GUIDO MIANO EDITORE
NOVITÀ EDITORIALE
È uscita l’ultima raccolta di poesie:
DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA di NAZARIO PARDINI
con prefazione di Marco Zelioli
Pubblicata la raccolta poetica dal titolo Dagli scaffali della biblioteca di Nazario Pardini, prefazione di Marco Zelioli, nella prestigiosa collana “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore, 2020.
La nuova pubblicazione di Nazario Pardini Dagli
scaffali della biblioteca ci permette di apprezzare ancora una volta la sua
verve di scrittore in versi, oltre che di fine critico e narratore
altrove dimostrate. Se non costituisce una particolare novità nel panorama
della sua opera, riprendendo (inevitabilmente) temi già affrontati ed
ispirazioni già seguite, è però ancora sorprendente per la freschezza del
pensiero, per la leggerezza dello scrivere, per la spontaneità dei sentimenti
espressi, per il fascino con cui cattura il lettore fino a portarlo ad
approfondire tanti aspetti dell’umana esistenza, senza però quel tedio di fondo
che a volte si coglie nelle “rimembranze”. Perché si tratta di ricordi,
sostanzialmente, in questi versi. Anche se il Pardini ci avverte: “… Non
diciamo ‘ricordi’. Raccontiamo / le cose come stanno, / i luoghi, le canzoni, i
panorami, / la nostra infaticabile allegria, / la timidezza che impediva spesso
/ gli abbracci che ci avrebbero confusi / nell’empito d’amore. Ora è tardi, /
mia carissima Delia, non c’è più / la timidezza che ci fece allegri, / la corsa
improvvisata sulla sabbia / che raccoglieva bàttime per noi…” (Non è più il
tempo). Ma andiamo con ordine.
La prima parte della raccolta è intitolata Ricordi che
pungono. È una rassegna di affetti familiari che il poeta presenta al
lettore con la delicatezza di sentimento di chi contempla la fuggevole realtà
come segno di qualcosa che non si comprende appieno, ma che inevitabilmente
c’è, e perciò va riconosciuto come vero al di là di ogni ragionevole dubbio:
“…una parvenza del mistero / che anche la piccola foglia / non tace” (così
termina Toglietemi quel muro).
Sono ricordi non sempre facili, di fronte ai quali il
Pardini, quasi sofferente, può confidare: “…Ora la penna è stanca, non ha più /
l’inchiostro sufficiente per descrivere / il triste stato di una solitudine, /
stordita dalle voci andate via…” (Ai miei cari). Ciò nonostante, “…La
mia casa non ha preziosi in cassaforte / ha solo l’uscio aperto nell’attesa /
di qualcuno che passi e si soffermi, / per dire due parole” (La mia casa):
è una tristezza cha apre, non che chiude in se stessi.
Pur pensando sempre ai “…Tanti i
volti che si sono spersi / lasciandoci più soli nei ricordi”, come recitano due
versi della lunga poesia A mia nipote Carla in tempo di memorie, il
Pardini non si ritira dall’affacciarsi al tempo in cui “tutto era bello, tutto
una ricchezza” (così si legge nella poesia dedicata A mio fratello Saverio e
Graziella - Per il cinquantesimo anniversario del matrimonio). Trattiene quel “tutto” nella memoria e nello scriver
versi lo ricompone, come si ricompongono le infinite gocce in un “mare / di
nostalgie fresche e ricamate” (parole tratte da un’altra lunga poesia dedicata A mio nipote Sandro).
La seconda parte dà il titolo all’intera raccolta: Dagli
scaffali della biblioteca. Vi sono raccolte, semplicemente contraddistinte
da un numero romano, trenta poesie di varia lunghezza. Sono immagini, momenti
catturati al tempo: il sole che da mattina a sera vede, osserva la vita degli
uomini (I); il poeta che immagina Chagall dipingere un gruppo di
contadine (II); nella III si immagina seduto accanto a Manzoni,
Leopardi e Catullo che declamano i loro scritti, finché un temporale li fa
svanire: “…Ma nell’aria continuano a volare / parole e melodie; indifferenti /
al giungere di nubi ed acquazzoni”. E via così, di immagine in immagine, tra
sprazzi naturalistici ed accenni a vari scrittori, non solo poeti come
Baudelaire, Dante, D’Annunzio, Saba, Pavese, Cardarelli, Ungaretti, Francesco
Pastonchi, Attilio Bertolucci, Giuseppina Cosco, Giorgio Caproni (che
dolcemente e dolorosamente chiede: “-Anima mia leggera / va’ a Livorno, ti
prego, / e con la tua candela / timida, di nottetempo / fa’ un giro; e, se
n’hai il tempo, / perlustra e scruta, e scrivi / se per caso Anna Picchi / è
ancora viva tra i vivi…-”; e quest’Anna era la madre del Caproni). Le citazioni
testuali, come questa del Caproni, abbondano, tutte uscite Dagli scaffali a
cucire un testo misto di poesia e saggistica, così doppiamente ricco di spunti
di riflessione.
Ecco cosa “vive” negli scaffali della biblioteca del
Pardini, e cosa egli ci fa rivivere, ponendocelo dinanzi: uno stuolo di poeti,
ma anche un critico come Carlo Bo ed illustri filosofi, da Platone a Nietsche –
protagonisti di ‘incontri ravvicinati’ col Nostro. Attorno a loro tutto si
presenta come vivo, presente. Magia – diciamo così – della poesia pardiniana,
di cui è popolato non solo il mondo dei suoi ricordi, ma che va a riempire
anche il nostro vuoto di cultura. E tale magia si dipana fino alla XX
poesia che esce Dagli scaffali…, dedicata a Sibilla Aleramo e seguita
dalla lettera del 25 aprile 1917 con
cui la stessa Aleramo da Firenze
inviava la poesia Sento che
sorrido al suo “povero Dino” (Dino
Campana). In mezzo alla raccolta spicca la X, una favola in versi –
dal vago sapore autobiografico? – raccontata dal poeta al suo immaginario
interlocutore del momento: il “…quaderno / con le pagine aggrinzite /
dell’ultimo scaffale, un volto mesto…”,
al quale dedica la fiaba “…di un re e una regina che non vollero / sedersi
sopra il trono, ma pazienti / si dettero al lavoro per i campi…”; è una fiaba che non ha un lieto fine,
perché la morte sopraggiunge anche per loro, ma che rende il quaderno “… felice
che anche le mie pagine / contengano una fiaba emozionante / da recitare a chi
viene a trovarmi-”. Né si può tacere
della XV, protagonisti “…Leopardi con Manzoni,
Cardarelli / con Pavese, Catullo con D’Annunzio… / e tutti esprimevano
pensieri / sul mondo e le vicende che toccavano / la loro singolare situazione…”, finché sono quasi costretti a lasciare il
passo ad Ungaretti, che con “…voce rauca e un po’ sgraziata /…/ fece
sentire il suono dei suoi versi / ponendosi in rilievo…”; la poesia si conclude così: “… Chiuse il suo testo e con la
voce mesta / si ritirò al suo posto; tutti quanti / lo accompagnarono; e pronti
alla lettura / recitarono i versi del poeta, / mentre lui con animo avvilito /
si chiuse in un mutismo solitario: / quella cosa che più gli confaceva” – quasi
il tratto finale di un bozzetto che ci
dona un appropriatissimo ritratto di Ungaretti.
Le Dieci poesie d’amore, che costituiscono la terza ed ultima parte della
raccolta, sono un inno alla vita. Vi si
trovano immagini leggere, fresche, spontanee: “…il tuo sorriso / appoggiato
alla spalla di un torrente / che lieve scorreva verso il mare…” (Con la rete
da pésca); vi sono tratti
paesaggistici accostati al sentimento personale, quasi a far partecipare la
natura delle vicende umane – come in
molta tradizione, non solo romantica: “…La rena risplendeva ai raggi
della luna, / e l’onda luccicava. Tutto ci era vicino…” (Corri Delia). La stessa cui, ne Il ricordo di Delia, il poeta immagina di poter dare un ultimo
bacio, “…Ma mi è sfuggita di mano e fra le braccia / mi son trovato il
vuoto. La memoria, / pietosa della mia solitudine, / l’ha rimpiazzato / col
profumo di pèsca delle sue sciolte chiome”.
Oppure semplici descrizioni – semplici per modo di dire, perché anch’esse
cariche di ricordi: “Le foglie tinniscono e le note / di Amapola vagano
nell’aria. / La sera una preghiera ad occidente / dove il sole si perde alla
marina. / Tutto è rosso. Il mare un luccichio…” (Amapola). Vi si trova un tesoro di amore che apre
il cuore alla contemplazione del tutto come opera mirabile del creatore (che il
Pardini nomina con la minuscola non certo per sminuirlo, ma forse per timore di
enfatizzarne troppo la nascosta perenne presenza: si veda Se non esistesse).
Il Pardini ci ha abituato
nelle precedenti opere alle variazioni di tono e, mantenendo negli ultimi versi
della presente raccolta quello spirito leggero ed ironico già manifestato nella
sua produzione in versi, pone proprio a chiusura di tutto un asterisco: sì, il
titolo è proprio *. Le parole scritte sotto di esso) sono veramente una
mirabile conclusione per un’altrettanto mirabile raccolta; vale la pena
ricordarle tutte: “Non è che tutti quanti
applaudirono / alla lettura delle poesie, / anzi qualcuno criticò quei testi /
trovandoli melensi. Ma l’autore / si ritirò in silenzio nello spazio / che gli
altri gli avevano concesso / per pietà, felice di trovarsi accanto / ai versi
di Catullo. E tutto tacque. / Ognuno si rinchiuse dentro sé, / carico di
memorie e saudade, / per rivivere momenti ormai sfuggiti / di un’età che
brillava quanto il mare”.
C’è chi sostiene che, dopo la morte di Edoardo Sanguineti
(2010) e di Andrea Zanzotto (2012), entrambi “espressione di una confusione
disarmonica del sentire espresso in versi”, resta una “giovane e giovanissima
poesia, dispersa nella propria potenza quantitativa, ma come sospesa in attesa
di un contesto che sappia accoglierla e coltivarla, nelle dinamiche di un
processo artistico refrattario (per fortuna?) al consumo immediato, e che
richiede decenni per affermarsi. Cosa, in questo momento, estremamente
problematica”. Una considerazione amara sulla poesia italiana contemporanea, e
forse non del tutto vera. Ci sono poeti che, non necessariamente giovani o
giovanissimi, trovano un loro modo autentico di esprimere il senso della
ricerca umana del vero, del bello, del bene – pur nella consapevolezza
dell’esistenza del falso, del brutto e del male nel mondo d’oggi come in quello
del passato. Poeti che trovano il modo di esprimersi anche in versi di facile
lettura, non astrusamente arzigogolati, e la cui essenza poetica non risiede
nella forma complicata del verseggiare, ma nella nitidezza dell’espressione,
che proprio per scelta rifugge dalle complicazioni ermeticheggianti di troppi
scrittori contemporanei.
Uno di quelli che non si sono indirizzati sulla via della
complicazione è, di certo, Nazario Pardini, che mostra in tutto l’arco della
sua produzione poetica di non cedere alle mode. C’è in lui, sì, molto di
“classico”, ma opportunamente attualizzato; i suoi studi letterari emergono con
vigore dal suo modo di scrivere in versi, ma con personalità indiscutibile. C’è
un che di foscoliano nel verseggiare del Pardini, il quale sa ammantare lo
spirito romantico tipico della “rimembranza” (che è anche leopardiano) con
quello stile dolcemente neoclassico, che riecheggia la nitidezza dei versi
catulliani (come non ricordare, in proposito, la foscoliana A Zacinto in
parallelo ai versi di Catullo sull’amata Sirmione?). Eppure non c’è alcuna
dipendenza dai modelli di riferimento, perché lo scrivere del Pardini spazia
liberamente nei campi già arati da tanti illustri predecessori, il cui studio si avverte bene (forse va considerato un dato
“obbligato”, da emerito professore di Letteratura qual è): e ciò è tutt’altro
che un limite, anzi è un pregio, perché il Nostro sa scrivere ispirandosi alle
loro opere, però non soccombe mai alla loro auctoritas scadendo in
improvvidi manierismi, e rifugge da inutili sperimentalismi.
Davvero Dagli scaffali di Nazario Pardini esce una volta ancora uno Scrittore con la maiuscola.
Marco Zelioli
Nazario Pardini, Dagli scaffali della biblioteca, pref. Marco Zelioli, Guido Miano
Editore, Milano 2020, pp. 120, isbn 978-88-31497-30-5.
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