senso:
Là fuori, oltre il velo di tende sbiancate,
c’è
il cielo e i colori perduti del senso;
l’odore
dei fiori, le spighe dorate.
Non
credo alle fate, non credo al melenso!
So
dura la vita, so spesse le grate,
ma
credo a uno sguardo, più aperto, più intenso.
DOMENICA
MATTINA SENZA SOLE
Batte il silenzio senza festa al
giorno,
quel poco giorno con l’ombra in
ritorno.
Ed è una santa messa di parole
mute e voraci. Questo adesso duole:
scarnificato il tempo e disadorno
dalle campane smesse al mezzogiorno.
Ore ginnaste a far le capriole.
Per ritornare a sera, dura attesa,
se ogni colore scema nella nebbia
e il pane sembra misera pretesa.
La mente nelle lacrime s’annebbia
e rotolando lungo una discesa
il grano della vita più non trebbia.
L’ORA DI LAVARSI LA FACCIA
Un po’ di sole stamani si affaccia
alla finestra dei giorni bagnati
e lungamente dal fango lordati.
Già, qualche stanca nuvola sfilaccia.
Sarà tregua o segnale? Forse traccia!
Stretto, il cielo, in silenzi
sterminati,
non dice dei suoi piani programmati
però tende dei raggi, come braccia.
Ho gli occhi stanchi, su ciglia
adagiati
e un cuore stinto. Ma nulla rinfaccia,
accogliendo clemente i rari afflati.
Giunta è l’ora che mi lavi la faccia
e, denudata dei miti sbagliati,
riprenda in mano la penna…e non taccia!
SE SI APRISSERO FINESTRE DI LUCE
Se, sola sedendo davanti a un velario,
si aprissero adesso finestre di luce,
non più il mio pensiero, che niente
seduce,
starebbe fissato, del Nulla gregario.
Qui immagini vedo di un trito lunario
(nelle afe dei giorni) che non
riproduce
il vero essenziale, ma al falso mi
adduce;
così resto pesce, spedito a un
acquario.
Là fuori, oltre il velo di tende
sbiancate,
c’è il cielo e i colori perduti del
senso;
l’odore dei fiori, le spighe dorate.
Non credo alle fate, non credo al
melenso!
So dura la vita, so spesse le grate,
ma credo a uno sguardo, più aperto, più
intenso.
Lorena Turri
La ringrazio di cuore, professor Pardini, mi sento davvero onorata di tanta attenzione.
RispondiEliminaLorena Turri
Queste prove poetiche dicono chiaramente che Lorena Turri affronta la sfida alla forma chiusa del sonetto con apprezzabile padronanza metrico-linguistica. Colpisce l'opportuna scelta di parole brevi (bisillabe e trisillabe, con solo quattro o cinque occorrenze di termini di quattro sillabe), peraltro più facilmente collocabili all'interno del verso, ma anche più malleabili sotto il profilo metrico e con ampie risonanze ritmiche. Per il resto condivido la nota dell'amico Nazario, tranne nel luogo dove si parla, a proposito del terzo sonetto, di "sostituzione dell’endecasillabo con una successione di quadrupli trisillabi". In parte è così, ma i dodecasillabi del citato sonetto sono composti -sempre- da coppie di perfetti senari, normalmente accentati in seconda e quinta sede. Si tratta comunque di buone prove (specialmente la prima e la terza), sostenute da notevole spinta emotiva.
RispondiEliminaPasquale Balestriere
La ringrazio vivamente professor Balestriere delle sue osservazioni e della sua condivisione.
EliminaVorrei azzardarmi a dire che il senario con accenti regolari in 2a e 5a sillaba, mi pare si comporti come un verso doppio, ovvero un doppio trisillabo. La "successione di quadrupli trisillabi" quindi, sarebbe data da quattro anfibrachi.
Non so se è ciò che intendeva il professor Pardini.
Lorena Turri
Gentile Lorena Turri,
Eliminain riferimento al suo terzo sonetto “Se si aprissero finestre di luce” e rispondendo alle sue osservazioni (ho apprezzato l’uso del condizionale), io lascerei a dormire l'anfibraco - nonostante gli sforzi disperati di sdoganamento di qualche metricista italiano- nel luogo che gli è più consono, e cioè nella metrica greca e latina, dove è nato e vissuto (bene). E non userei questo termine come quasi sinonimo di trisillabo perché, a parte ogni altra considerazione possibile sul passaggio dei metri classici -quantitativi- in ritmi italiani -accentuativi-, l'anfibraco è un piede, il trisillabo è invece un nucleo metrico che si configura come verso. Ma, a parte altri rilievi che si potrebbero fare sull'operazione (arbitraria, e perciò avrei molto da dire anche sulla metrica barbara del Carducci e di altri “esploratori”) di trasportare in italiano un metro di quattro tempi brevi (ᴗ‒ᴗ) riducendolo in tre tempi (o sillabe, né brevi né lunghe), vorrei ricordare innanzitutto a me stesso che, anche quando i versi ( o versicoli) viaggiano in coppia (doppio senario, doppio settenario, ecc.) mantengono intatte le proprie caratteristiche (in particolare gli accenti) e la propria integrità, cioè il proprio numero di sillabe. Cosa che avviene nel suo sonetto, se parliamo di versi costituiti, com’io sostengo, da doppi senari. Non così se ipotizziamo versi composti da “quadrupli trisillabi”. Mi spiego meglio: se proviamo a dividere in quattro lacerti ternari (o trisillabi) il verso “Qui immagini vedo di un trito lunario” l’operazione non riesce, cioè non tutti i versi sono trisillabi. Avremmo infatti: “Qui immagini” (ternario sdrucciolo)/ “vedo”( bisillabo)/ “di un trito” (ternario )/ “lunario” (ternario). Il problema si ripete, sia pure in altra sede nei due versi successivi a questo. Poi magari saremmo costretti a ipotizzare sinafie o altri espedienti metrici. Ma le assicuro, gentile Lorena, che non sarebbe proprio il caso. Per questi motivi mi pare più opportuno parlare di doppi senari che d’altro.
Pasquale Balestriere
Ma poi lei, gentile Lorena, quei dodecasillabi come li ha pensati, all'atto della composizione? Come doppi senari o come quadrupli trisillabi?
RispondiEliminaMi creda, non è domanda oziosa.
Pasquale Balestriere
Gentile professor Balestriere, in tutta sincerità, per la spontaneità che mi caratterizza e che scaturisce, come è stato osservato, dalla mia scrittura, li ho pensati semplicemente come doppi senari e questa era la mia intenzione. Relativamente all'interpretazione del professor Pardini mi sono permessa di supporre gli anfibrachi, anche con qualche azzardata cesura laddove vi siano delle sdrucciole, al fine di capirla io stessa. Venendo da studi scientifici e non essendo pratica di metrica classica, per me qualsiasi osservazione è importante per ampliare le mie conoscenze. Come socia dell'Accademia Alfieri di Firenze, passo spesso del tempo a disquisire con altri soci amici di metrica e ogni volta sorgono nuovi dubbi o nuove possibilità interpretative, la qual cosa trovo molto affascinate. Proprio ultimamente si ragionava sui versi doppi, onde la mia ipotesi.
EliminaLorena Turri
P.S.: Ho usato impropriamente la parola "anfibraco" ma senza intenderla sinonimo di trisillabo, soltanto pensando al trisillabo come a un verso anfibrachico.
RispondiEliminaGentile Lorena Turri,
Eliminale confesso che ero quasi sicuro che aveva scritto i dodecasillabi come doppi senari, confortato dal fatto che tra il primo e il secondo senario di ogni verso c'è sempre cesura (più o meno forte) e c'è pure impossibilità di sinalefe, perché il secondo senario comincia sempre per consonante.
Comunque, ancora complimenti
Pasquale Balestriere
Per non ripetermi su Lorena e sulle sue straordinarie capacità, mi limito a dire, da profana, o quasi, nel campo metrico, che la sua è ben lontana da essere pura erudizione. Ne abbiamo parlato e so che non ama le liriche scritte a 'a tavolino'. E' una delle voci 'ispirate'. I sonetti postati e commentati dal Professor Nazario e da ognuno di voi ne sono l'ulteriore prova...
RispondiEliminaOgni volta che la leggo mi convinco che la metrica diviene una gabbia solo per coloro che la adottano con ostinazione e spesso in modo arcaico e desueto. La nostra Autrice è una grande innovatrice che convince e incanta! Maria Rizzi
Carissima Maria, amica cara e mia assidua lettrice,
Eliminaio sono un'eterna allieva, quella seduta nell'ultimo banco!
Certe volte persino un po' "indisciplinata", altre cheta e quieta, altre ancora alzo la mano perché mia sia concessa la parola per provare a dire qualcosa... a modo mio.
Ma è sempre in quel banco che amo sedermi.
I testi di Lorena sono la prova che la creatività può oltrepassare le sbarre della metrica pur rispettandone canoni. E Lorena conoscendo profondamente la materia riesce a spaziare in essa stravolgendo il concetto di gabbia, il suo verso è il fuoco del fabbro che riesce a forgiare e dilatare il ferro delle sbarre in forme sempre più nuove e di ampio respiro. In questo caso la gabbia diventa mare aperto con il ritmo delle sue onde, e immenso prato che si trasforma al mutare delle stagioni.
RispondiEliminaSerenella Menichetti.