giovedì 13 febbraio 2025

"BORGES E L’ALEPH: TUTTO IN UN PUNTO" di Angela Ambrosini

 

L’uomo contempli dunque la natura intiera nella sua alta e piena maestà; allontani il suo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Guardi quella luce sfolgorante disposta come una lampada eterna per rischiarare l’universo; la terra gli appaia come un punto a confronto del vasto giro che questo astro descrive (…). Tutto questo mondo visibile non è che un punto impercettibile dentro l’ampio seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina. (…) . È una sfera infinita in cui il centro è dovunque, la circonferenza in nessun luogo. Infine, il più grande segno sensibile della onnipotenza divina è il fatto che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero.” (Blaise Pascal, Pensieri, Cap. II)

Dai suoi Pensieri, Pascal ci consegna la visione di un “punto” origine del mondo, racchiuso in una sfera che si sottrae a qualsiasi regola geometrica e fisica, un punto contemplato attraverso lo sfolgorio di una luce inesauribile e il modo in cui si invera la realtà è per l’uomo motivo di stordimento nonché manifestazione tangibile dell’onnipotenza divina.  Non è tuttavia nostra intenzione addentrarci nel denso apparato filosofico del pensatore francese, quanto piuttosto stabilire una serie di sottili legami con altre personalità ed eruditi di epoche tra loro lontane e pervenuti a un’analoga concezione sulla realtà che ci circonda. La “visione” pascaliana ha una sua correlazione nel celebre racconto L’Aleph di Jorge Luis Borges, correlazione dichiarata sottotraccia e con studiata casualità dal grande scrittore argentino attraverso uno dei suoi cavillosi procedimenti narrativi che sottopongono il lettore a una specie di sciarada letteraria. Prima di arrivare “all’ineffabile centro” del racconto, e dopo aver divagato in modo quasi snervante attraverso una serie di circostanze esterne al suo nerbo filosofico (deliberate piste fasulle per il lettore), lo scrittore si lascia convincere dall’altro personaggio coinvolto in quest’esperienza, un poeta di mediocre qualità, a scendere nella cantina di casa per contemplare l’Aleph, “il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”, “il microcosmo di alchimisti e cabalisti”, “il multum in parvo”. Viene fornita anche una definizione del nome dell’Aleph, “la prima lettera dell’alfabeto della lingua sacra”, essendo la prima lettera non solo in ebraico, ma anche nelle altre lingue semitiche, aggiungendo che “per la Cabala rappresenta l’En Soph, l’illimitata e pura divinità; fu anche detto che essa ha la figura d’un uomo che indica il cielo e la terra, per significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del superiore”. Il motivo dello specchio (una delle ossessioni borgesiane assimilabile ai ricorrenti temi del doppio e del labirinto) è additato velocemente anche nello “specchio che Luciano di Samosata poté vedere nella luna (Storia vera, I, 26)” e in quello menzionato in un manoscritto orientale dove si rifletteva l’universo intero e via elencando. La visione che Borges ha dell’Aleph si struttura in due macrosequenze, la prima di ordine espositivo-argomentativo, suffragata da vari argomenti d’autorità, tra cui la citazione da lui attribuita ad Alanus de Insulis (il teologo francese del XII secolo Alain de l’Isle, menzionato anche da Umberto Eco in Il nome della rosa) in merito alla “sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo”, attribuendogli in realtà le stesse parole di Pascal e affiancandovi altre esperienze e dichiarazioni di mistici ed eruditi, alcune frutto del capriccio della sua immaginazione, altre vere, attinte dalla smisurata cultura umanistica del Nostro che, non dimentichiamo, fu bibliotecario della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires (e al quale Umberto Eco strizza l’occhio chiamando Jorge da Burgos il bibliotecario dell’abbazia benedettina del suo fortunatissimo romanzo). Ormai preda della “disperazione di scrittore”, Borges dichiara le limitate capacità del linguaggio per poter esprimere una tale esperienza di cosmovisione sovrasensoriale: “come trasmettere agli altri l’infinito Aleph che la mia memoria timorosa a stento abbraccia?” E nella seconda macrosequenza, di carattere puramente descrittivo, si sforza di rendere conto di questa prodigiosa visione simile a “una sfera di luce cangiante di quasi intollerabile fulgore” nella quale “milioni di atti gradevoli o atroci” occupavano “lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza”, poiché quanto da lui visto era “simultaneo”, a differenza della sua trascrizione narrativa, “successiva, perché tale è il linguaggio”. Dà così avvio alla “enumerazione, sia pure parziale, di un insieme infinito”, “di ogni cosa che era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo”. E ancora: “vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto e provai vertigine e piansi, perché i mie occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha mai contemplato: l’inconcepibile universo”. La simultaneità e la diacronicità, l’identità di spazio e tempo, di ordine e caos, portano all’eliminazione di tutte le antitesi. La vertigine concentrica di tempo e spazio, di cose e avvenimenti ripetuti all’infinito, racchiude allegoricamente il leitmotiv dello specchio, a sua volta connesso nel Medioevo al termine “Enciclopedia”, sovente definita speculum (specchio del sapere) o orbis. L’Universo (“uno” e “diverso”) è in grado di accogliere finito-infinito, particolare-universale, reale-immaginario, atomo-universo, macrocosmo-microcosmo, sfociando nell’ossimorico abbinamento di dati linguistici e concettuali, segno distintivo dell’intera produzione borgesiana. La stessa stridente, quasi risibile opposizione tra il luogo anonimo e sgradevole in cui si avvera la visione totalizzante (la cantina di un sottoscala di un appartamento di una via di Buenos Aires, una specie di scatola cinese ambientale) e la natura ineffabile e sovrannaturale della visione stessa, è un dato ossimorico di non poco conto, introdotto dalle citazioni in epigrafe al racconto a mo’ di sottili indizi preliminari per il lettore. Così, una battuta dell’Amleto di Shakespeare (“Si può essere confinati nel guscio di una noce e sentirsi allo stesso tempo re dello spazio infinito”) e una frase dal Leviatano di Hobbes (“l’eternità è un momento del presente”) si prefiggono lo scopo di imbastire una stretta identità tra gli elementi antinomici della narrazione che l’autore si accinge a dipanare.

Nella scrittura di Borges nulla avviene per caso, neanche lo sconcerto che sperimentiamo di fronte al dubbio finale dell’autore di aver visto un falso Aleph (dubbio riconducibile a un altro tipico, maniacale leitmotiv dello scrittore argentino riguardo alla molteplicità delle versioni di un testo o di un manoscritto), come pure di fronte alla dichiarazione di aver dimenticato quell’esperienza, proprio perché intollerabile per la mente limitata dell’uomo. “La nostra mente è porosa per l’oblio (…) sotto la tragica erosione degli anni”. Affiora in questa affermazione un altro caposaldo ricorrente in Borges, e cioè il postulato platoniano della conoscenza come reminiscenza, manifestazione di un ricordo perduto e, pertanto, la considerazione che ogni novità non è altro che una forma di oblio.

Il senso di vertigine dà ritmo al breve racconto fino all’ultima parola, disvelando la cifra enigmatica di quel “mondo fantastico governato dalla logica”, come puntualizza Francesco Tentori Montalto, a cui si deve la traduzione del testo di cui abbiamo riportato alcuni frammenti. Molti, dicevamo, sono gli eruditi e i filosofi ai quali, a sostegno delle sue teorie o delle sue elucubrazioni mentali, si appella Borges, non a caso definito dalla critica “scrittore di scrittori”. Di Luciano di Samosata, come abbiamo visto, Borges fornisce solo un breve indizio con esatti riferimenti bibliografici e se compulsiamo il testo da lui segnalato, la Storia Vera (secondo alcuni studiosi una specie di narrazione antesignana del moderno romanzo di fantascienza) ricostruiamo un mondo di storici ed eruditi argutamente irriso dal filosofo greco: “Un’altra meraviglia notai nella reggia: un grande specchio sopra un pozzo non molto profondo. Se uno scende nel pozzo ode ogni cosa che si dice sulla terra, qui, da noi; se invece guarda nello specchio può vedere tutte le città e tutti i popoli come se vi fosse sopra. Ebbene, io vidi i miei familiari e tutta la mia patria, ma non posso ancora dire con certezza se mi videro anche loro.”

Un’affine giocosa ironia serpeggia nel racconto Tutto in un punto di Italo Calvino, tratto dalle sue Cosmicomiche, pubblicate nel 1965, sedici anni dopo L’Aleph e nel quale lo scrittore italiano si abbandona a un’elucubrazione fantastica incentrata sulle origini e l’organizzazione dell’universo ridotto a un unico primordiale punto, senza spazio e senza tempo, prima della comparsa dell’uomo eppure già permeato da strane, buffe entità dai tratti e dal comportamento umani:

“Attraverso i calcoli iniziati da Edwin P. Hubble sulla velocità d’allontanamento delle galassie, si può stabilire il momento in cui tutta la materia dell’universo era concentrata in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio (…) Si capisce che si stava tutti lì (…) e dove altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe? Ho detto ‘pigiati come acciughe’ tanto per usare un’immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto intorno a noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti”.  

Siamo ben lontani dalla visione filosofica di Pascal dalla quale abbiamo preso abbrivio, ma attraverso un richiamo di segni e simboli analoghi vogliamo ora sconfinare in una dirompente speculazione mistica (estranea agli autori citati) nella quale l’apparizione del mondo si dilati in una dimensione estatica a partire da un raggio di sole. La luce sfolgorante di Pascal, la sfera incandescente di Borges trovano un corrispettivo, sia pure in un’altra lunghezza d’onda, nelle folgorazioni di mistici e santi. Joseph Ratzinger, nel testo Fede tra ragione e sentimento (1998) riporta i dialoghi di Papa Gregorio Magno sugli ultimi giorni di San Benedetto e in particolare sulla visione del Santo, in una notte scura, “di tutto quanto il mondo presentato davanti agli occhi come in un unico raggio di sole”. Al suo interlocutore, incredulo su “come potrebbe mai un uomo vedere il mondo come un tutto”, Papa Gregorio risponde lapidario nella sua semplicità: “se egli vide tutto quanto il mondo come unità davanti a sé, ciò non avvenne perché il cielo e la terra si erano ristretti, ma perché l’anima di colui che li guardava si era dilatata”. San Benedetto, spiega Joseph Ratzinger (il futuro Papa Benedetto XVI) “diventa un veggente (…) perché egli non è più assorbito dal singolo oggetto, dagli alberi che gli impediscono di vedere la foresta, ma ha acquisito lo sguardo verso la totalità”, secondo “l’antica tradizione dell’uomo come microcosmo, che abbraccia il mondo intero”.

In chiave non religiosa, non esoterica, ma speculativo-letteraria, era questo il sogno bruciante di Borges.

 

Angela Ambrosini

(In Bollettino N. 211 del “Centro Lunigianese Studi Danteschi”)

 

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