Giannicola
Ceccarossi: CASA DI RIPOSO. (diario).
Ibiskos Ulkivieri. Empoli. 2013. Pp. 50. € 12,00
Esseri soli come gocce che si inseguono sui vetri
Leggere questa
silloge di Giannicola Ceccarossi significa farsi poeti. Pórci tanti perché.
Significa introdurci a passi cheti e silenziosi, con il massimo raccoglimento,
e con animo predisposto, in versi che si reggono su una struttura libera ed
aggrappata a nutriti significanti metrici. Sì!, predisposto a riceverne impulsi
emotivi di grande effetto trascinante, coinvolgente. Significa farla nostra
questa poesia, metabolizzarla, e essere tutt’uno con il poeta. E la
comunicazione è immediata, istantanea, perché il Nostro ha una grande virtù,
quella della spontaneità. É un suo valore aggiunto. Ceccarossi stende sul
foglio la vita, l’amore, i giochi rocamboleschi dell’esistere. E anche se a
volte cerca di svilirne la portata, tutto ciò è dovuto soltanto al suo
attaccamento a questa miracolosa avventura. E così si tormenta, s’inquieta, si
addolcisce in una elaborazione etico-mentale che lo fa vivo, e umanamente
presente. Rende tutto intriso di quelle questioni che fanno dell’esistere una
continua ricerca, un continuo azzardo verso mète che ci stacchino da quei
piccoli o grandi intrichi quotidiani. Interrogativi possibili, forse troppo possibili,
ma per questo vicini ad ognuno di noi, che siamo relegati in questo spazio
senza poter sapere per quale durata, per quale scopo, per quale obiettivo: “Ma quando mi soffermo a pensare/ agli anni
oltre/…/ quale futuro mi attende?/ I mei figli saranno sempre qui?/ Non voglio
morire sola” (Pp. 17). Che cosa di
più umano, di più sintonizzato alle corde dei nostri sentimenti che una persona
cara, con tutto il suo bagaglio di solitudini e di rimpianti, in una casa di
riposo. Ceccarossi ne sa fare un poema con un dire che mai scade in una lamentatio. Tutto si fa lirico e
struggente. Sono le piccole cose, i piccoli movimenti a innervarci tristezze, i
recuperi memoriali, gli stati d’animo: lavarsi, vestirsi, inginocchiarsi in
preghiera, le lenzuola, la solitudine, la solitudine, la solitudine, la fatica
a ricordare, il desiderio dei figli. E tutto si dilata alla sfera dell’essere,
del vivere, e del concludersi. Sì!, gli affetti, le vicinanze, le sofferte occasioni,
le conquistate speranze: tutto avrà fine, improrogabilmente:
Quanto tempo mi rimarrà?
Ancora qualche anno
Tra gente estranea
Fantasma tra fantasmi… (Pp. 23)
(É una madre che
parla in questa casa di riposo, ma con i versi liricamente turbanti del poeta).
Come se il
nostro passaggio non contasse nulla, come se lasciare ai quattro venti tutto il
nostro vissuto fosse un gioco da ragazzi. Una storia irripetibile, soggettiva,
unica che rischia di inabissarsi in un mare enormemente anonimo. Fughe e
ritorni. Un poema-diario dedicato ad una madre che vive in quella casa e che ha
tutto il tempo di pensare e di soffrire, di sentire e meditare. Ma, forse,
metaforicamente parlando, questo perfido gioco riguarda pure tutti noi che
siamo destinati a consumare i nostri giorni qui e ora, con la sola possibilità
di guardarlo dal basso l’azzurro o di immaginarlo. C’è una analogia e una
traslazione così vera da irrompere nel nostro vissuto con una semplicità
sconcertante. E proprio questo il poeta riesce a comunicare. Il senso di una
vita fra quattro mura imbevute di solitudini, di stanchezze, e di aspirazioni a
sottrarci a questa morsa e ad azzardare slanci verso orizzonti oltre i quali non riusciamo a vedere, ma che
sappiamo impreziositi di volti e figure che bramiamo incontrare, nella nostra più
segreta coscienza. In fin dei conti tutti siamo accorati per delle sottrazioni,
per delle privazioni che in qualche misura desideriamo compensare, ricomporre. Fin
dalla prima poesia è immediato l’impatto con la questione prima dell’essere e
del vivere:
… Ora mi aspetta il viaggio
Breve doloroso che impaurisce
E mi chiedo dove andrò o cosa sarò
Forse un fantasma
che non ha nome (Pp. 15).
Il viaggio è
verso quelle mura indifferenti, va bene, ma è un viaggio che esprime tanto di
più: ci dice di ultimazione, di redde rationem e ci affianca col dilemma del
patrimonio delle nostre memorie. Ci parla di primavere vergini, di anni
trascorsi, di autunni impellenti. A chi tutto questo? A quale luogo? A quale
nulla? É possibile staccarci dalla nostre quattro mura con tutti i loro affetti, anche se
monotoni e ripetitivi, con tutti i loro
oggetti zeppi di volti che ci hanno contornato per un’intera vita:
Ma so che poi tornerò
a sognare lampadari
i muri i balconi con le piante
e i vicini
Non mi muoverò!
Mi rimane nel cuore
la memoria di tanti anni
che accarezzo lievemente
e che mi accompagnano sempre
nei miei sonni (Pp. 18).
E il sogno è
ricorrente. Il sogno fa parte di quella vita. Forse è l’unico dei pochi mezzi
che ci aiuta in questo azzardo oltre gli orizzonti. E qui tutto è scorrevole e
piano, tutto si confessa con delicatezza e senza abbondanze di strategie
tecniche e figurative. Il verso non ha bisogno della ragione, ma va libero
dietro l’effusione emotiva. Si fa ora breve, brevissimo, ora più ampio per
sottostare alle raccomandazioni impellenti dei sentimenti. E il discorso si fa
generale; gli affetti di una persona incommensurabilmente grande come una madre
divengono proprietà di tutti. In quella casa di riposo, dove lei aspetta una fine
senza grandi speranze, o forse, una liberazione, ci siamo tutti a vivere
nell’attesa di una libertà che tarda a venire e che attendiamo per un’intera
vita senza il tempo di possederla. Struggenti, semplici, e toccanti
particolari:
Domani mi faranno il bagno
Mi vergogno
Forse non lo farò
e aspetterò mia figlia
Devo tagliarmi i capelli (Pp. 25).
sono lontana
e non tornerò
Ora è qui la mia vita
Quale? (Pp. 28).
Mi affaccio alla finestra
e piove
Sono sola
Sola come le gocce che si inseguono sui vetri (Pp.
29).
Ma per questa
madre esiste la speranza di tramandare oltre il tempo la propria esistenza; ed
è un grande sollievo, un grande dono; una grande forza emozionale e vitale che
apre la luce oltre quell’orizzonte e permette di vedere distintamente lontano:
Credo in Dio
Lui salverà la mia anima
e sarò finalmente in cielo
Nell’azzurro (Pp. 39).
Non è detto che anche
per noi non si tinga di azzurro una stanza che non riconosciamo.
E di Ceccarossi, alfine, resta una
poesia che sa affratellare un po’ tutti in un angolo di fede e di memorie per
non farci sentire troppo soli. Dacché è proprio la forza del ricordo a generare
un ampio rinnovamento della vita:
Aspetterò che il Signore
mi dia la forza
di rivivere i miei giorni
Nazario Pardini 07/01/2013
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