giovedì 5 novembre 2015

VITO LOLLI: "IL MITO ENTRA NELLA CRONACA: GLI DEI SI INCARNANO"



Vito Lolli collaboratore di Lèucade

Il mito entra nella cronaca: gli dèi si incarnano

"Assai profondo è il pozzo del passato. Forse dovremmo definirlo senza fondo... Più a fondo scandagliamo, più indaghiamo e frughiamo nel mondo del passato, e più scopriamo che i primi fondamenti dell'umanità, la sua storia e la sua cultura, si rivelano impenetrabili."  Così Thomas Mann introduce la sua opera mitologica.     Ma a quale modalità resta precluso il pozzo del passato? Dopo aver considerato lo scenario introspettivo aperto dalla rivelazione orfica della memoria profonda, non dovremmo mettere a margine storia ed archeologia che non siano quelle psichiche? Sì, le tracce cronologiche ed oggettive sono una testimonianza importante, ma restano esteriori: la vera “storia”, cioè l’estensione del tempo come successione di stati di coscienza compresenti, distinti solo dalla funzione dell’ osservazione cosciente che li attiva, è dentro di noi, perché interiore è il viaggio mnemonico che re-suscita gli dèi, il dialogo con la profondità psichica UNA che essi sono.                                                                                 C'è nel sistema psicosomatico umano una struttura o un processo dinamico cui poter riferire l'origine del mito e del rituale? La via per vedere le prime forme dell'immaginazione mitopoietica, come proposto sopra, è archeologica-etnologica o psicologica?  In questo senso le prime civiltà sono solo il primo livello di profondità: sotto tale livello si trovano le centinaia di migliaia di anni dell'uomo primitivo.                          Ma esiste un terzo livello, ancora più profondo e oscuro, al di sotto del precedente, e al di sotto dell'orizzonte ultimo dell'umanità, in cui si trovano danze rituali tra uccelli, pesci, scimmie ed api. Il vivente risponde in modo innato ai segnali del suo ambiente, manifestandone inconsapevolmente forme e funzioni - e gli "dèi" sono la traccia mitopoietica di tutto questo, la manifestazione originaria di una fase evolutiva della coscienza vissuta come conoscenza.                                                                      Può questo essere oggetto di una scienza? Può esistere una scienza naturale degli dèi che pretenda di essere soggetto, misura e metodo di un oscuro fondo senza fondo nell'abisso del tempo? Forse il rapporto che c’è tra mito e mitologia non è lo stesso, paradossale e problematico, che c’è tra psiche e psicologia, cioè l’illusione di ridurre l’ineffabile all’espressione? Ogni specchio è sempre identificato dai suoi limiti e lo specchio infinito è la metafora di un dio, non di un uomo; ma quando un uomo è invaso dal dio (enthousiasmos, “en-theos”) quei limiti sono travalicati, per un solo insondabile istante, in un riflesso folgorante che lascia l'impronta di un opera d’arte o di un viaggio iniziatico – due facce, queste, della stessa medaglia.
Piacere, potere, dovere: con queste categorie si definiscono i sistemi di interesse che costituiscono i princìpi dell’agire umano. Individuali i primi due, sociale il terzo. Ogni sistema mitologico era informato dalla necessità di rendere questo terzo principio capace di controllare gli altri due ai fini di una coesione sociale che assicurasse l’esistenza di tutti i membri del gruppo; per questo ogni pedagogia giuridica, per essere efficace, doveva rappresentare la volontà di un indiscutibile potere supremo, che fosse volontà e magia degli “antenati”, di un “padre onnipotente”, o la regola matematica dell’universo, l’ordine naturale di un’umanità ideale, o un imperativo immutabile presente nella natura morale umana. E’ quindi nel mito che questo terzo principio, il dovere, trova l’energia necessaria per essere interiorizzato da ogni individuo come identità personale e di gruppo: è proprio il mito fondativo a determinare l’ethos collettivo e a fare di quello che solo ora può chiamarsi popolo un destino. E fatalmente, quando il mito fondativo esaurisce la sua propulsione, l’ethos e il destino che identificano un popolo si dissolvono. Quel popolo non c’è più; il senso di appartenenza svanisce e gli individui si sentono soli, non si riconoscono più. Un regresso alla paura, che riporta tutti contro tutti per una inutile, animale sopravvivenza. Dissolto il sociale, resta lo scontro individuale che concentra piacere e potere nella capacità seduttiva di un individuo che incarna il bisogno di un punto di riferimento collettivo: finiva - e finisce – che chi impersonava questo terzo principio sociale fa suo il potere del dovere morale incarnandone l’assoluto: lui in persona si fa ethos e destino del collettivo in crisi di identità. Dalla religione alla politica e all’economia, i tre sistemi si rivelano fluidi e miscibili nelle varie manifestazioni. E non è cosa antica, superata.                                                                                 
Quando i gruppi si fanno molto più vasti e altamente differenziati (il passaggio all’agricoltura verso il 6000 a.C.), si tratta di creare e rafforzare un controllo sociale capace di conciliare disuguaglianze e coordinazione, ed è qui che si verifica, secondo l’antropologia, una sorta di geniale miracolo: fu preso a modello l’ordine dell’universo, che armonizza differenze. Gli uomini prendono lezioni dalle stelle. Ma cosa ci ha fatto alzare gli occhi al cielo?                                    L’idea di un’armonia naturale tra umanità e universo realizza una sublimazione dei tre ordini di interesse nell’insorgenza di un quarto principio, quello della meraviglia di fronte al mistero di tale armonia e quello della sua contemplazione. Un principio superiore, che l’uomo cercò di imitare. Un principio che non si risolve in una funzione, una derivazione o una combinazione degli altri tre, ma che è davvero altro: il principio del piacere disinteressato, il piacere di perdersi in un ordine che ora definiamo “estetico” ma che è stato chiamato spirituale, mistico, religioso. Il bisogno biologico del piacere e del potere, e quello sociale di stabilire valutazioni e regole (bene o male, vero o falso), svaniscono. Sopravviene un’esperienza di estasi, in cui la perdita del senso di sé coincide con un sentimento di elevazione, un’esperienza indicibile ed irriducibile a nient’altro: l’interiore si libera, per un momento o per sempre, di quei bisogni di godere, di vincere e di conformarsi che manifestano la rete nervosa in cui gli uomini sono tessuti e impigliati, quell’”ego” che ora, di fronte all’insorgenza di questo stato di coscienza altro, si dissolve nello stato di “non-mente”. Forse, è solo qui che per la prima volta si può vedere, nell’ordine naturale, emergere l’essere umano nel suo tratto distintivo.
Meraviglia e contemplazione si manifestano nell’impulso a riprodurre un ordine di armonia e bellezza o nella facoltà di incarnarne, mediandoli, potenziali psichici assolutamente estranei alla prestazione media della sopravvivenza quotidiana individuale e di gruppo, vissuto che conduce gli individui che li manifestano ad uscire dal proprio sistema locale di credenze. L’artista e lo sciamano rappresentano i poli di tale vissuto.     Entrambi testimoniano che l’uomo primitivo poteva provare il sentimento d’estasi di fronte al mistero dell’universo e raggiungere una conoscenza che si può definire saggezza, uno stato di coscienza che superava i limiti temporali della loro misera comunità, l’orizzonte ristretto delle conoscenze tecniche e scientifiche disponibili. La via dell’artista e quella dello sciamano sono il primo esempio di una vita dedicata a questo quarto principio che diventa un fine: è qui che il mito diventa via e strumento di una trasmutazione psicologica.    Esistono testimonianze inconfutabili di un allargamento dello spazio interiore individuale e della realizzazione di un’esperienza di morte e resurrezione anche a livello di queste primitive esplorazioni.                 Lo sciamano trascende lo stato di coscienza del suo contesto di appartenenza ed entra in contatto con i misteri della psiche, che conducono ad una sapienza concernente sia l’anima che il mondo. E così l’artista e lo sciamano, poli di una medesima funzione, vedono e incarnano quelle Immagini archetipe del mito, creano gli dèi e smuovono l’umanità da una sterile immobilità limitata e ripetitiva verso nuovi orizzonti e profondità. Dunque il mito, dopo aver portato a compimento le fasi del piacere, del potere e della morale sociale, realizza la fuoriuscita da tali sistemi.
Sono andato a cercare questo breve segnavia antropologico per indicare il contesto meno documentato e meno documentabile della grecità primitiva, che finora ho tentato di ripercorrere per quanto possibile fuori dei luoghi comuni di sistemazioni fuorvianti. E il riferimento al fenomeno sciamanico è necessario per nominare l’enigmatica identità del popolo degli Iperborei. La notazione è etnica, geografica o simbolica?           Gli approfondimenti sul tema della mantica estatica misero in evidenza i personaggi di Abari e di Aristea, connesse con gli Iperborei. E oggi c’è sempre più attenzione per la possibile origine iperborea di Apollo in relazione ai fenomeni sciamanici, alle capacità divinatorie, magiche e di guarigione, nel senso di una estensione dell’azione di Apollo, come dio della sapienza, anche al di là della dimensione della parola e della musica.       Ma se Orfeo e Museo (divinatore dall’antichità parallela a quella di Orfeo e padre di quell’Eumolpo cui la tradizione attribuisce l’istituzione dei misteri di Eleusi) restano avvolti nella leggenda, queste figure apollinee di natura iperborea sono alle soglie della documentazione storica: la sapienza apollinea si rivela per la prima volta in individui concreti e la figura del sapiente è fatta di capacità individuali. Non sono favolosi semidèi, ma uomini. Non manifestano solo la parola e la poesia, ma anche l’azione magica e doti eccezionali di funzioni psichiche superiori concesse dal dio. E’ l’invasamento dionisiaco a renderli capaci di tanto: ecco la follia di Apollo all’opera. L’estasi apollinea è un uscire fuori di sé, è l’anima che abbandona il corpo e sperimenta lo stato disincarnato – e questo è testimoniato per Aristea. Ad Abari vengono invece attribuiti incantamenti divinatori. E’ un quadro sciamanico, quello che viene attribuito a questi personaggi, le cui citazioni in Pindaro e, soprattutto, in Erodoto fanno pensare che siano vissuti veramente. Manifestando ora l’estasi (apollinea?) come uscita da sé (ekstasis), ora la possessione (dionisiaca?) come ingresso del dio in sé (enthousiasmòs), qui compare per la prima volta il sapiente greco. In fondo, tutto ciò non significa il divino incarnato? Il “mito”, ora, agisce in carne, sangue ed ossa – ed è esattamente quanto la nostra cultura storica professa attribuendolo esclusivamente a Gesù di Nazareth. Ecco quali sono i contenuti straordinari dell’età sapienziale dei Greci, di cui la successiva “filosofia” non fu che l’oblìo fuorviante.
Perché questo percorso nella grecità arcaica? Tutti i popoli hanno conosciuto e conoscono i fenomeni estatici e quelli ispirativi, quelli sciamanici e quelli metapsichici, ma è nel solco della nostra cultura storica che l’esperienza diretta del profondo psichico viene sostituita da una conoscenza tesa al controllo dei fenomeni naturali – sostituzione che siamo abituati a considerare evoluzione ma che non è altro se non differenza.     Il frutto di tale diversità, la scienza, è ormai da circa un secolo di fronte alla confusione dei propri presupposti: la realtà fenomenica si dissolve sotto gli occhi di chi si fa soggetto osservatore e ci lascia sull’orlo del nulla.                          Senza ora entrare nel merito, sta di fatto che una modalità di gran lunga più superficiale ha finito per relegare la sapienza, uno stato della coscienza, nell’oblìo dell’ormai incomprensibile espressione mitica, metaforica e simbolica che ne esprimeva la dimensione necessariamente iniziatica: è la parola ad aver cambiato statuto, e diventando l’autosufficienza semantica del concetto si è ridotta ad una verbalizzazione incapace di evocare stati sopiti e funzioni dimenticate. La banale distinzione scolastica tra mythos e logos, fiaba infantile il primo e concetto adulto il secondo, perde completamente di vista il fatto che non sono diverse espressioni della medesima conoscenza, ma manifestazioni di stati dell’essere diversi che implicano esperienze diverse e, dunque, espressioni diverse di conoscenze irriducibili. Abbiamo creduto di crescere superando il mito in una razionalizzazione astratta del conoscere, ma la struttura psichica fondamentale non si è mai allontanata o diversificata dal sostrato mitico che la costituisce, perché il mito è il tessuto della psiche, perché l’uomo non può vivere senza credere in una versione qualsiasi del comune patrimonio mitico: infatti la pienezza della vita, l’identità personale e il senso dell’esistenza, sembrano stare in rapporto diretto non con il suo pensiero razionale, ma con la profondità e l’ampiezza del patrimonio mitico. Da dove nasce la forza di questi temi fantastici? Come possono animare i popoli spingendoli alla creazione di civiltà capaci di bellezza e di destino? Perché gli uomini, cercando un fondamento solido per dare senso all’esistenza, non si rivolgono alle concretezze del mondo fisico ma a sogni concepiti da un’immaginazione antichissima? Perché, da quando la razionalizzazione del mondo tesa al controllo e al dominio tecnico-scientifico della natura e della società ha tagliato i ponti interiori del mito, l’umanità lamenta l’angoscioso svuotarsi di senso dell’esistenza?
Forse il lascito più importante della grecità, una delle radici fondamentali della nostra cultura, è l’enigma di quella natura contraddittoria, opposta ma complementare, polisemantica e insondabile, che ebbe nome “Dioniso” ed “Apollo”. La sapienza si manifesta nell’oscuro intreccio di parole con cui il divino sfida gli uomini nascondendo la luce e provocandoli allo strazio della lotta che prima crea una spiegazione e poi deve confliggere con le altre per l’affermazione, in una gara che non premia ma isola. La luce è fuori della gara parolaia e il divino ne serba la visione nel segreto della memoria profonda. Per questo l’essenza della conoscenza fondata sulla parola non può che essere l’inganno, ed ecco perché l’enigma, nella forma letteraria già ben anteriore al V sec. a.C., prende forma di contorti indovinelli tesi ad ingannare: la conoscenza è inganno e il sapiente non si lascia ingannare dalle apparenti forme del conoscere.                                                                            
Visti in questa luce, c’è da chiedersi se la lettura storica dei sapienti che antecedono la filosofia, fatta da posteri che li hanno fraintesi perché diversi da loro, non sia essa stessa un inganno enigmatico che porterebbe ad un’altra domanda, quella che implica i fondamenti stessi dell’intera storia della nostra filosofia: non è essa, ciò che siamo abituati a chiamare “filosofia”, il vagabondare erratico di parole che hanno perduto la memoria di ciò che le origina come allontanamento da sé? L’enunciato verbale di un concetto e la sua mentizzazione, il logos nella sua accezione di parola, hanno mai aperto la profondità psichica così come il mito poteva fare in quanto sua origine e funzione? E non è forse proprio lo scadere del logos all’espressione parolaia ciò che riduce la comprensione del mito a racconto ormai estraneo alla sua natura e funzione?       Forse non è vero che non si può delineare la crisi dell’umanità contemporanea. Navighiamo in superficie e non ricordiamo su quale profondità galleggia la nostra barchetta, non ricordiamo più la rotta e non sappiamo più attendere aurora e tramonto, notte e sonno. Parlando il linguaggio dell’oblìo, non sappiamo che non stiamo dicendo più nulla: quello che diciamo non è e-vocativo del dio nascosto. Come possiamo sperare in una nuova folgore mitopoietica?

Vito Lolli

1 commento:

  1. Carissimo Vito, il grande Nazario che ci ospita ha pubblicato l'altro ieri il mio "Omero ed Orfeo", dove rispondevo al tuo precedente articolo ("Il canto segreto di Orfeo"), e già trovo oggi, a mo' di risposta, questa tua articolata riflessione, contenente sviluppi interessanti delle tematiche su cui ci stiamo confrontando. Dico "a mo' di risposta", perché credo tu l'abbia stilata prima di leggere il mio intervento, e comunque, a tutti gli effetti, può valere come tale. Il terreno su cui ci confrontiamo - lo riassumo per una migliore comprensione da parte del lettore - è la ricerca dell'habitat mentale più consono per la nascita/rinascita del mito, e la domanda si innesta nell'urgenza di fare ricorso agli archetipi per superare l'impasse di una cultura che sta facendo uscire di scena l'umano. Il tuo ragionamento è questo, se ho capito bene (lo riassumo in modo schematico, sempre per facilitare il lettore): in un mondo squassato da discordie, come quello in cui viviamo, l'unica salvezza sta nel tornare all'Uno. Il discorso non sembra fare una grinza, ma in che modo l'Uno si presenta nella condizione originaria? "Quando gli dei si incarnano" (mi piace molto il titolo che hai dato a questa tua riflessione) non fanno altro che sdoppiarsi, pur restando saldi nella loro essenza divina. Entrano nell'umano perché hanno bisogno di questo confronto, che è un confronto con se stessi, divenuti umani pur restando divini. Detto in modo più diretto, e forse più semplice, c'è l'uomo e c'è l'essere dell'uomo. C'è l'uomo sensoriale e c'è la sua essenza disincarnata, la sua "scintilla divina". In pratica, si è due in uno. O uno in due, se preferisci. Ciò che conta è il confronto, il contrasto, senza il quale non esiste equilibrio. Il divino deve tener conto dell'umano, e l'umano del divino. Il monismo a mio avviso non giova all'armonia, per cui non è in grado di generare "una nuova folgore mitopoietica", come tu dici. Ad ogni modo ti sono grato per queste stimolanti riflessioni.
    Franco Campegiani

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