Denuncia
dei paradossi storici, l’opera evoca l’eticità della Poesia; le affida con
emozione il compito dell’Utile; strumenta linguisticamente categorie
spazio-temporali in una simultaneità scenica sfidante.
Qui
è registrata l’antica voce del coreuta, che ha affidato al tempo la sua
memoria; qui è il baratro dell’inutilità della Storia, morta con Aylan nell’infanzia
del suo divenire.
E si
avverte, nel dire sanguinante, sovrastorico del Poeta, nel tono epico a lui
necessario, la ricerca con fiaccola eroica della coscienza perduta in foreste e paludi
notturne; la coscienza del Principio rifiutato.
I
versi sono urto interiore, collisione fra pensiero favoloso, trascendente,
certo che ogni bellezza appartiene all’Ultima, e la realtà spiritualmente
disorganizzata; sono accorgimento
didascalico, nel sottolineare il divario tra Thanatos ed Eros, tra negazione
della Vita e Perfezione; tra morte ed eterna rinascita dell’uomo.
Ma il “poema” altresì, nella sua bilocazione, si avvale di una ricognizione linguistica
specifica: laddove il Poeta - a conoscenza di mare e di venti - parte per il
viaggio con parole (canoniche o frantumate dal pianto), che invitano a staccare
l’ancora, a slontanarsi, lega
sintatticamente io assoluto e io relativo.
Aedo
struggente, Ester Cecere va sui mari di ogni tempo, tesa verso un Dio che
conosce da vicino.
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