M.
Grazia Ferraris: Una singolare generazione..., Convivio Editore, Castiglione di
Sicilia (CT), 2018
Dalla cultura intorno
alla figura del Maestro Antonio Banfi, alla rivista Corrente; dalla nuova
poesia lontana dall’ermetismo toscano, alla linea lombarda nel saggio di Maria
Grazia Ferraris
Un lavoro di certosina immersione, in cui la
Ferraris dimostra l’attitudine allo studio, alla ricerca, alla puntualizzazione
di fatti, sentimenti e tendenze che hanno caratterizzato la cultura della
Milano poetica del primo Novecento. “A Milano, presso l’Università
statale, nella prima metà del Novecento, il filosofo Antonio Banfi (1886-1957),
insegnante di storia della filosofia ed estetica, fu il promotore di un
pensiero che si affrancava sia dallo spiritualismo che dal neoidealismo
imperanti in quegli anni.
Diffondeva i principi di una cultura
libera e antidogmatica, erede dell’illuminismo europeo.
Tra i
giovani studenti delle sue lezioni: Vittorio
Sereni, Enzo Paci, Remo Cantoni, Giancarlo Vigorelli, Guido Morselli,
Dino Formaggio, Daria Menicanti Giulio Preti, Ottavia e Clelia Abate,
M.Adalgisa Denti, Antonia Pozzi… Una straordinaria generazione.”, scrive la
scrittrice nell’incipit del primo capitolo. E lo fa con uno squisito tatto di
femminile emotività, dacché più di una volta la Nostra ci ha fatto capire la
sua passione per le donne scrittrici; per la ricerca di spiriti nuovi che, il più delle volte dimenticati, sono
stati ripescati dal suo senso critico e dal suo immenso amore per la cultura
poetica. Il tutto scorre con generosa fluidità, con scioltezza narrativa, con
eleganza formale, portandosi dietro il sapido abbrivo di personaggi vòlti ai
misteri del canto, alla storia umana dell’esistere, della vita e alla
intenzione caenaculum facendi; di fare gruppo per issare una bandiera nuova e
singolare nel retroterra speculativo e fattivo, plurimo e incandescente di un periodo
basilare della nostra storia, pur
sottolineando la Nostra che “Non è esistita mai ufficialmente una scuola
di Milano, negli anni Trenta del Novecento”. La penna che si accinge a tale compito è quella di una scrittrice
proteiforme, polivalente, poliedrica e versatile adusa alla scrittura, qualsiasi genere essa esiga: poetessa,
narratrice, critico letterario, saggista, più volte ha dato segno della sua
potenza creativa e giustezza interpretativa davanti a testi di intricante
caratura. Dodici i capitoli che compongono questo interessante saggio: Milano e la cultura fra la fine degli anni trenta del Novecento
ed il dopoguerra, Vittorio Sereni: poeta lombardo, poeta di lago e poeta del
mondo, Piero Chiara: la poesia di Incantavi, Antonia Pozzi: la voce malinconica e leggera dell’anima, V. Sereni- A. Pozzi: storia di un’amicizia, Daria Menicanti: “una dispari/ felice di bere alla
brocca/della sua solitudine.”, Renzo Modesti e la Linea Lombarda, Giorgio
Orelli: una lunga fedeltà, Nelo Risi: esigenza esasperata di realismo, di
chiarezza, di "ragionamento" illuminato, Luciano Erba: il disincanto metastorico, Luciana Guatelli. Le emozioni
essenziali e controllate, Piera Badaloni. Un lavoro che presuppone una base
culturale non indifferente, mezzi esplorativi di sagace analisi, e una visione
personale dell’ontologia estetica, e della poetica che in lei sono ben saldi e
pronti a intervenire nei momenti del bisogno. È qui la sua forza filologica, il
suo bilancio costruttivo: la poesia è
lingua, è forma, è novità, è patema che scuote e sveglia con la richiesta di
concretizzazioni verbali. Non c’è poesia senza musicalità, non c’è arte senza
semplicità comunicativa. E lo dimostra col suo scritto il cui primo intento non
è quello di educare ma quello di trasmettere. Farsi capire è l’esigenza della
Ferraris, e la poesia stessa non deve perdersi nei manierismi avulsi che ne
intralciano il cammino, né nei meandri spersonalizzanti e estremamente oggettivati
tipo Corrente Lombarda, o correlativo oggettivo di stampo eliotiano. Da qui
l’importanza che dà alla parola, al verbo, alle iuncturae iperbolico
sensoriali; a quella grammatica figurativa che permette al vero poeta di
elevarsi al di sopra del fatto, pur partendo da esso con concretezza
riflessiva, se si vuole che si faccia simbologia di un divenire ontologico;
insomma un volo, sì, un azzardo verso mondi di difficile approdo; una
navigazione senza bussola, in cui spesso ci si smarrisce, o si cozza contro
scogli, per, poi, riprendere il percorso con i resti della vita. Questi i
criteri della sua poetica, criteri che la guidano nella ricerca, nello studio e
nella scelta della materia. “... Gli oggetti, enumerati come casi particolari
di «strumenti umani», sono in primo luogo oggetti emblematici di una civiltà
(quella arcaico-rurale), ma in secondo luogo sono anche correlativi oggettivi
di una condizione interiore, di un male di vivere che nel poeta non è mutato, mutando
ambiente, e si è aggravato per accumulo di consapevolezza storico-sociale (es. Una visita in fabbrica). Comunque, pur
in questa forma dimessa e poco vistosa la sua poesia segna l'irruzione
consapevole e consistente del mondo storico nelle trame dell'inquietudine
esistenziale del vivere quotidiano, tanto che il poeta talora
rinuncia all'auscultazione del proprio io per affrontare direttamente la
rievocazione - sempre schiva, mai retoricamente sostenuta ed eloquente - di
catastrofi reali, che hanno segnato il destino dell'uomo e del mondo
contemporaneo. Nella poesia come nella vita di V. Sereni l’amicizia ha avuto un
ruolo fondamentale...”, questo scrive a proposito di Sereni, e da vera filologa
pilotata da una convinzione storico-sociale, esistenziale, non fa mai a meno di
convalidare le sue tesi con riferimenti di grande pertinenza letteraria. Si
legga a proposito il vasto apparato bibliografico che impreziosisce l’opera. Tutto
coinvolge nelle sue analisi: vita, amori, depressioni, ambienti, realtà,
immaginazione, concretezza ispirativa, inquietudini..., e tutto è convogliato
verso un’unica direzione: lo stile e l’autonomia.
Ma mi
piace soffermarmi su una parte del suo scritto dedicato ad una poetessa (Daria
Menicanti) che l’Autrice ama e alla quale
ha sempre rivolto una particolare attenzione, per la sua poesia nuova, fresca,
umanamente emblematica, frutto di un vivere complesso e complicato: “... Una
poetessa, credo, ingiustamente dimenticata. E di questa dimenticanza la prima
artefice era stata lei stessa. Perché faceva parte di quella schiera di donne
che, senza vivere all’ombra di nessuno, tuttavia vivono nell’ombra, come
violette discrete, e forse scelgono proprio di farlo, perché sanno molto bene,
più di tanti altri, che la vita è più grande di quella che ognuno di noi
rappresenta.
Hanno
detto che la poesia di Daria è insieme vitale e tragica, tenue e profonda.
A me
piace citare e ricordare la felicità di un attimo: «Ogni tuo arrivo inaspettato
è un chiuso guizzo,/ una fitta/ di felicità».
E anche
come Daria descriveva la vita: «Si pensi di avere in mano un nastro di seta: me
lo stanno tirando via. Io me lo sento che mi sfugge, però e di seta». Però è di
seta: magnifico.”
... La
sua poesia è misurata e diretta, punto
d’arrivo di un complesso lavoro di cesello linguistico-concettuale, nitido
nelle scelte che fanno percepire la
drammaticità dell’inarrestabile fluire della vita. Porta con sé la lama
tagliente della razionalità illuministica, che passa dall’ironia alla
“meditazione sapienziale”, come diceva l’amica Lalla Romano.
…. Quel
che conta
è sempre la parola:
la vita dello scriba è una manciata
di sillabe e vocali e consonanti
e di allitterazioni:
fra tutto quel sussurro ad ora ad ora
serpeggia appena udibile o sfinisce
una buia canzone, il decanto
del vissuto, lo specchio e la culla. [1]
Daria rifletteva sulla sua vita e scrive, ironica:
Dio
era distratto quando nacqui. Pose/ nel nido delle mie costole asciutte
un
cuoricino di zitella inglese./ Sbagliò, certo. Così il mio illuminismo
si scontra spesso con le irrazionali/
pretese dell’involontario muscolo….[2]”
Il fatto che la Ferraris prenda in esame la pluralità
esistenziale di un autore prima di giungere alla poesia, o meglio il fatto che
Ella riporti un brano come risultante di una macerazione interiore, di una
vicissitudine a cui la produzione è legata, dimostra la validità di un metodo
induttivo proprio dei grandi storici. E concludere con una poesia di Piera
Badaloni, zeppa di umana sagacia e di sana ironia esistenziale, significa
mettere in luce ancora una volta i risultati di un grande lavoro critico che presto avremo la fortuna e
l’opportunità di leggere come pubblicazione di un premio letterario:
Piera
Badoni, pur nella sua insoddisfazione esistenziale e malinconia, nel 1948 scrive:
Mettete
sulla mia tomba
una
corona
di
anemoni e pervinche,
avevo
gli occhi di quel colore
e un
abito azzurro così
quand’ero
bambina.
Avevo
molte speranze
nella
mia
lirica
giovinezza.
Amavo
un giovane baldo
dagli
occhi chiari
un
giovane alto e sdegnoso.
Ma
l’unica cosa che resta
è
l’azzurro della pervinca,
ma
l’unica cosa che torna
è la
primavera.
Nazario
Pardini
[1] D.MENICANTI, Notizie biografiche, Ultimo quarto,
Scheiwller, 1990
[2] DARIA MENICANTI, Un nero d’ombra,1969 Mondadori, Di
zitella, gennaio 1966.
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