“L’uomo contempli dunque la natura intiera nella sua alta e piena maestà;
allontani il suo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Guardi
quella luce sfolgorante disposta come una lampada eterna per rischiarare
l’universo; la terra gli appaia come un punto a confronto del vasto giro che
questo astro descrive (…). Tutto questo mondo visibile non è che un punto
impercettibile dentro l’ampio seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina.
(…) . È una sfera infinita in cui il centro è dovunque, la circonferenza in
nessun luogo. Infine, il più grande segno sensibile della onnipotenza divina è
il fatto che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero.” (Blaise
Pascal, Pensieri, Cap. II)
Dai suoi Pensieri,
Pascal ci consegna la visione di un “punto” origine del mondo, racchiuso in una
sfera che si sottrae a qualsiasi regola geometrica e fisica, un punto
contemplato attraverso lo sfolgorio di una luce inesauribile e il modo in cui
si invera la realtà è per l’uomo motivo di stordimento nonché manifestazione
tangibile dell’onnipotenza divina. Non è
tuttavia nostra intenzione addentrarci nel denso apparato filosofico del
pensatore francese, quanto piuttosto stabilire una serie di sottili legami con
altre personalità ed eruditi di epoche tra loro lontane e pervenuti a
un’analoga concezione sulla realtà che ci circonda. La “visione” pascaliana ha
una sua correlazione nel celebre racconto L’Aleph di Jorge Luis Borges,
correlazione dichiarata sottotraccia e con studiata casualità dal grande
scrittore argentino attraverso uno dei suoi cavillosi procedimenti narrativi
che sottopongono il lettore a una specie di sciarada letteraria. Prima di
arrivare “all’ineffabile centro” del racconto, e dopo aver divagato in modo
quasi snervante attraverso una serie di circostanze esterne al suo nerbo filosofico
(deliberate piste fasulle per il lettore), lo scrittore si lascia convincere
dall’altro personaggio coinvolto in quest’esperienza, un poeta di mediocre
qualità, a scendere nella cantina di casa per contemplare l’Aleph, “il
luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da
tutti gli angoli”, “il microcosmo di alchimisti e cabalisti”, “il multum in
parvo”. Viene fornita anche una definizione del nome dell’Aleph, “la prima
lettera dell’alfabeto della lingua sacra”, essendo la prima lettera non solo in
ebraico, ma anche nelle altre lingue semitiche, aggiungendo che “per la Cabala
rappresenta l’En Soph, l’illimitata e pura divinità; fu anche detto che
essa ha la figura d’un uomo che indica il cielo e la terra, per significare che
il mondo inferiore è specchio e mappa del superiore”. Il motivo dello specchio
(una delle ossessioni borgesiane assimilabile ai ricorrenti temi del doppio e
del labirinto) è additato velocemente anche nello “specchio che Luciano di
Samosata poté vedere nella luna (Storia vera, I, 26)” e in quello
menzionato in un manoscritto orientale dove si rifletteva l’universo intero e
via elencando. La visione che Borges ha dell’Aleph si struttura in due
macrosequenze, la prima di ordine espositivo-argomentativo, suffragata da vari
argomenti d’autorità, tra cui la citazione da lui attribuita ad Alanus de
Insulis (il teologo francese del XII secolo Alain de l’Isle, menzionato anche
da Umberto Eco in Il nome della rosa) in merito alla “sfera il cui
centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo”, attribuendogli in
realtà le stesse parole di Pascal e affiancandovi altre esperienze e
dichiarazioni di mistici ed eruditi, alcune frutto del capriccio della sua
immaginazione, altre vere, attinte dalla smisurata cultura umanistica del
Nostro che, non dimentichiamo, fu bibliotecario della Biblioteca Nazionale di
Buenos Aires (e al quale Umberto Eco strizza l’occhio chiamando Jorge da Burgos
il bibliotecario dell’abbazia benedettina del suo fortunatissimo romanzo). Ormai
preda della “disperazione di scrittore”, Borges dichiara le limitate capacità
del linguaggio per poter esprimere una tale esperienza di cosmovisione sovrasensoriale:
“come trasmettere agli altri l’infinito Aleph che la mia memoria
timorosa a stento abbraccia?” E nella seconda macrosequenza, di carattere
puramente descrittivo, si sforza di rendere conto di questa prodigiosa visione
simile a “una sfera di luce cangiante di quasi intollerabile fulgore” nella
quale “milioni di atti gradevoli o atroci” occupavano “lo stesso punto, senza
sovrapposizione e senza trasparenza”, poiché quanto da lui visto era
“simultaneo”, a differenza della sua trascrizione narrativa, “successiva,
perché tale è il linguaggio”. Dà così avvio alla “enumerazione, sia pure
parziale, di un insieme infinito”, “di ogni cosa che era infinite cose, perché
io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo”. E ancora: “vidi la
circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la
modificazione della morte, vidi l’Aleph da tutti i punti, vidi nell’Aleph
la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto e provai
vertigine e piansi, perché i mie occhi avevano visto l’oggetto segreto e
supposto il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha mai contemplato:
l’inconcepibile universo”. La simultaneità e la diacronicità, l’identità di
spazio e tempo, di ordine e caos, portano all’eliminazione di tutte le antitesi.
La vertigine concentrica di tempo e spazio, di cose e avvenimenti ripetuti
all’infinito, racchiude allegoricamente il leitmotiv dello specchio, a
sua volta connesso nel Medioevo al termine “Enciclopedia”, sovente definita speculum
(specchio del sapere) o orbis. L’Universo (“uno” e “diverso”) è in grado
di accogliere finito-infinito, particolare-universale, reale-immaginario,
atomo-universo, macrocosmo-microcosmo, sfociando nell’ossimorico abbinamento di
dati linguistici e concettuali, segno distintivo dell’intera produzione borgesiana.
La stessa stridente, quasi risibile opposizione tra il luogo anonimo e
sgradevole in cui si avvera la visione totalizzante (la cantina di un
sottoscala di un appartamento di una via di Buenos Aires, una specie di scatola
cinese ambientale) e la natura ineffabile e sovrannaturale della visione
stessa, è un dato ossimorico di non poco conto, introdotto dalle citazioni in
epigrafe al racconto a mo’ di sottili indizi preliminari per il lettore. Così, una
battuta dell’Amleto di Shakespeare (“Si può essere confinati nel guscio
di una noce e sentirsi allo stesso tempo re dello spazio infinito”) e una frase
dal Leviatano di Hobbes (“l’eternità è un momento del presente”) si
prefiggono lo scopo di imbastire una stretta identità tra gli elementi
antinomici della narrazione che l’autore si accinge a dipanare.
Nella scrittura di
Borges nulla avviene per caso, neanche lo sconcerto che sperimentiamo di fronte
al dubbio finale dell’autore di aver visto un falso Aleph (dubbio riconducibile
a un altro tipico, maniacale leitmotiv dello scrittore argentino riguardo
alla molteplicità delle versioni di un testo o di un manoscritto), come pure di
fronte alla dichiarazione di aver dimenticato quell’esperienza, proprio perché
intollerabile per la mente limitata dell’uomo. “La nostra mente è porosa per
l’oblio (…) sotto la tragica erosione degli anni”. Affiora in questa
affermazione un altro caposaldo ricorrente in Borges, e cioè il postulato platoniano
della conoscenza come reminiscenza, manifestazione di un ricordo perduto e, pertanto,
la considerazione che ogni novità non è altro che una forma di oblio.
Il senso di vertigine
dà ritmo al breve racconto fino all’ultima parola, disvelando la cifra
enigmatica di quel “mondo fantastico governato dalla logica”, come puntualizza
Francesco Tentori Montalto, a cui si deve la traduzione del testo di cui
abbiamo riportato alcuni frammenti. Molti, dicevamo, sono gli eruditi e i
filosofi ai quali, a sostegno delle sue teorie o delle sue elucubrazioni
mentali, si appella Borges, non a caso definito dalla critica “scrittore di
scrittori”. Di Luciano di Samosata, come abbiamo visto, Borges fornisce solo un
breve indizio con esatti riferimenti bibliografici e se compulsiamo il testo da
lui segnalato, la Storia Vera (secondo alcuni studiosi una specie di
narrazione antesignana del moderno romanzo di fantascienza) ricostruiamo
un mondo di storici ed eruditi argutamente irriso dal filosofo greco: “Un’altra
meraviglia notai nella reggia: un grande specchio sopra un pozzo non molto
profondo. Se uno scende nel pozzo ode ogni cosa che si dice sulla terra, qui,
da noi; se invece guarda nello specchio può vedere tutte le città e tutti i
popoli come se vi fosse sopra. Ebbene, io vidi i miei familiari e tutta la mia
patria, ma non posso ancora dire con certezza se mi videro anche loro.”
Un’affine giocosa
ironia serpeggia nel racconto Tutto in un punto di Italo Calvino, tratto
dalle sue Cosmicomiche, pubblicate nel 1965, sedici anni dopo L’Aleph
e nel quale lo scrittore italiano si abbandona a un’elucubrazione fantastica
incentrata sulle origini e l’organizzazione dell’universo ridotto a un unico
primordiale punto, senza spazio e senza tempo, prima della comparsa dell’uomo
eppure già permeato da strane, buffe entità dai tratti e dal comportamento
umani:
“Attraverso i calcoli
iniziati da Edwin P. Hubble sulla velocità d’allontanamento delle galassie, si
può stabilire il momento in cui tutta la materia dell’universo era concentrata
in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio (…) Si capisce
che si stava tutti lì (…) e dove altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio,
nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo,
del tempo, stando lì pigiati come acciughe? Ho detto ‘pigiati come acciughe’
tanto per usare un’immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per
pigiarci. Ogni punto intorno a noi coincideva con ogni punto di ognuno degli
altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti”.
Siamo ben lontani
dalla visione filosofica di Pascal dalla quale abbiamo preso abbrivio, ma attraverso
un richiamo di segni e simboli analoghi vogliamo ora sconfinare in una dirompente
speculazione mistica (estranea agli autori citati) nella quale l’apparizione
del mondo si dilati in una dimensione estatica a partire da un raggio di sole.
La luce sfolgorante di Pascal, la sfera incandescente di Borges trovano un
corrispettivo, sia pure in un’altra lunghezza d’onda, nelle folgorazioni di
mistici e santi. Joseph Ratzinger, nel testo Fede tra ragione e sentimento
(1998) riporta i dialoghi di Papa Gregorio Magno sugli ultimi giorni di San
Benedetto e in particolare sulla visione del Santo, in una notte scura, “di
tutto quanto il mondo presentato davanti agli occhi come in un unico raggio di
sole”. Al suo interlocutore, incredulo su “come potrebbe mai un uomo vedere il
mondo come un tutto”, Papa Gregorio risponde lapidario nella sua semplicità: “se
egli vide tutto quanto il mondo come unità davanti a sé, ciò non avvenne perché
il cielo e la terra si erano ristretti, ma perché l’anima di colui che li
guardava si era dilatata”. San Benedetto, spiega Joseph Ratzinger (il futuro
Papa Benedetto XVI) “diventa un veggente (…) perché egli non è più assorbito
dal singolo oggetto, dagli alberi che gli impediscono di vedere la foresta, ma
ha acquisito lo sguardo verso la totalità”, secondo “l’antica tradizione
dell’uomo come microcosmo, che abbraccia il mondo intero”.
In chiave non
religiosa, non esoterica, ma speculativo-letteraria, era questo il sogno
bruciante di Borges.
Angela Ambrosini
(In Bollettino N. 211 del “Centro Lunigianese Studi
Danteschi”)
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