Il viaggio spirituale
di Claudio Fiorentini
nei due recenti
romanzi dello scrittore romano che vive a Madrid
Sono qui da mesi sulla mia scrivania. Due
romanzi di Claudio Fiorentini, editi dalla romana Ensemble, cui finora non mi sono potuto dedicare. Non so come
scusarmi con Claudio, ma lui è al corrente di certe mie problematiche e del resto alla mia età credo sia umano
perdere colpi, anche se si è ancora vitali. C'è di buono che un libro non è
merce consumistica, per lo meno così come noi lo intendiamo. Non è un prodotto usa e getta - non quelli di questo
calibro, quanto meno - per cui in ogni luogo e tempo resta non solo lecito, ma
addirittura doveroso parlarne. Presi i due libri tra le mani ho rimpianto di
non averlo fatto prima.
Quella di Fiorentini è narrativa di qualità,
scritta come suol dirsi in punta di penna, con agilità ed eleganza condite da
sottile e spiritosa ironia, il tutto sostenuto da contenuti di alto livello,
distanti anni luce dal minimalismo culturale di tanta odierna e insulsa narrativa.
Concerto a Vanagloria, il primo dei
due lavori, è la storia di Ted, un
editore in crisi esistenziale, stanco di bocciare per partito preso la
pubblicazione di qualsiasi testo di valore, preferendo fare spazio al pattume e
all'insignificanza, ligio ai vigenti assetti sociali e culturali. Perfino ad
Elmer, scrittore di chiara fama, suo pingue amico, rifiuta la pubblicazione di
un capolavoro dove si parla di un'organizzazione clandestina tesa a sabotare il
commercio di armi.
No, il commercio non si tocca. Non si può
chiedere a un editore di attentare al sistema economico in cui opera e cerca di
prosperare. Così, quando i nodi vengono al pettine e Ted non ne può più di
mentire, anziché fare i conti con la propria coscienza e cambiare modello
editoriale, sceglie pavidamente la fuga e chiude con la sua editrice.
L'intreccio narrativo è assai complesso ed intricato, come è nello stile
collaudato ed apprezzato dell'autore, con scatti in avanti e indietro nel tempo
e l'innesto di personaggi all'apparenza marginali, ma alla fine fondamentali
nell'economia del testo.
Non toglierò la sorpresa ai lettori,
riassumendone la trama, avvincente dalla prima all'ultima riga, e mi limiterò a
riflettere sul pensiero centrale, molto profondo, che il libro propone. <La
questione divina va messa da parte>, così fa dire l'autore ad uno dei
protagonisti, perché, aggiunge, <noi, da uomini che siamo, navighiamo nei
limiti dettati dalla nostra natura e ben poco possiamo capire di ciò che ci
sovrasta, ammesso che esista>. Questo il pensiero centrale del libro,
spezzato e ripreso più volte con sapiente dosaggio narrativo.
<Ciò che si muove, che formicola, che si
accalca, che stanzia nel mondo, è la vita>. Così noi, tragicamente assaliti
dal caos, dal movimento, dalle perdite, dalle mutazioni, cerchiamo vanamente di
bloccare il tempo, restando <condannati a un perenne inseguimento del
presente> (che è come dire dell'assoluto, del divino) senza poterlo
raggiungere mai. Forse occorrerebbe <tornare bambini, o anche regredire a livello
animale, o lasciarsi andare alla follia... Forse lo scopo della vita risiede
proprio nella ricerca dell'ormai persa simultaneità, già perché le
sovrastrutture rallentano la percezione e denudarsi dalla razionalità è forse
l'unica via per essere in sintonia con il presente e per riuscire a essere vivi
fino in fondo. E felici, fino in fondo>.
Una via, questa, ovviamente impercorribile,
che comporterebbe di chiudersi in un limbo memoriale, fuori dalla vita reale.
Ma non meno illusorio è rifugiarsi nelle speranze di un utopico futuro, di un
sogno impossibile, pur di evitare l'impatto con la propria coscienza che
pretende di vivere hic et nunc nel
mondo reale. Ted preferisce cambiar vita sostituendo le carte in tavola, pur di
sfuggire al compito di fare i conti con se stesso. E laddove dichiara di non
essere mai stato un campagnolo (leggi una
persona verace) e di sentire congeniali "il rumore, il disordine, la
stranezza, la sporcizia, il dinamismo, la spocchia, il trambusto e l'assurdità
della vita cittadina", non bisogna credergli quando soggiunge che è
esattamente in quel marasma, dove "tutto è giustificato", che sente
di doversi guardare allo specchio, "chiamato alle proprie
responsabilità".
Non si capisce infatti, dove tutto è giustificato, a cosa può servire
sentirsi chiamati alle proprie responsabilità. E perché mai guardarsi allo
specchio, se, come lui sostiene, <noi non siamo altro che un prodotto della
storia> ed è a furia di procedere contro natura, che siamo diventati più intelligenti, più belli e meglio alimentati,
quindi migliori? Il venditore ambulante non la pensa così. Poeta clandestino,
coltiva un concetto rivoluzionario dell'arte: <Io credo che la poesia sia un
rito di rinnovamento, e lei sa che nell'antichità i riti di rinnovamento
portavano all'azzeramento del tempo". E' per questo, dichiara, che <la
poesia è rivoluzionaria... il poeta un sovversivo>. Juliette, in effetti,
suona la musica al contrario e così facendo mostra di tornare indietro nel
tempo, verso le origini, verso il sogno di un mondo perduto, edenico, fatto di
pace, rispetto, felicità.
Ted, all'opposto, crede nel divenire: il
mondo migliore è quello che verrà, perché <quando il sogno esaurisce la sua
funzione, non si può fare altro che cercare di viverne uno nuovo. A questo
serviva la musica>. E aggiunge: <il mondo sarà sempre teatro delle
peggiori perversioni e noi tutti ne prendiamo parte, ma lasciatemi sognare>.
Sognare dunque per fuggire dalla realtà? No, per diventare migliore, l'uomo la
deve smettere di fantasticare. I sogni vanno realizzati, non chiusi nel
cassetto, altrimenti quel cassetto diviene un cumulo di illusioni che prima o
poi esploderà. Per questo è importante guardarsi allo specchio: per far affiorare
di tanto in tanto la coscienza dal groviglio inestricabile di menzogne in cui
la gettiamo. Ed è a questo che serve l'arte.
L'arte è rinnovamento. E' certamente sogno,
ma è anche opera, realizzazione. E' concretezza: quel fare che i Greci definivano poiein,
da cui appunto poesia. Una nuova
nominazione del mondo, un imprevedibile riaffiorare delle origini nel tempo.
Origini non storiche, ma archetipiche. Non originarie,
ma originanti. Ed è il momento
creativo, mitopoietico per eccellenza, "il momento in cui realtà e
letteratura coincidono", scrive l'autore. Una ripartenza, prima che si
torni nella consueta routine e si precipiti
verso nuovi declini. Arte non come Artificio, ma come Verità. Momento sempre
vivo e presente nel tempo, che non s'identifica tuttavia con la temporalità. Né
con il prima, né con il poi, e neppure con l'attualità.
Nel secondo romanzo, Torri di pietra, la riflessione avviata in Concerto a Vanagloria viene ripresa e sviluppata in vicende di tutt'altro tipo, prendendo di
mira con fine e graffiante ironia la cialtroneria che regna nell'ambiente
esoterico, cosiddetto paranormale,
dove sogni repressi, illusioni, raggiri ed inganni la fanno da padroni. La
storia si apre con il barone Harper Barnaus, ladro, ex costumista di cinema, e
la veggente Marta Debugging di cui è innamorato, e si fa subito intricata come non
mai. Compare poi il giovane Jason Lamolfetta, un investigatore squattrinato
sorpreso in una radura ai margini di un bosco, dove sorgono misteriose torri di pietra, dei minuti artefatti
dall'aspetto di menhir o dolmen preistorici, costruiti da qualche
ignoto artista che crede nell'arte secondo natura, ecologica, vitale e caduca a
un tempo, al di fuori dei valori museali e statici attribuiti alla stessa, da
tramandare nei secoli.
<La Natura, tra tutte le sue forme, aveva
scelto la più bella per librarsi in volo e posarsi dolcemente sulla Terra. Ogni
cosa, in quel piccolo slargo immerso in mezzo ai monti, emanava una quiete
disarmante. Da cittadino di lungo corso, Jason Lamolfetta ammirava quel
tripudio di meraviglia rimpiangendo di non essere un boscaiolo, un carbonaio o
addirittura un animale selvatico, un uomo libero da condizionamenti, almeno per
il tempo in cui si è lì, a vivere degli ingredienti che la provvidenza mette
sulla strada>. Ma non era la civiltà, groviglio inestricabile di
sovrastrutture, a nascere e crescere nell'intento di affrancare l'uomo dai
condizionamenti della natura? Non erano le ideologie, anche laddove dichiarano
di essere fedeli alla natura, ad irretirla in un garbuglio di regole e dogmi
contro natura? Si potrebbe forse auspicare di ignorarla, la natura, di
lasciarla al suo destino, ma a parte l'assurdità dell'assunto, non è certo la
noncuranza a poterne migliorare il rapporto, bisogna accettarne la
collaborazione.
La contessa Von Hugentrofer, "mecenate
dell'occulto, spiritista e persona molto ammodo", "affrontava il
mistero con dignità e autorevolezza, non si lasciava certo intimidire da quella
roba lì". "Non era la vecchiaia a minare le sue forze, ma il
dubbio". Quel dubbio che, commenta l'autore, "divora le certezze
trasformandole in fragilità". Quel dubbio che libera dalle illusioni
fideistiche, ma che rischia di diventare esso stesso un blocco psichico,
laddove divenga aprioristico. Una mente equilibrata dubita di tutto, finanche
del dubbio stesso. E' dinamica, non statica, e non dà mai nulla per scontato,
neppure il fatto che non possa mai darsi nulla per scontato. Sa che
l'equilibrio è fluido, instabile, contraddittorio. Così, quando le torri di
pietra rovinano al suolo, non dispera, non è indotta a credere che l'equilibrio
sia svanito per sempre. Sa che esso ama porsi alla prova, attratto da sempre
nuovi squilibri da equilibrare.
Ed ecco Santo dei Miracoli, un gradasso
pasticcione "straordinariamente interessato alle donne", così lo
presenta l'autore. Vecchia conoscenza di Jason, gli confida di avere iniziato a
frequentare i circoli esoterici spinto unicamente dalla voglia di rimorchiare.
E gli racconta, divertito, di avere assistito ad una conferenza di un certo
Prof. Von Hildeborg, "un pranotantrico di grande nomea, uomo di esuberante
bruttezza e, dicono, un gay attratto dall'abito talare". In
quell'occasione aveva sentito parlare di Baldo Ulster, grande luminare, ma
soprattutto era riuscito a rimorchiare Beata La Casta (quanta arguta ironia
nella scelta dei nomi!). Jason, ignaro di quel mondo e al tempo stesso
incuriosito, si pone ad indagare (anche su di un certo Igor Bustertemp, emulo
di Ulster), fino a concludere, dalle scarne informazioni ottenute, che tutto
poteva riassumersi <nelle manie tipiche della razza umana di attribuire a
forze ultraterrene il motivo della propria esistenza>.
Da qui <il tanto proliferare di sette,
religioni, superstizioni e credenze che riassumono la pavidità umana, perché
solo così si è liberi da colpe e ci si può cimentare in simboliche lapidazioni.
Gli altri sono i cattivi, noi siamo i buoni e abbiamo diritto a sbarazzarci dei
cattivi>. In realtà, questo è il modo di pensare e di agire più meschino di
cui sia capace l'essere umano, dimentico del fatto che le forze ultraterrene
agiscono in lui e che è lui stesso (o dovrebbe essere) il latore delle celesti
armonie, lui il cardine del divino nel mondo, lui l'artefice della fratellanza
tra Caino e Abele. Figura chiave, quella di un vecchio escursionista incontrato
da Jason nel bosco, il quale compare a più riprese nella narrazione,
materializzandosi come per incanto in varie situazioni e rivelando infine la
propria identità: Baldo Ulster in persona, trasformatosi in frate dopo avere
rinunciato al mondo.
Due concomitanze contribuiscono a incentivare
la curiosità di Jason. Innanzitutto, l'incontro con Eteria, la bibliotecaria a
cui si rivolge per documentarsi, dalla cui sensualità rimane folgorato. In
secondo luogo, l'incarico investigativo, ben remunerato, ricevuto da una sorta
di gangster, un non identificato
"uomo col cappello", affinché indaghi su di un pericoloso anonimo
personaggio, una sorta di nuovo sconosciuto messia che avrebbe potuto
scardinare gli assetti del potere mondiale. La vicenda narrata è
complicatissima, con colpi di scena d'ogni tipo, ed è impossibile seguirla in
tutte le sue evoluzioni. C'è tuttavia un altro personaggio cui vale la pena
accennare, il duca di Gustenhaus, chiassoso nobilcane
e comicissima caricatura del mondo aristocratico, un cihuahua abituato ad abitare nella borsa della Contessa, bestiolina
di cui Jason diverrà accompagnatore dopo essersene stato perfidamente morso
durante un incontro esoterico mondano.
In quel convegno si parlava dell'origine
extraterrestre degli umani, frutto di un clone di una civiltà aliena buttato
sulla terra 300.000 anni fa: tesi sarcasticamente contestata da un atletico e
agguerrito signore, Humphrey Bogart - uno dei geniali travestimenti del Barone
Barnaus - destinato a divenire confidente intimo della Contessa. Dunque, due
concezioni differenti della spiritualità. Da un lato quella in senso lato esoterica,
sequestrata in tesi, idoli, dogmi e riti
preconcetti; dall'altro quella del vecchio eremita, selvaggia ed anarchica, profondamente
libera: <Ah, questa mania di attribuire significati occulti alle cose
naturali... Secondo lei le forze del Cosmo si concentrano solo qui?... Il Cosmo
non ha bisogno di piramidi. Il Cosmo è dappertutto>. Da un lato il feticcio che tenta di catturare lo
spirito, dall'altro il simbolo che
vuole farlo volare.
Per il vecchio eremita il mistero deve
rimanere tale, mentre gli umani tentano sempre di profanarlo attribuendogli
significati arbitrari. <La Verità è accessibile solo a chi non crede>.
Credere infatti è possibile solo a chi si sente escluso dal Vero. Chi ci vive
dentro non ha bisogno di crederci, per il semplice fatto che ne accetta il
mistero. Come un albero, come un animale... Il mistero va vissuto, non
teorizzato, e viverlo è l'unico modo per comprenderlo, perché se il mistero lo
accetti, non è più mistero. La Contessa ricorda che secondo Igor (Bustertemp),
suo antico fidanzato, non esiste un Dio così come tradizionalmente raffigurato,
ma una sorta di coscienza universale dove confluiscono tutte le vite singole
perdendo all'atto della morte la loro identità individuale. Punti di vista. A
mio avviso, la vera identità viene raggiunta proprio nel piano universale, mentre
nel piano esistenziale esiste solo smarrimento.
Seguendo le indicazioni di fra' Baldo, la
cricca guidata dal ladro ex costumista e trasformista, Barone Harper Barnaus,
giunge infine all'abitazione dell'uomo portentoso e rivoluzionario che avrebbe
avuto il potere di cambiare il mondo. Squallore, odore di minestra, luce un po'
moscia, e lui "un ometto dall'aspetto insignificante, con la pancia prominente".
Un incontro improntato alla massima semplicità, perché la verità è semplice ed
è forse per questo che non viene creduta. Ci si sofferma, dice Fiorentini, su
fenomeni manifesti, <dimenticando che la percezione viene da dentro. E'
dentro che succede>. Così, alla domanda di Eteria: <Perché Lei si
nasconde? non potrebbe uscire allo scoperto?", il nuovo ed eterno Messia
risponde: <Avete visto quanti fanfaroni ci sono in giro?... meglio restar
nascosti... In passato è successo che il Messaggio, proprio perché manifesto,
fosse travisato... Ah, le parole, che pasticcio!...Meglio una vita schiva,
meglio nascondersi, così tutti mi cercano e solo pochi mi trovano> al
termine di un lungo e accidentato percorso.
Franco Campegiani
Leggo con piacere questa bellissima recensione di Franco Campegiani, che ringrazio di cuore, soprattutto per aver evidenziato aspetti spirituali e filosofici dei miei due utlimi romanzi. Spero che qualcun altro li leggerà. Grazie Franco, grazie Lèucade e grazie Nazario.
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