domenica 22 novembre 2020

FLORIANO ROMBOLI LEGGE: "DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA" DI NAZARIO PARDINI; GUIDO MIANO EDITORE


Nazario Pardini, Dagli scaffali della biblioteca, Guido Miano Editore, Milano, 2020

 

Floriano Romboli (a sinistra),
collaboratore di Lèucade

La dimensione temporale, nella sua impalpabile, sfuggente problematicità, è consustanziale alla condizione esistenziale dell’uomo. Anche a prescindere dal riferimento esplicito al rigore speculativo dell’investigazione agostiniana, appare evidente quanto l’ordine cronologico scandisca l’esperienza umana, ne organizzi in maniera determinante l’elaborazione intellettuale-morale, ne costruisca i fondamenti ideali e sentimentali, eppure insieme ne insidi e corroda la consistenza a causa del suo inesorabile trascorrere. E in tale accezione specifica mi sembra che il motivo del tempo costituisca il nucleo genetico, la primaria sollecitazione aggregativa dei testi compresi in questa nuova raccolta poetica di Nazario Pardini, e rappresenti il tratto peculiare, strutturalmente unificante di essa.

“Ma le cose si affrettano (…) Noi tre fratelli assieme nella foto/che sta lì davanti alla vetrina/a ricordarci come il tempo fugga/e se ne vada questa vita./Tanti i volti che si sono spersi/lasciandoci più soli nei ricordi” ( A mia nipote Carla in tempo di memorie, vv.38 e 41-46, cors. mio) ;   “Venne fuori da un quaderno/con le pagine aggrinzite/dell’ultimo scaffale, un volto mesto./Un po’ isolato/sfigurato dagli anni, e alquanto triste” ( X, vv.1-3) ;   “Non l’avevo più vista dai tempi dell’amore./Furono i primi baci, i primi approcci,/poi la vita, la scuola, le distanze,/ma non passava giorno che io non ripetessi/quell’immagine sacra, le sue mosse,/i suoi lunghi monologhi, le grazie” ( Il sorriso del mare, vv.1-6).

Ho citato volutamente da tutte e tre le sezioni di cui consta la silloge, mentre il corsivo alla fine del primo brano intende sottolineare il valore etico e culturale della memoria, cioè di quell’essenziale operazione restaurativa e auto-difensiva, alla quale l’umanità è ricorsa nella lotta ingaggiata contro il potere distruttivo del tempo, nella resistenza alla sua vis nullificante: “Dove, dove, quel pioppo solitario/con le fronde cullanti l’innocenza/di mio fratello piccolo occupato/a lucidare bici per tre bicci?/Non c’è più niente attorno a quella casa” ( La sorpresa di Natale, vv.25-29, cors. mio).

Il tema del “recupero memoriale” è centrale nella poetica di un autore come Pardini, che del ri-vivere avvenimenti e situazioni individuali e collettive ha fatto l’occasione privilegiata per una riflessione indagatrice, per un’attenta considerazione valutativa.  Il ricordo, spesso fonte di concentrazione lirica (“Cari miei cari, ho scritto tutto e a tutti,/vi ho portati con me in riva al mare,/là dove spesso pescavamo sogni,/sulle prode loquaci delle nostre fatiche,/sui colli, nei posti che da vivi/percorremmo insaziabili”, Miei cari, vv.1-6),  ha talora valenza patetico-effusiva:  “Eppure non piangeva mio padre./I bambini non piangono se sanno/che la famiglia è povera e non ha/vestiti da indossare; su dal cielo/una voce gli diceva di non crescere:/le pene si consolidano negli anni” ( Ho sognato mio padre da bambino, vv.4-9) ;   può indurre cadenze prosastico-narrative:   “La prendevo spesso, trastullandola,/per le vie del paese. Una volta,/proprio davanti alla piccola chiesa,/mi sfuggì dal sedile/e cadde giù per terra. La portiera/ non era chiusa bene. Mi ricordo/ lo spavento che presi” ( A mia nipote Carla, cit., vv.20-26);    “I due regnanti/un bel giorno decisero di fare/una vita diversa. Fu così che si misero/a commerciare con la vigoria/degli eredi che attivi li seguirono (…)Tutti quanti si dettero al lavoro:/progettarono idee, crebbero case,/ e soprattutto amarono…”( X, cit., vv.27-31 e 34-36) ;   ma è altresì momento tormentoso e intimamente “pungente”, stato spirituale ambivalente e quindi stimolo conoscitivo:   “Che cosa posso fare, e che dire./Posso soltanto piangere in disparte/per non avere detto o avere fatto/quello che poi è stato un grande sacco/ di ricordi che pungono/ e inutilmente scassano il pensiero” ( Ricordi che pungono, vv.13-18, cors. mio, come nella citazione successiva);   “Tutto ci era vicino,/ e tutto accompagnava quella fuga/che facemmo inesperti. Ma tu ricordi?/ O sei chiusa nell’oblio/voluto dalla vita” ( Corri Delia!, vv.8-12).

Pure la seconda parte, che dà il titolo al volume, la più interessante e sorprendente per l’originalità – in questi versi lo scrittore si atteggia a bibliotecario scrupoloso e sollecito, impegnato in un dialogo immaginario con gli autori di libri di grande rilievo artistico e culturale e a lui particolarmente cari, disposti in buon ordine sugli scaffali dello studio –,  trae spunto da circostanze temporalmente definite e animate dall’efficacia ispiratrice e vivificante del ricordo, magari sullo sfondo di una descrizione naturale stilizzata in forme metaforiche vagamente “barocche” (“Il sole ormai stanco di viaggiare/si va coricando sul guanciale/rossastro delle nubi…”, I, vv.13-15):  “La campagna è fiorita. Sopra il prato/sono seduto accanto/a Catullo, Manzoni, Leopardi;/il tempo si è fermato, si è stancato/di misurare il mondo; si è accasciato./Il Manzoni, con voce diamantina,/recita L’addio ai monti, e il Leopardi/con voce alquanto roca e un po’ malata/A Silvia; mentre Catullo addolorato/dedica a Lesbia la sua malinconia./Una fiorita di canti e di ricordi./Il sole è vivo sopra i loro gesti/e il tutto si rianima di vita e di pensieri” (III, vv.1-13, corsivi miei).

Ed è nutrita la serie dei poeti dei quali si evocano le opere, a tratti con un linguaggio piacevolmente discorsivo e briosamente leggero ( ad esempio in VII, vv.1-5, nientedimeno che Dante Alighieri gli si rivolge con parole siffatte: “Sono passato all’Inferno di Dante,/ma quello: - Guarda se non te ne vai/ti caccio tra le fiamme, come meriti,/tra i sepolcri infuocati, in compagnia/ di Farinata, tra gli eresiarchi -”) ; i riferimenti  concernono, oltre i personaggi già menzionati, Baudelaire, Platone, Pavese, D’Annunzio, Cardarelli, Saba, Ungaretti, Montale, Caproni, Sibilla Aleramo e Dino Campana, Foscolo, Quasimodo e altri ancora, nell’àmbito di un serrato confronto ideale-letterario, ove alla citazione puntuale dei testi seguono sovente il commento parafrastico e l’ipotesi di un’embrionale considerazione interpretativa, sulla scorta del modello foscoliano, di colui che in un passo celeberrimo dei Sepolcri, richiamando nel contesto del commosso elogio a Firenze le figure di Dante, Petrarca e Machiavelli, ne abbozzava ad un tempo il profilo critico.

Lo spazio di necessità limitato di una nota recensoria non consente un esame diffuso e analitico dei varî ritratti “esegetici” pardiniani: mi sia consentito di indugiare soltanto riguardo a un autore che anch’io prediligo, Gabriele D’Annunzio, di cui sono messe opportunamente in risalto la fervida e preziosa fantasia linguistico-espressiva e la concezione “panica” della natura: “Mentre da un lato uscì grintoso/ da Il piacere il grande forgiatore/di lessemi e stilemi. E con fervore/mi si levò davanti recitando/un canto delle Laudi, La Versilia (…) E voglia il cielo che/ancora una stagione/possa tornare a vivere in Versilia,/a fondermi coi fremiti di Pan,/tra quelle spiagge arse e profumate/di gocce di salmastro”(XI, vv.4-8 e 32-37).

Tale excursus esplorativo prepara l’episodio dell’auto-presentazione artistica, giacché Pardini in XXVI, vv.3-15, vincendo l’abituale, prudente modestia, cerca a sua volta spazio nella biblioteca: “- Mi piacerebbe tanto che i miei versi/trovassero del posto in biblioteca,/forse sarà un sogno o una pazzia/ma scrivere si può, non porta male:/- Ricordati del giorno in cui vivemmo/il piacere di essere vicini. Se la vita/ci toglierà quel bene,/quel sacrosanto bene che vivemmo/che resti in noi il ricordo, pur sottile,/di un amore vissuto sulle rive/di un fiume che scorrendo verso il mare/si porta via una storia, una canzone,/e forse i versi di una poesia” (corsivi miei).

La sua richiesta curiosamente incontra il diniego indispettito di Montale (“Imbarbarito si levò Montale:/-Chi mai avrà osato di inserire/un tale scarabocchio di poesia/nello scaffale accanto agli Ossi miei/che tanto tempo chiesero a me autore/per tradurli in libro”, XXVII, vv.1-6) e viceversa la comprensione intenerita di Saba (“Mi si accostò la sagoma/di Saba:/ - Povero te, hai voglia di restare./La tua canzone non è del tutto male/ne ho lette anche di peggio. Resta pure”, XXVIII, vv.7-10) ; nondimeno, al netto di un livello stilistico contrassegnato dal divertissement gustosamente ironico, questo luogo pone il problema di una ponderata collocazione storico-culturale della ricerca intellettuale e formale del moderno poeta toscano e del suo “realismo lirico” indubbiamente lontano, per la schiettezza creativa, la sincerità sentimentale e il nitore rappresentativo, dagli sperimentalismi e dalle provocazioni studiate e contorte delle avanguardie. Sono al proposito pienamente d’accordo con Marco Zelioli, che nell’accurata e convincente prefazione afferma che il nostro autore “mostra in tutto l’arco della sua produzione poetica di non cedere alle mode” e ravvisa in un classicismo “opportunamente attualizzato” la caratteristica principale della sua opera, in significativa consonanza con quanto asserito dallo stesso in un’intervista rilasciata nel maggio 2012: “Il mio è uno stile classicheggiante rivisitato, con l’uso di endecasillabi spesso spezzati da misure più brevi per dare risalto alla musicalità di certi versi finalizzati a mettere in luce momenti focali”.

Del suo rinnovato classicismo è d’altronde componente rilevante un amore autentico della luce e della vita: “Se la primavera non profumasse/di donna, e il tutto avesse la voce/dell’inverno, del triste e nuvoloso/inverno, non esisteresti tu/con la tua aria estiva, luminosa,/a dare ragione al creatore/che ti ha voluto in questa/irripetibile, unica, stagione” ( Se non esistesse, vv.8-15).

                                                                                                    Floriano  Romboli

 

 

                                                            .     .     .     .     .     .     .     .     .

1 commento:

  1. Mi trovo a leggere una seria, puntuale, affettuosa e personale lettura di questa nuova opera di Nazario Pardini, riconosciuto e amato poeta non solo da tutti noi che gli siamo amici per i suoi tanti altri meriti, ma da seri intenditori d'oltre paese che lo hanno voluto tradurre nella propria lingua.
    Il prof Romboli-valente critico -che ho recentemente conosciuto anche come persona di spirito e di piacevole compagnia- ha "visitato" la biblioteca del Poeta e, passo passo lo ha incontrato miracolosamente idealmente, proprio come se si trovasse in una delle Cantiche dantesche.
    Il poeta Nazario Pardini viene incontro al lettore non solo nella sua culturale valenza, che tanto spontaneamente si fa poesia, ma anche in quel simpaticissimo spirito toscano che conquista per la schiettezza e briosità , talora anche come battuta.
    E' davvero un grande piacere leggere questa pagina di un critico che ama tanto il suo lavoro e ce lo fa amare...
    Viene forte il desiderio di andare a "visitare", anche noi, la stupenda biblioteca e il suo straordinario bibliotecario.
    Grazie infinite.
    Edda Conte.

    RispondiElimina