In ricordo di Vittorio Vettori in occasione del Premio Tanzi 2005
Nazario
Pardini componente di commissione
.A goccia
a goccia per le vie del
dolore,
l’uomo diventa saggio
attraverso
la terribile grazia di
Dio. Eschilo
Si è spento Vittorio Vettori il
dieci febbraio scorso, 2004 . Questo il mio telegramma: Le condoglianze più sentite per un amico che lascerà un vuoto
incolmabile. La prima volta che lo incontrai fu ad un Premio Letterario in cui ero
membro di giuria: al Santa Maria in Castello, città di Vecchiano. Vinse con una
poesia inedita. Era l’anno 1994.
Mi disse: “Ma che professore! Dammi del tu, poeta!”
Aveva questa facilità, da buon toscano, nel rapportarsi con gli altri. E la
parola. Sì, proprio la parola era il suo forte. Scelta, filtrata, accalorata,
immediata e gettata d’impeto sulla platea come può fare un grande attore nel
pieno della sua forza recitativa e interpretativa. Amava scrivere Vittorio. Su
tutto e con tutti i mezzi. Grande dantista, fine ed attento critico, eccellente
poeta, filologo nel trattare il verbo. Per lui la poesia doveva scorrere nelle
vene con fluidità come caldo scorre il sangue fino al cuore. Non accettava in
certi poeti il dire prosastico, il versificare in prosa. “La poesia è poesia e
basta! e non chiedere altro. La si deve sentire, non ha bisogna di essere
spiegata”. La ricchezza del lessico, permeata da un flusso d’immensità
cristiana, rendeva il suo stile pregno di valori umani e sovrumani. Ciò senza
togliere niente al carattere esistenziale di un dubbio che dilata l’anima al
senso dell’essere e dell’esistere. Dice Giorgio Luti di lui: “...la tensione
verso lo spazio metafisico non è la sola chiave di lettura di questi versi che
per molti aspetti chiedono una diretta implicazione nella concretezza dei
giorni, o quantomeno l’accettazione di una continua dialettica tra “cielo” e
“terra”, tra il “paradiso” della speranza e l’ “inferno” della contingenza. Tra
questi due termini estremi si snoda, con una misura di controllata classicità e
con una sperimentata sapienza ritmica, il discorso poetico di Vettori secondo
un disegno organico che affida alla presenza del mito classico un ruolo
determinante”. E Luti si riferisce soprattutto ai testi del libro dal titolo
Ultrasera di cui riporto alcuni versi. “Unito con Dio e nell’essenza / munito
di Dio. Non più io / se in me da sempre c’è Dio / che dice il silenzio.
Presenza / dolcissima eppure tremenda / quando l’io che fui si discioglie / nel
vento del Nulla e alle foglie / cadute assomiglia”. (Allunghi sua ombra la
sera). “La tua immagine vera m’era accanto / l’altro giorno alla Verna quando a
un tratto / il grande Paul Claudel che tu m’hai fatto / comprendere più e
meglio di quel tanto / che si può col cervello e non col cuore, / mi si fece
presente dal profondo / di un assiduo pensare accline al mondo, / simile a
lampo acceso nel buiore, / mentre mi domandavo quale Musa / salverà l’uomo
dalla sua rovina. / “Quale Musa?”, mi disse, “E tu indovina, / ripensando a
quel luogo di una chiusa / mia canzone ove dico esattamente / “La Muse qui est la Grâce”: quella sola / che scende fra di noi e poi
rivola / nella beata luce trascendente...”. (L’altro giorno alla Verna). “Mi
dici che ti dolgono le ossa. / Dunque il bel corpo germogliato vivo / dal seme
mio gettato nella dolce / terra carnale dell’amata sposa / si regge su
quest’ossa che ti dolgono. / ... / Eppure prego / quell’altro Padre che ad
entrambi è padre / di soccorrerti sempre, figlia: e prego / l’angelo che ti
veglia di scortarti / col suo lume segreto fino al giorno / della seconda
nascita futura.” (Momento paterno). Poesia robusta, di
struttura classicheggiante, metri che denotano una spontaneità, frutto di una
grande impalcatura culturale; era quello che Vettori amava, quello a cui si
sentiva più vicino: l’impiego di un endecasillabo rivisitato, lavorato in
corrispondenze e punti fermi a metà del verso, creando finezze metriche quali i
ripetuti enjenbements per frangere l’ordine versificatorio; e non scendo nel
particolare delle figure, su cui troppo sarebbe da dire. Sapeva schiodare dalle
piccole e dalle grandi questioni la stessa cifra poetica, riflesso di una
grande penna. Per anni ho lavorato con lui e Luti nel Premio Tanzi di S. Mauro
a Signa discutendo sul valore di certi scritti: per ore ci siamo confrontati su
quelli che sono gli schemi e i contenuti della poesia. Per lui era sempre
chiaro il discorso: poesia concreta, fatta di impegno forte e sorretta da uno
spessore stilistico meditato e calcolato pur nella sua spontaneità. Da lui ho
imparato a penetrare nei reconditi del linguaggio, e soprattutto ho derivato
quella grande carica di umanità senza cui scrivere si fa sostanzialmente
routine formale. Forse Vittorio si sarebbe meritato qualcosa di più. Non so da
cosa sia dipeso, il fatto sta che la grande portata e del personaggio e della
quantità e qualità dei suoi scritti (oltre centoventi le pubblicazioni) lo
avrebbero dovuto collocare su un piedistallo ben più elevato nel panorama letterario nazionale. Quello a
cui lui forse nemmeno ambiva. Fra i vari scritti, sue sono le prefazioni a due
miei testi: Alla volta di Leucade e Si aggirava nei boschi una fanciulla.
Quando decisi di presentargli le bozze della mia Leucade l’andai a trovare nel suo studio di via Delle Ruote 31 a Firenze. Uno studio zeppo
di libri, di fogli che traboccavano da ogni parte. Nemmeno ci si girava. Mi
fece sedere, si parlò del più e del meno e mi disse: “Intanto diamo un’occhiata
veloce”. Sbirciò le pagine in qua e in là, leggicchiò e “Mi piace la forma
compatta, misurata, frutto di studio e di pensamento. Ma soprattutto
l’attualizzazione di certi argomenti, quali la poesia di poeti arcaici e il
mito, quasi una sfida a certa poesia contemporanea”. Io credo che una parte di
questa prefazione, in cui parla di sè, della figlia Cristina e soprattutto di
un certo pensiero sul rapporto tra pisanità e impero (idea ripresa dal testo di
Rudolf Borchardt Solitudine di un Impero,
qui citato) contribuisca ad arricchire la conoscenza del personaggio. “ ...Su
Pisa, sulla sua multipla poesia e verità di Pisae
Pisarum esistono innumerevoli referenze e testimonianze non solo classiche
e antiche ma anche moderne e contemporanee. Ma nessuna, credo, né tra le prime
né tra le seconde, ha quel valore ultimativo e supremo di “giorno del giudizio”
che dobbiam riconoscere al grande libro pisano di Rudolf Borchardt Solitudine di un Impero. Borchardt è
stato uno scrittore novecentesco europeo di lingua germanica, goethianamente legato
al suo popolo e nello stesso tempo innamorato non meno di Goethe dell’Italia,
da lui considerata e rivisitata soprattutto nello specchio imperiale di Pisa,
dove le suggestioni drammatiche della scultura di Giovanni Pisano trovano eco e
riscontro nella “mirabile visione” di Dante. Si aggiunga il
peculiare talento narrativo dello scrittore tedesco, autore tra l’altro di uno
straordinario romanzo uscito in anni recenti anche in Italia presso le Edizioni
Adelphi e intitolato L’ospite indegno:
e si potrà meglio capire come e perché Solitudine
di un Impero abbia l’andamento romanzesco di un archetipo labirinto, con
tanto di filo d’Arianna internamente innestato nell’aria di una dimensione
enigmatica, equivalente praticamente alla reversibilità del bellissimo titolo
che potrebbe pertanto essere pronunciato e risolto come “Impero di una
solitudine”. Solitudine di un Impero e impero di una solitudine: tale è la
realtà bipolare in cui, ho trascorso quasi trent’anni della mia vita
(esattamente ventotto, dal 1949 al 1977), abitando prima in Lungarno Mediceo e
poi in via Consoli del Mare non lontano da Piazza dei Cavalieri, dove adesso
abitano mia figlia Cristina e i miei nipoti Sergio e Lucio impegnati, non
diversamente dalla loro mamma e dal loro babbo Massimo Bontempelli, sul duplice
fronte del pensiero e della scrittura. ...l’afflato rurale della poesia del
Pardini travalica ogni limite di provincia, ricollegandosi in qualche modo, nel
segno catartico di quella solitudine che ha in sé la forza catartica della
comunione, all’ideologia metafisica dell’Impero. Che, se vogliamo usare il
termine “ideologia” nel senso più nobile e puro della parola, è propriamente
ideologia pisana per eccellenza, in quanto fa coincidere la perfezione del
Cerchio, inteso come curvatura assoluta (oh, la curvatura dolcissima dei
Lungarni) nella cui gratificante armonia tutte le differenze si conciliano e si
compensano, con la necessità normativa del Centro, rappresentato in Pisa sia
dalle spoglie di Arrigo VII custodite in Duomo, che dell’incredibile
equidistanza della città tra le altre civiche realtà e tradizioni di Lucca,
Livorno e Viareggio, sia dal primato educativo della Normale che dalla
primogenitura euro-romantica incarnata “a ripa d’Arno” da Byron e da Leopardi
non meno che da Shelley nel suo prossimo rogo tirrenico...”. L’ultimo
scritto su una mia silloge non ce l’ha fatta a finirlo Vittorio. Doveva essere
una prefazione all’inedito dal titolo Dal
lago al fiume. Forse pensare che
abbia portato in cielo una parte di me, contribuisce senz’altro a rafforzare
quel legame che in terra, anche se forte, non riesci mai a percepire
completamente.
* Citazione riportata da Vettori come introduzione a una sua poesia dal
titolo Momento postumo dalla silloge Ultrasera.
Nazario
Pardini
Settembre 2005
Un ritratto di mio padre denso e fedele al suo spirito di amante delle Poesia e delle Lettere, di lettore e scrittore infaticabile e onnivoro.
RispondiEliminaRingrazio Nazario Pardini di questa bella e affettuosa pagina in ricordo di un Letterato, Umanista, Dantista, Poeta, Scrittore, di cui, come Pardini giustamente nota, non è stato riconosciuto appieno il valore, forse perchè era sempre un po' controcorrente e non perseguiva tanto il successo quanto piuttosto la profonda dedizione all'arte dello scrivere.
Ancora grazie a Nazario Pardini, con l'augurio di poterlo salutare presto di persona! Cristiana Vettori