Daniela Quieti: Atmosfere. Dal mito alla storia Edizioni Tracce. Pescara. 2014. Pg. 56 |
Atmosfere. Un
titolo già di per sé appetitoso e significativo, che, con il Paesaggio
di Gabriele Iovacchini in copertina, invita a riflettere, a pensare; fa da
prodromico input, da antiporta, ad un percorso narrativo che poi si rivela di
grande interesse umano; di perspicuo coinvolgimento naturistico e folcroristico-filologico
– Dal mito alla storia, il
sottotitolo -, atto a soddisfare tutta la nostra curiosità d’indagine. È per
questo e per la fortuna di aver conosciuto gli scritti antecedenti
dell’Autrice, la sua frequentazione letteraria, giornalistica, poetica e filosofica, che ci siamo tuffati, mente
e cuore, nei capitoli di questa plaquette, sicuri di ricavarne sostanza e ricchezza
emotiva, freschezza e vicinanza. Fin dagli inizi, fin dal messaggio incipitario,
la scrittrice ci mette sugli attenti e sembra dire “Guarda bene, lettore, che
io non scherzo; so trattare la natura e ricavarne quei segreti che solo un poeta,
in possesso del sesto senso, può scoprire, penetrando nei meandri più nascosti
della sua tradizione”; è così che, da subito, ci spiattella davanti un
proverbio che sa tanto di elegia anacreontica: “Le ore del mattino hanno l’oro in bocca”. Sì, uno dei proverbi più
conosciuti; “… una metafora connessa a un’arcaica rappresentazione poetica
dell’aurora, dipinta nei colori simili a quelli dell’oro fin dall’epoca di
Omero” (pag. 13); un proverbio che, nella cosiddetta civiltà contadina, dalla quale
ci siamo allontanati fino al punto di perderne il significato originario, mostrava,
più ancora, tutta la sua veridicità, data la compenetrazione che c’era fra
anima, cielo e campagna. Paesaggi, folgorazioni allusive, simbiotiche fusioni
fra vita e storia, simbologie
ricorrenti, culture millenarie, apotropaismi,
ritorni di ataviche leggende, curiosità di ogni tipo, per cui non è
affatto difficile essere attratti dagli ammiccanti significati preannunciati dal
titolo e convalidati dal fascino di questa avventura. Quella di un racconto denso
d’informazioni atavico-popolari che si dipana in una scrittura semplicemente complessa;
contenutisticamente intricante; educativa (… avere rispetto per gli altri,
soprattutto per i più deboli, gli svantaggiati, noi stessi, il Creato e la sua
bellezza), affidata a uno stile veloce e apodittico, chiaro e suasivo, giornalistico
e paratattico, come richiede una trama dettata da abundantia cordis intrisa di
connessioni fra uomo e terra; un sentire che respira il sapore di lontane saggezze, fresche, genuine,
poeticamente paniche, da riportare alla luce, col loro profumo di campi sani e
incontaminati, che, inducendoci a riflettere su ciò che è buono e su ciò che è meno
del nostro frettoloso progresso, si fa
radice e messaggio per giorni a venire: “Nelle odierne e veloci mattine che
spesso hanno l’amaro in bocca, è lecito porsi il dubbio se le frenetiche prime
ore di vita metropolitana siano più o meno invidiabili rispetto a quelle
antiche e campestri che avevano l’oro in bocca. Auguriamoci che le nostre ore
abbiano almeno un po’ d’argento” (pag. 14). Sta qui la generosità esplorativa, l’urgenza
vitalistica di Daniela; il suo amore sviscerato per un tipo di umanità fatta di
miti che lei vuole contribuire a storicizzare convinta della loro perspicua
sapidità e del loro potere storico-poetico, soprattutto in un mondo dimentico
persino del colore del cielo e del mare; sta proprio nel ricercare, attraverso un
lavoro meticoloso, proverbi, usi, costumi, modi di dire; nel raccontarli in
maniera oggettiva, plurale, fluida, e così polisemica da indurre il lettore a
sfogliare le pagine incuriosito da tanta energica sapientia humanitatis; da
tanta ars inveniendi. E non è che la Nostra pecchi di passatismo, o di
semplicistica nostalgia per il tempo che fu. Vuole solo dare continuità alle parole,
alle vicende sfumate dal tempo, presa dall’abbrivo di riportare a noi,
rinfrescati di estrema attualità, espressioni
e tocchi di campagna che non hanno niente da invidiare a tali hoc mihi
contingat di tibulliana memoria – sì, pare proprio di viverle queste atmosfere
di rara poesia -: Una ciliegia tira
l’altra, Se son rose fioriranno, Chi va al mulino s’infarina, Mangiarsi il
grano in erba, Chi semina vento raccoglie tempesta, La Pupa e il Cavallo, L’occhio
del Malaugurio…, e via dicendo fino a In
bocca al lupo. Abitudini e detti legati a lontane stagioni alle quali la
natura, nella sua diacronica contrapposizione di vita e morte, nella sua
epifanica significanza di rinascita, dà quel colore e quella sostanza che l’uomo,
più vicino ad essa, sapeva far propri: “Le abitudini e i detti popolari
condensano vetuste tradizioni di una cultura campagnola ormai in via di
estinzione, un patrimonio di conoscenze da cui trasudano gli sforzi del vivere
e l’esperienza accumulata fin da epoche remote come arma difensiva contro le
lotte di un tirare avanti fondato sul ciclo delle stagioni, sul sorgere e sul
tramontare del sole e della luna, nell’attesa fioritura di una rinnovata
primavera” (pg. 38). Se raccontare
significa stimolare la curiosità e il senso estetico del lettore; se significa
invogliarlo a sfogliare la pagina successiva, ad assaporarne una trama dove
presente passato e futuro si embricano indissolubilmente come il grido di un
canto, Daniela Quieti ci riesce a pieno.
Nazario
Pardini
Nazario carissimo, desidero ringraziarti di vero cuore per le lusinghiere parole che rivolgi a me e al mio libro “Atmosfere”, parole di autentico poeta che mi commuovono intimamente. Sono di Pescara… e per esprimerti la mia emozione … “Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscìo che fan le foglie / del gelso ne la man di chi le coglie /silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta / su l’alta scala che s’annera /contro il fusto che s’inargenta /con le sue rame spoglie / mentre la Luna è prossima a le soglie /cerule e par che innanzi a sé distenda un velo / ove il nostro sogno giace /e par che la campagna già si senta /da lei sommersa nel notturno gelo /e da lei beva la sperata pace / senza vederla. / Laudata sii pel tuo viso di perla, / o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace / l’acqua del cielo! / Dolci le mie parole ne la sera / ti sien come la pioggia che bruiva / tepida e fuggitiva, / commiato lacrimoso de la primavera, /su i gelsi e su gli olmi e su le viti /e su i pini dai novelli rosei diti / che giocano con l’aura che si perde, / e su ’l grano che non è biondo ancora /e non è verde, / e su’l fieno che già patì la falce /e trascolora, /e su gli olivi, su i fratelli olivi / che fan di santità pallidi i clivi … e pel cinto che ti cinge come il salce / il fien che odora! … il fiume, le cui fonti / eterne a l’ombra de gli antichi rami /parlano nel mistero sacro dei monti…”.
RispondiEliminaCon tanto affetto e profonda stima
Daniela Quieti
Grande Daniela,
Eliminagrazie a te, al profumo verde dei grani, dei fratelli ulivi, al mistero sacro dei monti e al tuo dolce e generoso Abruzzo che ci ha reso comune l'imperituro nostro D'Annunzio.
Nazario