martedì 3 novembre 2015

F, CAMPEGIANI: "OMERO ED ORFEO"


Franco Campegiani collaboratore di Lèucade

IN  RISPOSTA A:
http://nazariopardini.blogspot.it/2015/10/vito-lolli-orfeo-il-canto-segreto.html

OMERO ED ORFEO

Caro Vito, mi ero impegnato a tornare sull'argomento da te svolto su Leucade ("Il canto segreto di Orfeo", 13 ottobre 2015), chiamandomi direttamente in causa, ed eccomi a te con le mie riflessioni, nella speranza di riuscire ad appassionare e a coinvolgere nel dibattito anche i nostri lettori. Ritengo utile, oltre che appassionante, la presente discussione per mettere a fuoco l'habitat mentale consono alla nascita del mito, e dunque al proliferare delle arti e della poesia. Ti avevo anticipato che il cuore del mio ragionamento si sarebbe aggrumato intorno ai temi della distanza del mitico cantore dagli orizzonti dell'Armonia dei Contrari, e partirei dalla considerazione che nelle culture native di ogni luogo e tempo non sembra sussistere quella divisione radicale tra sogno e realtà, tra umano e divino, tra maschile e femminile, tra bene e male, eccetera, presente invece nelle successive e disarmoniche elaborazioni del pensiero.
Non voglio dire con questo che in quelle culture non si conoscano le differenze, i contrasti, le divaricazioni, ma, al contrario, che proprio la diversità è la condizione affinché possa avvenire l'incontro, l'abbraccio, la cooperazione. Non vige, in quelle culture, l'idea della separazione, e neanche quella della fusione, appartenenti alle successive degenerazioni del pensiero. Tutto, in quelle culture, è relazione, è dialogo, armonia. Sto parlando - è evidente - del tempo delle origini, tempo sospeso tra  il divenire e l'essere, tempo degli archetipi, tempo dell'eterno atto creativo. Sto parlando dell'eterno presente, in bilico tra passato futuro, con un piede nello spazio-tempo ed un altro nell'insondabile mistero. Origini, dunque, non originarie ma originanti, da non intendere nel senso storico o preistorico del termine, ma nel senso archetipico, perennemente attuale.
Uscendo dalla comunione edenica, Adamo taglia i ponti con quel tempo delle origini, per immergersi nel tempo che scorre, sotto il dominio della dea Ragione. La separazione lo allontana dalla vita degli archetipi, vita di relazione e di dialogo, vita di miti sorgivi, facendogli perdere creatività e rendendolo autoreferenziale, pur lasciandogli la libertà di riaprire i canali come e quando vuole. Un identico strappo distoglie il Greco antico dalla sapienza atavica e dal substrato mitopoietico delle remote culture, producendo l'avvento di quella nuova scienza che prende il nome di filosofia. Il passaggio non è brusco, ma viene preparato dalla decadenza stessa dei miti sorgivi, quando, smarrita la primitiva spinta mito-poietica, si trasformano gradatamente in mito-logia, in scienza o teoria del mito.
Come sappiamo, sono i Presocratici ad insorgere contro la degenerazione feticistica dei miti. Il loro pensiero, intermedio tra l'età della Sapienza e l'età della Ragione, è ambivalente: da un lato è nemico acerrimo dell'arcaico sapere, mentre dall'altro ne cerca, al di là della decadenza, il più autentico cuore. Per un verso i Presocratici spianano la strada alla successiva cultura antropocentrica; per un altro puntano i fari sul cosmocentrismo avito. Per un verso inaugurano le filosofie della separazione dei contrari, per un altro ribadiscono i rigorosi principi dell'armonia dei contrari.
In questa sede non è necessario distinguere tra filosofie e credenze religiose, perché ciò che interessa è unicamente il rapporto che le emergenti visioni del mondo stabiliscono con il tempo delle origini, o con l'armonia dei contrari, con il Bifrontismo tipico dei miti. Sotto tale riguardo, c'è da osservare che le scuole orfico-pitagoriche, di pari passo con la scuola eleatico-parmenidea, spingono nella direzione di un monismo dell'Essere teso a svalutare la realtà sensibile, e ciò produce una scelta di campo, una separazione appunto dalla dualità armonica delle ancestrali culture. Soltanto la scuola ionica, con particolare riguardo ad Eraclito, si erge a paladina dell'armonia dei contrari, opponendosi al generale indirizzo monistico delle emergenti filosofie.
Ogni razionalismo è monistico, non soltanto l'essenzialismo testé considerato. Lo sono anche quelle visioni che, al contrario, negano l'universale, come ad esempio il Sofismo labirintico e tragico che nega valore all'Essere, lasciando tracce indelebili,  a sfondo nichilistico, nello sviluppo della cultura occidentale. L'Orfismo, rispetto a tutte queste correnti, conserva una posizione centrale. Esso sperimenta la dualità della realtà e del sogno. Non nega valore né all'una né all'altro, ma non riesce a farlo in maniera armonica e vive la dualità in maniera conflittuale. Il mitico Orfeo non si accorge che l'Eden è qui, sepolto nelle arcane trame di se stesso e del creato, così si pone ad inseguirlo in mondi irreali. Egli crede che gli dei siano fuggiti dal mondo, mentre è lui stesso ad essersene separato. Così le melodie stordite e svenevoli con cui tenta di catturarli sono tutt'altro che quelle della cruda ed impervia condizione originaria.
Sono nenie dell’assenza, dove si evoca, ma non si vive il Paradiso perduto. Canti dell'esilio dalla terra, dalla donna smarrita, dalla pienezza dell’essere, da armonie conosciute e poi abbandonate. La sua tensione verso il sovrasensibile viene così a scontrarsi con un'acuta e sconvolgente percezione del reale. È il senso catastrofico dell’impotenza che fa seguito all'esaltazione di potenza del genere umano. Quando Orfeo, tornando dall'Ade, si volta per guardare Euridice, disobbedendo ai divieti ricevuti, mostra tutta la precarietà e l'illusorietà della sua fede. Euridice scompare e lui precipita nella più sconsolata disperazione. La realtà vince sul sogno e lui, da cantore dell’Essere, si fa aedo del Nulla. I suoi voli metafisici precipitano, come quello di Icaro, in un franare rovinoso. La sua testa, recisa dalle Menadi, continua a cantare sulle acque del Lete, ma non più il canto della meraviglia e dell'estasi, è l'epicedio del fallimento e della fine.
NelI’Orfismo c'è anticipata tutta intera la vicenda della cultura occidentale, dagli esordi metafisici alle conseguenze nichiliste del pensiero attuale. Ma a ben guardare il nichilismo era implicito fin dai primordi negli orizzonti monistici della filosofia, che guarda caso nacque insieme alla tragedia nel mondo classico, in parto gemellare. L'armonia dei contrari non è monistica, non è castrante, ma è la capacità di accettare i contrasti in quanto tali, con forza d'animo, senza manipolazione alcuna. Gli opposti, nell'Eden, sono funzionali l'uno all'altro. Entrambi occorrono alla costruzione della coscienza e nel loro insieme formano un'alta tensione incandescente: quella della creatività e della vita morale. E' vero che Caino e Abele sono inconciliabili, ma sono fratelli e non dovrebbero diventare nemici mortali. L'uno ha bisogno dell'altro, tanto più che rappresentano aspetti ineliminabili di ciascuno di noi, della nostra coscienza e della nostra integrità morale.
Le armonie edeniche si fondano sull'abbraccio e non sulla separazione del Bene dal Male. Non a caso i frutti proibiti sono quelli che danno la possibilità di dividere i due poli tra di loro. "L'accordo è nel disaccordo stesso", dice Eraclito, ma Orfeo ha già separato i due poli ed è già uscito dall'Eden quando inizia a cantare. Tutto il bene è lassù e lui muove verso l'alto le proprie ali, cercando di cancellare le orme del mondo reale. Combatte allo stremo e ne paga lo scotto, per questo merita tutta la nostra comprensione. Nel Simposio, Platone lo biasima perché “fiacco nell’animo, vile nel canto, incapace di azione”, ma ciò è ingeneroso, e direi anche un po' disumano. Quale uomo è immune dall'illusione? Brutto è perseverare, non prendere atto del proprio errore, ma lui si rende conto di avere lottato contro i mulini a vento. Per questo si schianta e precipita in una delusione letale.
Purtroppo non ce la fa a rinascere dalle proprie ceneri. Non si ricostruisce come l'araba fenice. Non riprende animo, come Ulisse, il leggendario ed omerico eroe. Odisseo è sempre nell'Eden. Altalenante e mutevole, vive nell'armonia dei contrari. Non è certo immune dalle tragedie e ben conosce i fallimenti esistenziali. Fa però tesoro di ogni insuccesso, cibandosi delle sue stesse delusioni. Non è un eroe decadente, come il mitico e seducente cantore, ma di certo è anche un perdente, uno cui il fato riserva un'infinità di sventure.  E tuttavia è l’indomito nauta, il combattente umilissimo e fiero, cui, nonostante le sconfitte cocenti, l'ardimento non viene meno. Il naufragio gli occorre per ricostruire il vascello ed orientare meglio la prua.  Non è un drago sputafuoco, un uomo gonfio di boria: non a caso si fa chiamare Nessuno. Non vuole dominare, ma tenta di padroneggiare se stesso, giacché è di ciò che ha bisogno per potersi confrontare con l’ignoto.
C’è un’esperienza letteraria importante, nel panorama e nelle vicende sostanzialmente orfiche dei tempi attuali, che in qualche modo raggiunge l’Ulissismo e di cui è opportuno parlare. Ricordiamo i versi dell’ Allegria ungarettiana: “E subito riprende / il viaggio / come /  dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”? Questo è Ulisse: il testardo nauta che torna sempre e comunque a navigare. L’Ulisse di Ungaretti non ignora la sconfitta, e sta qui l’aspetto orfico della sua figura. Tuttavia, dopo la disgrazia si rimette in cammino. Questo tipo di Ulisse, coraggioso e prudente, può nascere soltanto dalle ceneri di Orfeo. E’ un eroe autocritico, allenato alla revisione costante dei propri schemi mentali. La sua visione del mondo è agli antipodi di ogni concezione statica o definitiva, per cui ogni fine corrisponde ad un principio, ogni nascita ad una morte, e così via all’infinito. Ulisse propone una visione evolutiva e fluida, non statica o schematica della psiche.
Dopo l’Odissea omerica, non c’è forse poema più odisseico di quello dantesco. La Divina Commedia, infatti, non ha alcunché di orfico, se con questo termine dobbiamo intendere l’esilio di Orfeo dalla pienezza dell’Essere; o, se vogliamo, dal divino. Dante raggiunge l’Empireo, ovvero le fonti battesimali dell’umano nel divino. E questo è Ulissismo, non Orfismo. Poco importa che l’Ulisse descritto da Dante venga orficamente ingoiato dalle fauci dell’ignoto. Bisogna distinguere il Dante poeta odisseico dall’Ulisse titanico che egli pone all’Inferno, soppresso in quanto profanatore del mistero. Il vero Ulisse non ha alcunché di arrogante o presuntuoso. Egli è l’umile eroe di se stesso che si libera dalle proprie ansie, dai propri blocchi, dalle proprie paure. Non sfida il divino, ma l’umano, ed è così che riesce a rendere l’umano degno del divino. E’ l’autoanalisi in persona.
Dante, come Ulisse, è un problematico. Non può essere contrapposto all’orfico Petrarca in quanto privo di dubbi e tronfio di certezze boriose. Sono tutti luoghi comuni. Dante non è un fideista, ma un uomo di macerazione interiore. I suoi tormenti sono fecondi, perché fanno di lui un uomo di fede. Petrarca non è un problematico, in quanto i suoi dubbi sono schematici, sono a senso unico, aprioristici e del tutto improduttivi. Socrate, altra figura odisseica, nel suo conosci te stesso, insegna come il dubbio e la fede si possano compenetrare. Ed io ritengo che la cultura contemporanea, approdata da tempo agli orfici temi del Nulla, del Nonsenso e del Vuoto, abbia un forte bisogno di questo ulissismo, incrementando quell’umilissima fede in se stessi e quell’intraprendente conoscenza del mistero, di cui è depositario Ulisse e che soltanto la sua figura può propagare.
C'è un'enorme distanza tra Omero ed Orfeo. L'aedo ionico canta gli umani e i divini in una familiarità mai interrotta o abbandonata. Ci sono momenti di forte dissidio, perché Adamo deve uscire dall'Eden, non può evitare questa disavventura. E tuttavia, se ne esce deve potervi tornare, stando ai principi dell'armonia dei contrari. E vi torna, cosa che non avviene nelle storie cantate dal tracio. Costui separa il divino dal mondo, ma in realtà è lui stesso a separarsi dal mondo, stabilmente abitato dal divino. Le vie segrete ed iniziatiche sono invece sconosciute ad Omero. Il motivo è molto semplice: il suo pensiero innocente non ha mai interrotto l'alleanza con il divino. Omero è cieco e la cecità, tra gli antichi, ha connotazioni sacrali. Costringe infatti a spostare lo sguardo negli abissi interiori, dove ha appunto sede il divino. Inoltre, essendo cieco, egli deve essere accompagnato, e ciò chiama in causa lo stare insieme, il senso corale, la vita in comune.
Secondo l'etimo, Omero significa "ostaggio". Come mai? Al cantastorie viene riconosciuto un contatto con il divino, ed è per questo che il popolo lo trattiene come "ostaggio", come pegno o garanzia che il divino non può abbandonare l'umano. C'è indubbiamente un rapporto intimo del poeta con il divino, ma al solo patto di non insuperbire, di non cercare privilegi e di consegnare le confidenze alla vita comune. Omero è un semplice tramite, mentre Orfeo, cantando pubblicamente le proprie storie, cade nel narcisismo e tende ad esaltare le proprie gesta, divenendo mistico di sé. Come detto, è una flessione spirituale comprensibile, entro i limiti dell'armonia dei contrari e dell'equilibrio duale, ma superati quei limiti si entra pesantemente nella presunzione e nascono i gruppi segreti, con tanto di eletti e seguaci, di adepti e depositari della verità.
La verità tuttavia non si apprende dalle scuole, anche se le scuole insegnano la verità. Esiste un solo Maestro, quello interiore, ed esiste una sola scuola, una sola università: quella della strada e della vita, oggi purtroppo dimenticata. Il mito-poieta è un tramite. Non deve salire sul piedistallo, spinto dal desiderio di fare proseliti, e neppure deve isolarsi dal mondo, beato di se stesso e lieto di non dare le perle ai porci. Il vero eremita vive tra la folla e si rivolge di riflesso alla comunità, affinché ciascuno, ascoltandolo, ascolti se stesso e mediti su quanto rivelato facendone occasione di crescita interiore in assoluta libertà. Purtroppo, anche raccontando miti si può divenire dottrinari. La mitologia, non meno dell'ideologia, può prestarsi a forme di settarismo del tutto prive di spiritualità.
Il mito si presta a due differenti interpretazioni: una iniziatica e l'altra spirituale. Spiritualità non è intimismo, ma universalità. Ed ecco che il mito diviene popolare. Si pensi alla sacralità delle religioni contadine, dove il sacerdote (anch'egli un tramite) si guadagna sul campo la propria investitura e parla il linguaggio della gente comune, non quello dogmatico e retorico di chi vuole imporre la propria autorità. Indubbiamente, anche le storie omeriche hanno subito una degenerazione. Anche per esse la mitopoiesi è degenerata in mitologia, in impianto etico-normativo, ma ne è venuto un corpus di innocue parabole popolari, tramandate oralmente di padre in figlio, senza precettori all'uopo istituiti. Sono fiabe depositate nell'inconscio collettivo, destinate a riscaldare l'animo di chi le racconta e le sente raccontare, nonostante qualche cedimento al feticismo, alla superstiziosità. Non c'è alcun motivo di infierire contro costoro, come fanno i filosofi e i dottrinari che hanno tagliato i ponti con la sacralità.

Franco Campegiani



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