Claudio Fiorentini collaboratore di Lèucade |
Vomeri
d’ombre, di Roberto Benatti
Il
vomere è la lama triangolare dell’aratro che rovescia la zolla dopo averla
tagliata. Un arnese, quindi, che fa uno scavo sulla terra tracciando linee su
un pezzo di mondo come lo fa un cesello su un pezzo di legno. Spesso queste
linee sono parallele, e pettinano la terra seguendo l’ordine razionale voluto
dall’agricoltore. L’aratro è trainato da trattori o da animali, e il vomere, la
parte più bassa, quella che è in profondo contatto con la terra, fa il lavoro
più ombroso dell’aratura, perché è dentro, e cerca di uscire, ma non può uscire
se non porta con sé zolle marroni, preparando la terra alla semina.
Se non
fosse per il vomere, la semina sarebbe disordinata, non seguirebbe la logica
ferrea del trattore. E allora, questo strumento triangolare, responsabile dello
scavo, è anche responsabile della qualità del nuovo raccolto.
Così è
il pensiero, e tutto quello che lo trasforma in espressione, nel caso specifico
la poesia. Infatti, se tentassimo di definire la poesia, diremmo che è uno
scavo interiore, un processo creativo attraverso il quale si cerca ciò che è
dentro togliendo ciò che è in superficie, che di solito ci impedisce di vedere
quella verità che non sappiamo in che altro modo esprimere.
Quindi
il vomere ha molte similitudini con la poesia, e non solo dal punto di vista
del poeta, anche dal punto di vista del fruitore.
Il
vomere fa uno scavo lungo, non profondo, faticoso e tenace. Ed è sotto la
superficie della terra che arriva, nell’ombra.
La
poesia è assimilabile a un vomere, e per scavare nell’ombra occorre che sia
fatta d’ombra, e immaginate quanto possa essere profondo lo scavo se viene
fatto dall’ombra.
Ma
veniamo al libro di Benatti. Le poesie sono prevalentemente lunghe, alcune
suddivisibili in capitoli, usano un linguaggio accessibile, senza ricerca sperimentale
né sonorità contorte.
Sono
poesie che si leggono in sordina, quasi tacendo, ma si leggono diverse volte
prima di lasciare un segno, perché scavano lentamente e con dolcezza, non sono
una trivella che cerca pozzi di petrolio, sono un aratro che scava solchi, non
aggrediscono la terra, né il lettore.
Leggendo,
mi è sembrato di trovarmi davanti ad una mostra di fotografie in bianco e nero,
di quelle fotografie che ti fanno contemplare, di quelle che non esprimono la
violenza del colore, ma la violenza di uno sguardo. Ho visto migliaia di
sfumature, non colori piatti, e il soggetto fotografato prescinde dello sfondo,
risalta nella sua crudele nudità.
Per
questo la lettura non deve essere drammatica, ma va vista come una
constatazione, vediamo:
Senza
questo buio spesso
La
miseria non chiuderebbe
Le
ganasce alla sua morsa,
Né
la speranza
Allenterebbe
la sua presa
Senza
uno spiraglio di luce.
Sono i
versi di apertura della prima poesia, che dà il titolo al volume, e già questi
versi sono una poesia a sé stante.
Queste
poesie non sono un racconto di vita o una confessione delle proprie angosce.
Partendo da lontano, il buio spesso, la miseria, le ganasce… il poeta presenta
qualcosa di molto intimo. Bene fa a non parlare di sé, perché infatti nella
poesia è il lettore che deve trovare una parte di sé, mai lo farà se il poeta
gli impone la sua storia.
E
tu hai perso tutto per me
Mentre
io ti ho rimborsato
Con
dolore nel dolore.
Questi
tre versi chiudono la prima parte della poesia, e vediamo che qui si legge
qualcosa che riguarda il poeta, ma non è così. Se prendessimo questi versi da
soli non avrebbero forza, leggendoli a seguito dei primi sei, invece, la
preparazione del fruitore permette di vivere quei versi come qualcosa di suo.
Consapevole
immensità
Che
riaffiori da ogni paradiso,
squarcia
la mia pelle di pioppo
e
divora le mie foglie
ignorando
il veleno della mia rabbia,
la
cecità larvale
d’ogni
mia seduzione
Ho
incastonato
Le
tue pietre preziose
Nell’anello
della mia presunzione
Le
tue gemme, lo so,
non
si graffiano,
non
sono chincaglieria
che
si pesta fino a farne farina
stringimi
al petto, allora,
come
una rosa abbraccia le spine
e
il velluto dei suoi petali.
Dammi
lo strazio di resistere
Alle
attraenze della memoria,
ai
sensi affilati da superbi ritratti,
Fanne
scia di cometa che non passerà più.
Scia di
cometa, pag. 80.
Bene, il
poeta non racconta, evoca. Nella poesia non si parla dei propri problemi, delle
proprie preoccupazioni, perché la poesia è scavo interiore, è ricerca del
giusto dove il giusto non si trova, è riscatto del bello dove il bello non si
vede, è esplosione di significati senza significare nulla.
Questa
poesia fortemente evocativa dice tra le righe molto di più che nelle righe. Non
sta a me raccontarne i significati nascosti, ogni lettore troverà i propri,
anche a questo serve la metafora.
Resterà
solo una luce tremula
Oltre
il velo che separa
La
danza aerea dei segni
Nell’equilibrio
delle porte aperte.
Un
binomio di candele accese
Contro
sfondi senz’atmosfera.
Una
fiamma viva
Che
brucia senza fumo
E
illumina la nudità della mente.
Quindi
un susseguirsi d’immagini: luce tremola, velo che separa, danza dei segni,
porte aperte, candele accese… ogni immagine una sensazione privata e profonda
che non si può raccontare se non con quelle immagini, opportunamente inserite
nel contesto, introdotte da resterà,
oltre, aerea, equilibrio… quindi una guida, istruzioni per l’uso, quasi a
dire cosa fare o cosa accade a quelle sensazioni che costituiscono il
patrimonio dell’io e del sé.
Sono
poesie asciutte, prive di narcisismo, non portano al lettore la felicità o
l’infelicità del poeta, come non porgono al lettore la banalità del proprio
vissuto, semmai permettono di inserire un vomere nell’ombra del silenzio e di
rivoltare le zolle della vita per prepararsi alla semina, e quindi a un nuovo
raccolto.
Claudio
Fiorentini
7
novembre 2014
Bellissimo e originale, come sa esserlo in tutte le sue espressioni Claudio, il commento alla Silloge di Roberto Benatti che abbiamo presentato il 15 novembre alla Libreria Arion Monti. Si tratta di un Autore di altissimo spessore, che non gioca sul registro delle allegorie, delle metafore, dell'ermetismo. I suoi versi scivolano fluidi, caldi, intensi e la lunghezza di ogni lirica fa sì che si abbia l'impressione di poter leggere più liriche in una sola. Le chiuse sono, quasi sempre, sigilli di luce. Ringrazio Claudio e Luca Giordano per i tributi che hanno saputo dare al nostro ospite!
RispondiEliminaMaria Rizzi
Ringrazio voi, tutti, per l'opportunità, la calorosa accoglienza e per l'apprezzabile professionalità che vi contraddistingue.
RispondiEliminaRoberto Benatti
Non ero alla presentazione del libro e me ne dolgo. Ho sentito parlare molto bene di Roberto Benatti e i versi che qui leggo mi danno l'idea di ciottoli rotolati a valle, raccolti nel letto d'un fiume silenzioso, scaturito da chissà quali fonti montane. La nota critica di Claudio è scoppiettante come sempre, ma possiede la profondità di chi è abituato a viaggiare nelle essenze. Congratulazioni ad entrambi.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Grazie Franco Campegiani. In effetti la relazione di Claudio, così come quella di Luca Giordano, mi ha entusiasmato, sia per la ricerca sia per la cura che hanno caratterizzato un'interpretazione profonda e corrispondente. Qui a Massa credo abbiamo una cara amica comune: Egizia Malatesta che saluta anche tramite mio. Buona giornata
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