Symbolon-diabolos
ovvero la selva incantata
Scritto per una riv. ("Il piede e
l'orma")
Avviso ai viaggiatori – Chi si mette in viaggio
per queste lande, deve sapere in premessa che quello che ne dicono i manuali,
le cartine topografiche, alle agenzie, è certamente utile, ma che sta per
entrare in una selva incantata, molto simile a quella di cui parla l’Ariosto
nell’Orlando Furioso, continuamente
cangiante e abitata dalle più strane e sorprendenti fenomenologie. In pratica,
egli entra in selva viva, che dà e che prende, su sentieri incrociati, come
quelli di cui parla Calvino, ma anche “interrotti”, come quelli di cui parla
Heidegger. Perché, in sostanza, ci si avventura per un continente, che dal
tempo dei tempi è stato più o meno da tutti esplorato con meraviglia immensa e
talora anche con pignoleria per dettagli specifici, ma franti, che, però, se lo
si ripropone cartograficamente e secondo ascisse e coordinate cartesiane,
diventa altro, cioè argomento di proiezione dei desideri e delle pulsioni di
oggettivizzazione e di manipolazione dell’esistente da parte dell’uomo. Niente
e nessuno, finora, ha potuto ingabbiare in reticoli geometrizzabili e
matematizzabili questo sconfinato e sempre nuovo continente e in continua
ridefinizione dei suoi termini costitutivi, in quanto realtà latente, che
archeologicamente è abitato da linguaggi dimenticati e da happening e
performance pieni di stupore, da segni e segnali dell’albalità della vita. Si
tratta della materia, dei miti, dei linguaggi delle origini, che si pongono in
essere sia al di qua, sia al di là delle griglie dell’episteme scientifica e
delle sue pretese di dominio e di controllo. Insieme, si tratta di
un’insorgenza e una tensione di quanto è in magmatica ebollizione della vita
verso il riconoscimento di sé, delle sue appartenenze che consentono la formulazione
da dentro di rappresentazioni di sé entro i reticoli della complessa
relazionalità vitale.
Viaggiare, allora, in mezzo alle selve, per
intermittenze di luci e di ombre, alla ricerca delle ragioni e dei modi di
costituzione della coscienza attraverso l’appropriazione dell’interrelazionalità
del suo esser-ci e l’uso di rappresentazioni originarie delle contattazioni
delle cose, ovvero dell’oggettività, è una vicenda eccitante sul filo delle
rimemorazioni e dell’accettazione di sé come nodo con l’esistente e
dell’esistente e, insieme, come realtà parziale, che non può, non deve ambire
alla totalità e alle certezze assolute. Come provano anche “simbolon” e
“diabolos”, in quanto figure mediumniche fra il qui e il là, fra l’ora e
l’allora, fra l’accenno e la realtà di riferimento fra loro divisi da distanze
incolmabili. Sono nient’altro che incantevoli e insospettabili ponti sugli
oceani.
Alla
ricerca dei significati – Alla ricerca delle origini, è bene sostare un attimo
sulla formazione dei lemmi, cioè sulle etimologie, per avere un aiuto a capirci
meglio e di più. Sia “symbolon”, sia “diabolos” derivano dal greco classico e
da un comune ceppo, il verbo “βαλλω”, che significa “gettare”, “lanciare”. Il
primo lemma è composto dalla preposizione συν + βαλλω; il secondo lemma è
composto dalla preposizione διά + βαλλω.
Il
primo termine, “symbolon”, a mano a mano si implementa di molti significati.
All’inizio, voleva dire ognuna delle due parti di un oggetto fra loro
perfettamente combacianti, ma anche vaso ricomposto con cocci, che si erano fra
loro divisi per effetto di rottura del manufatto e poi erano stati rimessi
reciprocamente in armonia, riconquistando la figura e la funzionalità integra e
intera originaria. Dopo, però che questo grazioso e flessibile lemma pervenne
fra le mani creative di poeti, drammaturghi, filosofi, storiografi e altri
inventori di letteratura, esso si diramò in reticoli sempre più dilatati e
resistenti, intridendosi di sensi traslati e acquistando nelle pieghe
inflessioni e accenni ad ampio spettro. Significò in Euripide e altri “segno di
riconoscimento e d’identità”. Ad Atene era, nello specifico formalizzato e
istituzionalizzato, “tessera d’ingresso all’assemblea”, o anche “tessera
d’ingresso dei giudici in tribunale”, o “tessera per il compenso” (Platone,
Aristotele) e perfino “garanzia” (Isocrate, Aristotele, Platone). Il termine,
ancora, diffusamente significava, nei vari contesti linguistici, “segno”,
“segnale”, “sintomo”, “presagio”, “auspicio”, con grande esaltazione dell’adattabilità
e plasticità linguistica, ma sempre come nesso e potenziamento di relazione fra
le cose, gli eventi, le circostanze. Fu frequentemente adoperato con valore
semantico di “parola d’ordine” e “segnale convenuto” (Euripide, Plutarco), oltre
che di “formula” e “segno segreto” (Aristotele, Plutarco). E già, in tali
ambiti, si venne scollegando dai legami con la sfera della pragmaticità e della
quotidianità volgare. Finché prese il volo verso i cieli dell’idealità,
facendosi carico di significare “simbolo”, “credo religioso”, “professione di
fede” (Aristotele, i Pitagorici, Plutarco), ma anche “allegoria”,
“prefigurazione”, “rito”. In ambito giuridico e politico, fu sinonimo di
“trattato” e di “accordo internazionale” (Aristotele, Demostene), ma anche di
“quietanza”, “impegno scritto” e “ricevuta”. In ambito finanziario ed
economico, volle dire “monetina” o “spicciolo”. Contribuì a marcare il successo
di diffusione sul versante della comunicazione il fatto che fu anche toponimo,
circonfuso dall’aureola della lettera maiuscola, come ad Atene e in Tracia
(Plutarco). Un percorso del genere avrebbe meritato una consacrazione nella
poesia di Pindaro. Ma è pur vero che anche alla più splendida corona, manca
sempre una foglia.
Il
secondo termine, “diabolos”, non ha avuto a disposizione autostrade altrettanto
larghe per la sua divulgazione, ma ha segnato molti punti a suo favore nel
gioco per gli spazi vitali. Esso, sul piano semantico, si divarica di
centottanta gradi rispetto all’asse di “symbolon”, mettendo in circolo
ampiamente e autorevolmente un semantema carico e sovreccitato di sovversione
della positività del termine inconciliabilmente antitetico. “Diabolè”, ad
esempio, che è quasi un suo doppione e gli fa da aura, vuol dire “accusa”,
tanto come “imputazione” con presunzione di innocenza, tanto come “falsa
accusa” o “calunnia” (Tucidide, Plutarco). Ma pianta dei saldi paletti a terra,
che non comunicano se non perentorietà semantica sul registro della negatività,
in quanto gettone d’uso conclamato nel significato di “inconciliabilità”,
“inimicizia”, “ostilità”, “repulsione”. Così, “diabolos” può entrare in scena
come personaggio concreto e individuo inconfondibile, che si fa carico di
assumere su di sé, orgogliosamente e originalmente, il compito di essere uno
specialista del male. Egli è il “calunniatore”, “la mala lingua vivente”, “il
detrattore”, “il nemico” per antonomasia. E in quanto nemico per eccellenza, nella
letteratura e nella cultura religiosa, egli diventa il diavolo, colui che getta
ostacoli, mette lo sgambetto, intralcia il cammino degli uomini e li fa cadere
col muso per terra, possibilmente per una dannazione eterna.
Così,
mentre il primo termine esalta al massimo il legame che tiene uniti
positivamente e costruttivamente aspetti fra loro lontani e altrimenti non
relazionabili reciprocamente, il secondo termine accende il faro
dell’attenzione unicamente sul disfare, sul cercare e colpire la vittima,
sull’inventare ostacoli. L’uno e l’altro hanno il medesimo etimo da “ballein”,
l’uno e l’altro esprimono proiezione sull’esistente per cambiarlo, ma il
vettore dell’uno è diametralmente opposto a quello dell’altro. Intanto, in
quanto vettori del tutto divaricati fra loro, si pongono in essere come forze
che simultaneamente si attraggono e si respingono, come polarità, che, per
spiegare integralmente sé stesse, postulano un rinvio costante alla polarità
opposta. Esistono, ognuno per sé, ma col soccorso dell’antitesi totale. C’è,
quindi, fra loro, un oggettivo, fondante legame, che involontariamente forma un
terribile ossimoro, centrale, però, per la vita spirituale dell’umanità.
E
pensare che tutta questa drammaticità della vita e della storia è affidata a due
preposizioni fra loro destinate a farsi una guerra eterna senza scampo.
I
primordi - Il simbolo esisteva già
molto prima della comparsa dell’uomo. Che altro è la natura, se non il teatro
per eccellenza dove un attante essenziale è il simbolo? Che altro è il tuono,
se non un segno, un annunzio, un richiamo a un temporale, che sta lì lì per
scatenarsi? Che altro è un fiato di zefiro, se non un accenno, un segnale di
una condizione atmosferica propizia all’arrivo della primavera e, comunque, a
quello che Petrarca chiama “il dolce tempo”? Che cos’è un albero, se non il
simbolo della rigenerazione della vita nel cosmo e della comparsa sulla terra
di nuove esistenze? In India, le icone del cosmo nascono tutte da un fiore di
loto. L’essere umano ha trovato sempre in un albero e perfino nell’erba
omologie e similitudini con la sua stessa esistenza. Per gli antichi celti,
l’albero della quercia era sacro. Non senza ragione, se nel mondo classico
greco-latino questo medesimo albero era consacrato a Giove, la massima divinità
del cielo. Che cos’è una pietra, se non un nodo di simboli? Essa, infatti,
nell’immaginario umano ha generato un’infinità di suggestioni. Sullo scenario
fantastico ed emotivo, ha evocato innanzitutto il senso della solidità e della
durata nel tempo, ma anche della forza e dell’unità. Nella Bibbia (Genesi) si celebra una pietra eretta a
pilastro come “casa di Dio”. In Ovidio (Metamorfosi),
si narra del diluvio universale, a cui sopravvisse una coppia umana, che,
spaventata della solitudine universale, chiese soccorso agli dei per ripopolare
il mondo, ricevendo la grazia di poter suscitare in vita persone a volontà,
semplicemente col gettarsi pietre alle spalle, senza mai voltarsi indietro.
Ogni pietra gettata alle loro spalle aveva effetti meravigliosi, in quanto
produceva una nuova persona, al femminile, se la pietra era gettata da Pirra,
come si chiamava la donna, al maschile, se la pietra era gettata da Deucalione,
come si chiamava l’uomo.
All’inizio,
non c’era memoria, non c’era distinzione fra le cose, non c’era senso di
relazionalità dell’individuo col mondo. Questo e altro venne conquistato non
dalla sera alla mattina e non gratuitamente, perché richiese un costo altissimo
di tentativi inutili, di errori, di inquietudini, di dubbi. Da cui progressivamente,
ma non unidirezionalmente ci si affacciò su scenari più coerenti e affidabili,
ovviamente a misura d’uomo, con i limiti e le potenzialità sue proprie. In
questo faticoso, ma esaltante itinerario, spesso per sentieri interrotti, che
obbligavano a tornare all’indietro, per ricominciare daccapo, essenziali, senza
che se ne prendesse subito consapevolezza, ma su dettato di istintive
proiezioni in avanti, furono i contributi dei segni e dei segnali registrati e
interrogati, delle analogie e delle differenze, delle allegorie e dei simboli.
Per
l’uomo dei primordi e per la sua fantasia, tutto era simbolo. Come ci spiega
con grande efficacia Giambattista Vico (La
scienza nuova seconda, l. II). Il quale, tra l’altro, nella rivisitazione
del magmatico, ma vigoroso immaginario dell’uomo degli inizi, dissemina il
discorso di luminosi spunti sul ricorso al simbolo, come i seguenti:
“[…]
con la divinazione fondarono le religioni […] E dovevano incominciarla dalla
metafisica, siccome quella che va a prendere le sue pruove non già da fuori ma
da dentro le modificazioni della propia mente di chi la medita […] Adunque la
sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette
incominciare da una metafisica non ragionata ed astratta qual è questa, ma
sentita ed immaginata […] Questa fu la loro propia poesia, la qual in essi fu
una facultà loro connaturale […], nata
da ignoranza di cagioni, la quale fu loro madre di meraviglia di tutte le cose,
che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano […] In cotal
guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente genere
umano, […] dalla loro idea criavan essi le cose […] essi, per la loro robusta
ignoranza il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’era
corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità, tale e tanta che
perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si creavano, onde furono
detti ‘poeti’, che lo stesso in greco suona che ‘criatori’. […] Il cielo
finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi […] alzarono gli
occhi ed avvertirono il cielo […] si finsero il cielo esser un gran corpo
animato, che per tale aspetto chiamarono Giove […] che col fischio de’ fulmini
e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa; e si incominciaro a
celebrare la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza e madre della
scienza, la qual partorisce, nell’aprire che fa della mente dell’uomo, la maraviglia
[…]”.
Entro
questo stato d’animo e di relazionalità col tutto, ribollente e debordante come
magma, si formò un immaginario fervido e sovreccitato e una conoscenza vaporosa
e albale, appoggiati a griglie linguistiche e semantiche rispecchianti lo stato
di transito verso rappresentazioni sempre più probabili e dettagliate. Uno degli
strumenti più produttivi ed efficaci risultò, nell’universale delle comunità
umane, il ricorso al simbolo, sia per avvicinare a sé il lontano e il diverso,
sia per avvicinarsi al lontano e insieme ritrovare sé nell’altro e l’altro in
sé. In fondo, si attivavano e si esaltavano per tale via le proiezioni
dell’umano verso l’alterità, per realizzare un vero e rassicurante transfert ai
fini di un’intensificazione di vita, portandosi altrove e portando nella
propria vita l’altrove conciliato e familiarizzato. Forse era il tutto dettato
anche da quello che Gaston Bachelard (La
Psychanalyse du Feu)
chiama il desiderio di iscrivere il nostro amore nel cuore delle cose.
Ed
entro reti simboliche si cominciarono a diramare e a potenziare per nuclei
propri le prime formule di saperi specifici, come la religione, la magia,
l’astrologia, la cosmogonia, l’insieme di conoscenze del mondo animale, del
mondo vegetale, delle acque, dei terremoti. Saperi e conoscenze lontani e
diversi del tutto da quelli che oggi chiamiamo così con i medesimi termini.
Allora il nesso era rivolto verso dimensioni da esplorare e interrogare con
estrema cautela e perfino con timore e venerazione, ora il nesso è con la
funzionalità e la normatività verificabili e verificate.
Da
allora è scorsa tanta acqua sotto i ponti. Tuttavia, in controluce, anche negli
attuali settori e nei sottosettori, nei sistemi e nei sottosistemi più
sofisticati e avanzati, sono rintracciabili rinvii alla totalità come in quegli
esperimenti e in quelle scoperte degli inizi, allacciamenti di nessi tra
soggetti diversi e lontani, come attualmente testimonia l’ampio e consolidato
uso dei segni, delle allegorie, dei simboli adoperati a supporto di qualunque
sapere e di qualunque episteme, su cui si costituiscono i saperi, insieme con
le relative griglie epistemologiche specifiche.
Sotto
questo profilo, si aprono pianure sconfinate alle ricerche, per ricognizioni delle
ricorrenze e degli usi semantici di questi indicatori nelle discipline
umanistiche, nelle discipline scientifico-tecnologiche, nelle comunicazioni
(gergali) di settore. Il fine sarebbe la costituzione di un atlante universale
non solo degli indicatori, ma forse di modi di funzionamento delle nostre
strutture umane cognitive e relazionali, ai fini degli scandagli dei nostri procedimenti
dettati dall’“analitica trascendentale”, per usare un suggerimento di Immanuel
Kant.
Filosoficamente, sul filo della diacronia – A
volo d’uccello ricapitoliamo le soste fondamentali nel corso del tempo sul
simbolo da parte della filosofia (ammesso che oggi ce ne sia una sola, perché
essa si sta diramando in tante specializzazioni: la morale, l’economica, la
giuridica, l’estetica, etc., e in confluenze variegate con l’antropologia, la
sociologia, la psicoanalisi, l’etologia, la linguistica, la semiotica,
l’informatica, il cognitivismo, lo strutturalismo, lo scientismo, la narrativa,
la statistica. La propensione, d’altronde, a cercarsi compagni di viaggio abita
da sempre dentro di essa filosofia, fin dai primordi, quando si formarono i
suoi incunaboli, sotto la sponsorizzazione dell’animismo, delle grandi
narrazioni cosmogoniche, della magia, dell’astrologia, della cabala).
Naturalmente,
in rapporto all’economia della nota, non si potrà andare oltre un’essenziale
sinossi di tali stazioni.
Punto
di partenza è la filosofia, che viene acquistando il profilo di sapere
specifico e di linguaggio dialettico al tempo e per opera dei sofisti, maestri,
non a caso, anche di retorica e di politica. Si divertivano a marcare
schizzinosamente e aristocraticamente la diversità intellettuale rispetto alle
consuetudini precedenti e perfino a mettere in difficoltà i sapienti, come nel
caso di Protagora nei confronti di Socrate, secondo la testimonianza di Platone
(Protagora), ma erano di un’arguzia e
di una sottigliezza taglienti. Presso di loro, il simbolo fu trattato
retoricamente come gettone d’uso. Con Socrate e Platone, il simbolo si
implementa di contenuto semantico, e, insieme, funziona da snodo e passaggio
verso contenuti altri, di fondamento etico. Ma è con il neoplatonismo e con gli
indirizzi teologici di etimo e di derivazione neoplatonici, dalla scuola di
Alessandria fino a Sant’Agostino, che il simbolo si arricchisce di valenze
religiose e morali, come trampolino di lancio della mente e dell’anima nelle
sfere dell’infinito, per contattare al termine lo splendore e la verità divini.
Nel
mondo moderno, con anticipo nel Vico sopra citato, che scandaglia il simbolismo
delle mentalità dei primordi, presso i romantici e gli idealisti l’inquisizione
del simbolo acquista una profondità e un’ampiezza nuovi. Schlegel, ad esempio,
come farà più tardi Benjamin approfondendo il discorso (su suggerimenti
biblici), libera il simbolo delle maglie troppo strette di attrezzo retorico,
per disoccultarne l’ampio spettro di possibilità nella rappresentazione
dell’inconciliabile frattura fra storia e sublimità divina, fra contingenza ed
eternità. Hegel (Enciclopedia)
interviene nel dibattito se il simbolo sia più un segno che un’allegoria, per
precisare che il simbolo non è allegoria, ma poggia su un nucleo duro di
significato legato all’oggetto o alla figura di riferimento. Svolge, quindi,
una funzione di sollecitazione a partire dal dato concreto e positivo del
termine di riferimento nella sua conchiusa esistenza. E’ tuttavia con Cassirer
che il simbolo viene valorizzato come chiave di accesso fondamentale per
l’attività linguistica e gnoseologica e per la tensione dello spirito umano a
dar senso e unità al molteplice. Il filosofo dedica un’opera monumentale a
questo scandaglio, Philosophie der
symbolischen Formen, in tre volumi distribuiti in quattro tomi, di cui il
primo, dedicato al linguaggio, è una miniera di suggerimenti e di
illuminazioni. Di qua estrapoliamo a campione un brano molto significativo:
“Di
fronte all’infinita ricchezza e varietà della realtà intuibile tutti i simboli
linguistici dovranno apparire vuoti e di fronte alla sua determinatezza
individuale dovranno apparire astratti e vaghi. Nel momento in cui la lingua
tenta di gareggiare sotto questo aspetto con la sensazione o l’intuizione, la
sua impotenza dovrà dunque apparire innegabile. Ma il “proton pseudos” della
critica scettica del linguaggio sta precisamente nel fatto che questo criterio
di giudizio viene presupposto come l’unico valido e l’unico possibile. In
verità, però, l’analisi del linguaggio mostra – e in particolare se si parte
non dalla parola singola, ma dall’unità della proposizione – che ogni
espressione linguistica, lungi dall’essere una mera copia del mondo della
sensazione o dell’intuizione che ci è dato, racchiude invece in sé un carattere
determinato di ‘significazione’. E la stessa cosa accade nei simboli della
specie e origine più diverse. Di tutti questi si può dire in un certo senso che
il loro valore risiede non tanto in ciò che essi mantengono del singolo
contenuto concretamente sensibile, e dei suoi dati immediati, quanto in ciò che
di questi dati sopprimono e lasciano cadere. Anche il disegno artistico diviene
ciò che è, e per cui si distingue da una mera riproduzione meccanica, anzitutto
per ciò che esso tralascia dell’impressione ‘data’. Esso non è la riproduzione
di quest’ultima nella sua totalità sensibile, ma mette in rilievo in essa
determinati elementi ‘significativi’, cioè elementi attraverso i quali il dato
viene esteso al di là di se stesso e la
fantasia spaziale, sintetica e artisticamente costruttrice viene guidata in
una sua determinata direzione. Ciò che qui, come in altri campi, costituisce la
forza peculiare del simbolo è quindi appunto il fatto che nella misura in cui le immediate determinazioni
contenutistiche passano in secondo piano, gli elementi generali di forma e di
relazione acquistano un’impronta sempre più netta e più pura” (Filosofia delle forme simboliche. Vol I.
Il linguaggio, La Nuova Italia 1976, p. 51).
Dopo
Cassirer, l’analisi delle forme simboliche ha occupato spazi nuovi e centrali
nella fenomenologia, nella semiotica, nel formalismo, nell’ermeneutica. Nell’ambito
ermeneutico essa ha trovato una sistemazione esemplare in Gadamer (Verità e metodo), secondo la prospettiva
di “cercare di cogliere l’essenza propria [dei simboli e rappresentazioni
analoghe], senza lasciarci sviare dall’astrazione operata dalla coscienza
estetica. Occorre per questo esaminare questi fenomeni di rimando, in modo da stabilire
ciò che in essi vi è di comune e ciò che invece è distinto”.
Postilla,
ovvero biglietto di solidarietà – A provvisoria conclusione della nota, mi
permetterei, si fas est, come dice
Catullo, di mandare un biglietto di solidarietà e di stima al simbolo. Gli
direi: “Caro Simbolo, tu mi sei molto simpatico, per la tua natura e per i tuoi
comportamenti disinvolti e libertari. Dove passi tu, entra sempre una ventata
d’aria fresca e ossigenata. La tua presenza è mediumnica, fa aprire interstizi
e talora varchi all’ingresso dell’inatteso, del casuale nel nostro mondo, - e
tu sai bene che il Caso è provvidenziale, perfino nell’ambito scientifico e
tecnologico, come dice un affidabilissimo scienziato, Jacques Monod, ed è anche
più intelligente di quanto ordinariamente si pensi, come sottolinea Breton. Il
tuo cuci e scuci fra le lontananze, fra le concretezze dell’astratto e la
corposità (di facciata) dell’esistente, documenta, insieme con altri segnali,
che c’è vigilanza attenta anche da parte tua contro le pretese di una
razionalità totalizzante e imperiale. Che ci possono essere riscontri concreti
di un modo di conoscere, senza passare attraverso le forche caudine del provare
e riprovare. Che si possono costruire ponti sugli oceani e collegare sponde fra
loro lontane in tempo reale a cavallo di un arcobaleno. Tu consenti di
contattare nell’immediatezza quell’essere integrale, che Heidegger chiama il “ganzsein”. Mantieniti, perciò, sempre in
buona salute e permettimi di mandarti un abbraccio.
p.s.
Me ne stavo scordando, ed è grave. Dovrei scrivere un biglietto anche a
quell’altro, il tuo, il nostro nemico, che poi, folle di passione per il no e
per la distruttività, è, come è noto, il nemico per eccellenza della luce. Ma
approfitto di questo biglietto, per mandare anche a lui un messaggio. Tu,
perciò, giragli la mail. Quello abita porta a porta con te, anzi ti sta alle
costole. Anzi, osservati nell’insieme, voi due formate una specie di divinità
bifronte, proprio come Giano nel mondo romano antico, che era il dio
dell’ingresso e dell’uscita e sostanzialmente della pace e della guerra.
Gli
mando a dire questo: a che serve più starti a spiare, per disfare quello che
fai tu? Lui è semplicemente un replicante. Ormai tutta l’esistenza dell’essere
umano, fin dal tempo di Caino e Abele, si connota in concreto più della
distruttività che del suo contrario. Oggi, nella storia, non c’è più bisogno di
lui, basta e avanza quello che ha combinato e continua a combinare l’homo cosiddetto sapiens. Il quale, nel tempo, si è specializzato e perfezionato
nella distruttività, nell’aggressività, nel sadomasochismo. Ormai non occorrono
più invenzioni dall’esterno, come potrebbero essere i suoi interventi. Quelle
inclinazioni, nell’homo sapiens, sono
ormai costitutive e in circolo nella sua relazionalità quotidiana con sé e col
mondo, quasi secondo una sua propria programmazione biologica. Ormai, la
mutazione è completa, non occorrono perfezionamenti o suggerimenti da fuori.
Chi potrebbe fare peggio dell’uomo? Se ne vada, perciò, in pensione per sempre,
lui adesso il nemico superfluo, e si goda il suo meritato riposo. O anche, se
crede di dover impiegare utilmente le sue energie in quanto giovane anziano, si
riconverta nel profilo e nel suo intimo. Oggi siamo in fase di drammatiche,
sofferte riconversioni generalizzate e di massa, in genere coatte. Si metta
all’opera anche lui. O, se avesse vaghezza di raffinarsi intellettualmente, si
infili nella Biblioteca di Babele di Borges, dove tutti i libri rappresentano,
esplicitamente o implicitamente, lo scontro tra il bene e il male. Là, tra gli
altri, ci sono libri epici su tale materia, tali e quali alla Divina Commedia, al Faust, a Pace e guerra,
che potrebbero essere utilissimi per un intrattenimento infinito. La sua presenza, qui nel nostro contesto, è
del tutto sprecata. Sia saggio, non si lasci marginalizzare dalla storia come
inattuale e privo di senso. Diglielo, ti prego, a nome mio e a nome di questa
cosiddetta realtà moderna. Ai fini, innanzitutto, di una razionalizzazione e
ottimizzazione delle risorse”.
Ugo Piscopo
Una ricerca attenta e scrupolosa, che mette in campo tutte quante le virtù speculative di uno scrittore a tutto tondo. Un vero piacere leggere saggi di tale portata e poi espressi in una lingua avvincente, semplice nella sua complessità.
RispondiEliminaGrazie e complimenti
Luisa T.
Straordinario questo saggio di Ugo Piscopo. Mi complimento con lui. Condivido l'assunto che il Diabolos non abbia alcuna consistenza, se non quella di essere un simbolo della perversione umana. Non c'è alcun bisogno di lui, come entità metafisica, considerato che l'homo sapiens, con la sua insipienza, l'ha da molto tempo superato ed esautorato. Vorrei soltanto aggiungere, a questa stupenda dissertazione, che il Simbolon, in quanto Relazione, è in grado di assumere e catturare il Diabolos (umano) entro i propri confini, mentre il Diabolos (umano) non è disposto ad accogliere il Simbolon come compagno di viaggio. Sta qui, a parer mio, la sua dannazione, la sua uscita dall'Eden. E sta qui la configurazione del razionalismo umano (non della ragione, che è un'altra cosa)come esaltazione della superbia e della separazione propria dell'uomo, ai danni della cooperazione universale.
RispondiEliminaFranco Campegiani