L’autrice,
Amalia Mancini, (non nuova a questo genere di scrittura) si occupa questa volta
di una vicenda familiare, in quanto tratta della straordinaria collaborazione
umana e professionale tra suo zio, l’avvocato Giovanni Vespaziani, e il
magistrato Giovanni Falcone.
I
fatti sono riportati in prima persona. Ritengo che la scrittrice abbia voluto
che fosse così per conferire al suo lavoro i caratteri della immediatezza e della
spontaneità. Ossia, piuttosto che fungere da intermediaria, ha - diciamo così -
preferito, tra virgolette, farsi da parte e lasciare l’intera scena a suo zio
ed alla sua non comune esperienza di vita professionale e, soprattutto, di
sincera fratellanza.
Dall’Introduzione:
“Il nome di Giovanni Falcone risuona
ormai nell’orecchio di tutti […] Alcuni […] si limiteranno a conoscere il suo
nome, ma molti altri sapranno indubbiamente che è stato un illustre Magistrato
italiano, celebre per la sua incrollabile dedizione (o meglio la sua epica
Crociata) contro la mafia. Sfortunatamente, sapranno anche che è stato
brutalmente assassinato per mano di Cosa Nostra […] C’è, tuttavia, una storia
che non è mai emersa in modo chiaro sui giornali né in televisione: la storia
d’amicizia fiorita tra Giovanni Falcone e il sottoscritto […] Nelle pagine che
seguono narrerò di alcune imprese edificanti a cui abbiamo partecipato
attivamente, nonché di episodi significativi che hanno rafforzato il nostro
legame in modo indissolubile…”.
Ricorda,
Vespaziani, che tutto cominciò in una calda giornata del 1988; una giornata,
come tante altre, durante la quale il suo lavoro di Presidente dell’ordine
degli Avvocati del Foro di Rieti procedeva regolarmente e nulla lasciava
presagire che una telefonata avrebbe cambiato non solo il corso del giorno ma -
molto più determinatamente - quello della sua stessa vita. All’altro capo del
telefono c’era proprio lui, il paladino
antimafia Giovanni Falcone che, una volta presentatosi, andò direttamente
al dunque proferendo queste parole: “Presidente,
io la devo nominare Difensore di un pentito di mafia, un collaboratore di
giustizia che si trova attualmente nel carcere di Rieti […] Potrebbe anche
delegare un altro avvocato, ma desidero che sia proprio lei a difendere questo
collaboratore”, proseguì.
Non
c’è da sorprendersi se, a tale ascolto, Vespaziani rimase sconvolto. Emozioni
discordanti s’impadronirono della sua persona, preso, come fu, dalla
soddisfazione dell’onore ricevuto ma anche dall’onere che il compito
assegnatogli potesse mettere in pericolo la tranquillità dell’intera sua
famiglia. Rammentò, tuttavia, d’aver giurato che a tutti i costi avrebbe difeso
la legge e la giustizia, e ciò lo indusse ad accettare l’incarico. Solo al
termine della comunicazione telefonica, il magistrato rivelò all’avvocato il
nome del pentito: si trattava di Antonino Calderone, esponente di una nota
famiglia mafiosa di Catania, capeggiata dal fratello maggiore Giuseppe, detto
Pippo.
Seguono
un cospicuo numero di pagine allo stesso Antonino dedicate e un intero capitolo
riguardante la sua testimonianza, opportunamente integrato dalle immagini delle
sue deposizioni e da altri documenti che concernono preziosi frammenti storici,
compresa la corrispondenza fra i due uomini di legge. L’argomento presenta
motivi di sicuro interesse ma non mi soffermerò sugli stessi per dare modo al
lettore di scoprirli da solo. Ciononostante due rivelazioni, che fanno
riflettere, desidero ugualmente riportarle.
La
richiesta del pentito (dopo l’uccisione del fratello) di voler uscire da Cosa
Nostra: istanza puntualmente negata dai Vertici, che lo ritenevano persona
troppo informata e al dentro dell’organizzazione; e la concezione stessa del
mafioso, da non confondersi con il delinquente comune perché superiore al medesimo:
“Noi siamo uomini d’onore - rivela - non tanto perché abbiamo prestato
giuramento, ma perché siamo l’élite della criminalità, siamo peggiori di tutti
[…] Per fare un omicidio non si deve pagare (…) Perché per un uomo d’onore un
omicidio è qualcosa che dà carisma”. Quest’ultima dichiarazione gelò il
sangue nelle vene di Vespaziani, che così scrive: “Ho assistito alla graduale dissoluzione dei principi umani,
all’abbandono della compassione e alla profonda decadenza della moralità.”.
Mi
limito a questi esempi anche perché sollevano (almeno in me è sorta) una
questione d’attualità: “Siamo certi che la Mafia sia ancora tutto questo,
oppure, paradossalmente, abbia subito una degenerazione e anche Cosa Nostra sia
stata, sempre paradossalmente, imbastardita dal crescente potere della logica
del mercato?”. Una domanda che lascio inevasa, ma sulla quale v’invito a
riflettere.
Abbiamo
sinora camminato nelle tenebre di una realtà cruda ed agghiacciante ma è giunto
il momento di guardare all’alba, al sorgere di una speranza che saprà scaldarci
il cuore.
A
darcene l’occasione è il quarto capitolo, quello che, più di ogni altro,
descrive il profondo legame instauratosi tra i due. Sarà Vespaziani stesso a
parlarne: “Ad aver realmente fortificato
il nostro rapporto, e ad avermi fatto crescere sul piano umano, sono stati i
brevi momenti ‘rubati’ in cui mi confrontavo non con Giovanni Falcone, giudice
antimafia, ma con Giovanni Falcone, l’uomo.”.
Sono
episodi comuni quelli che vengono raccontati, non numerosi a causa del poco
tempo libero loro concesso, ma determinanti ai fini della costruzione di una
sicura amicizia, basata su fondamenta di reciproche affinità elettive. Il
ricordo - ad esempio - della caduta, di cui fu protagonista involontario il
Magistrato, diede adito ad una scena comica, tanto ilare quanto istintiva.
Mentre passeggiavano, parlando di lavoro, accadde che Falcone inciampò in una
radice sporgente finendo a terra; la prima reazione dell’avvocato fu quella di
tendergli subito la mano per farlo rialzare ma Falcone era già in piedi. Si
guardarono per un attimo e poi, come presi da qualcosa di contagioso,
scoppiarono a ridere, incuranti di tutto e di tutti. “[…] in quel frangente - afferma Vespaziani - il nostro legame si rafforzò ancora di più […] E nei momenti più drammatici e rischiosi c’erano piccoli ma
significativi scambi di sorrisi, come un segreto condiviso che ci ricordava la
forza indistruttibile della nostra amicizia.”.
Mi
avvio a concludere, non prima però di un’ultima riflessione sui tempi che
stiamo vivendo: il mondo è gravemente ammalato, sotto tutti gli aspetti, e i
soli responsabili siamo noi, gli uomini.
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio ma
sono convinto che libri come questo, che educano al rispetto, all’integrità
morale, al valore dei sentimenti, abbiano molto da insegnare a tutti, non
facendoci dimenticare che siamo qui per essere i custodi - non gli aguzzini -
del migliore e più auspicabile futuro.
Sandro
Angelucci
Tra le ali dell'anima si può nascondere solo l'amore elevato alla purezza più recondita. Guidolin esprime l'amore con passione ora nascosto ora visibile, incubato tra terra e cielo o tra ombre e luce.
RispondiEliminaCi lascia liberi di scegliere con il cuore il nostro cammino senza limiti.
L'articolo di Cinzia offre una chiave di lettura interessante arricchendo la poesia stessa.
Gianna Costa