lunedì 25 agosto 2025

Sandro Angelucci legge :" FALCONE E VESPAZIANI "


 Il testo che oggi presentiamo, ed entra a far parte del panorama di incontri previsti dalla rassegna Tra natura e letteratura, è un libro molto particolare, in considerazione del fatto che - oltre ad essere un’opera letteraria - si dimostra un’autentica e ragguardevole testimonianza storica d’interesse nazionale.

L’autrice, Amalia Mancini, (non nuova a questo genere di scrittura) si occupa questa volta di una vicenda familiare, in quanto tratta della straordinaria collaborazione umana e professionale tra suo zio, l’avvocato Giovanni Vespaziani, e il magistrato Giovanni Falcone.

I fatti sono riportati in prima persona. Ritengo che la scrittrice abbia voluto che fosse così per conferire al suo lavoro i caratteri della immediatezza e della spontaneità. Ossia, piuttosto che fungere da intermediaria, ha - diciamo così - preferito, tra virgolette, farsi da parte e lasciare l’intera scena a suo zio ed alla sua non comune esperienza di vita professionale e, soprattutto, di sincera fratellanza.

Dall’Introduzione: “Il nome di Giovanni Falcone risuona ormai nell’orecchio di tutti […] Alcuni […] si limiteranno a conoscere il suo nome, ma molti altri sapranno indubbiamente che è stato un illustre Magistrato italiano, celebre per la sua incrollabile dedizione (o meglio la sua epica Crociata) contro la mafia. Sfortunatamente, sapranno anche che è stato brutalmente assassinato per mano di Cosa Nostra […] C’è, tuttavia, una storia che non è mai emersa in modo chiaro sui giornali né in televisione: la storia d’amicizia fiorita tra Giovanni Falcone e il sottoscritto […] Nelle pagine che seguono narrerò di alcune imprese edificanti a cui abbiamo partecipato attivamente, nonché di episodi significativi che hanno rafforzato il nostro legame in modo indissolubile…”.

Ricorda, Vespaziani, che tutto cominciò in una calda giornata del 1988; una giornata, come tante altre, durante la quale il suo lavoro di Presidente dell’ordine degli Avvocati del Foro di Rieti procedeva regolarmente e nulla lasciava presagire che una telefonata avrebbe cambiato non solo il corso del giorno ma - molto più determinatamente - quello della sua stessa vita. All’altro capo del telefono c’era proprio lui, il paladino antimafia Giovanni Falcone che, una volta presentatosi, andò direttamente al dunque proferendo queste parole: “Presidente, io la devo nominare Difensore di un pentito di mafia, un collaboratore di giustizia che si trova attualmente nel carcere di Rieti […] Potrebbe anche delegare un altro avvocato, ma desidero che sia proprio lei a difendere questo collaboratore”, proseguì.

Non c’è da sorprendersi se, a tale ascolto, Vespaziani rimase sconvolto. Emozioni discordanti s’impadronirono della sua persona, preso, come fu, dalla soddisfazione dell’onore ricevuto ma anche dall’onere che il compito assegnatogli potesse mettere in pericolo la tranquillità dell’intera sua famiglia. Rammentò, tuttavia, d’aver giurato che a tutti i costi avrebbe difeso la legge e la giustizia, e ciò lo indusse ad accettare l’incarico. Solo al termine della comunicazione telefonica, il magistrato rivelò all’avvocato il nome del pentito: si trattava di Antonino Calderone, esponente di una nota famiglia mafiosa di Catania, capeggiata dal fratello maggiore Giuseppe, detto Pippo.

Seguono un cospicuo numero di pagine allo stesso Antonino dedicate e un intero capitolo riguardante la sua testimonianza, opportunamente integrato dalle immagini delle sue deposizioni e da altri documenti che concernono preziosi frammenti storici, compresa la corrispondenza fra i due uomini di legge. L’argomento presenta motivi di sicuro interesse ma non mi soffermerò sugli stessi per dare modo al lettore di scoprirli da solo. Ciononostante due rivelazioni, che fanno riflettere, desidero ugualmente riportarle.

La richiesta del pentito (dopo l’uccisione del fratello) di voler uscire da Cosa Nostra: istanza puntualmente negata dai Vertici, che lo ritenevano persona troppo informata e al dentro dell’organizzazione; e la concezione stessa del mafioso, da non confondersi con il delinquente comune perché superiore al medesimo: “Noi siamo uomini d’onore - rivela - non tanto perché abbiamo prestato giuramento, ma perché siamo l’élite della criminalità, siamo peggiori di tutti […] Per fare un omicidio non si deve pagare (…) Perché per un uomo d’onore un omicidio è qualcosa che dà carisma”. Quest’ultima dichiarazione gelò il sangue nelle vene di Vespaziani, che così scrive: “Ho assistito alla graduale dissoluzione dei principi umani, all’abbandono della compassione e alla profonda decadenza della moralità.”.

Mi limito a questi esempi anche perché sollevano (almeno in me è sorta) una questione d’attualità: “Siamo certi che la Mafia sia ancora tutto questo, oppure, paradossalmente, abbia subito una degenerazione e anche Cosa Nostra sia stata, sempre paradossalmente, imbastardita dal crescente potere della logica del mercato?”. Una domanda che lascio inevasa, ma sulla quale v’invito a riflettere.

Abbiamo sinora camminato nelle tenebre di una realtà cruda ed agghiacciante ma è giunto il momento di guardare all’alba, al sorgere di una speranza che saprà scaldarci il cuore.

A darcene l’occasione è il quarto capitolo, quello che, più di ogni altro, descrive il profondo legame instauratosi tra i due. Sarà Vespaziani stesso a parlarne: “Ad aver realmente fortificato il nostro rapporto, e ad avermi fatto crescere sul piano umano, sono stati i brevi momenti ‘rubati’ in cui mi confrontavo non con Giovanni Falcone, giudice antimafia, ma con Giovanni Falcone, l’uomo.”.

Sono episodi comuni quelli che vengono raccontati, non numerosi a causa del poco tempo libero loro concesso, ma determinanti ai fini della costruzione di una sicura amicizia, basata su fondamenta di reciproche affinità elettive. Il ricordo - ad esempio - della caduta, di cui fu protagonista involontario il Magistrato, diede adito ad una scena comica, tanto ilare quanto istintiva. Mentre passeggiavano, parlando di lavoro, accadde che Falcone inciampò in una radice sporgente finendo a terra; la prima reazione dell’avvocato fu quella di tendergli subito la mano per farlo rialzare ma Falcone era già in piedi. Si guardarono per un attimo e poi, come presi da qualcosa di contagioso, scoppiarono a ridere, incuranti di tutto e di tutti. “[…] in quel frangente - afferma Vespaziani - il nostro legame si rafforzò ancora di più […] E nei momenti più drammatici e rischiosi c’erano piccoli ma significativi scambi di sorrisi, come un segreto condiviso che ci ricordava la forza indistruttibile della nostra amicizia.”.

Mi avvio a concludere, non prima però di un’ultima riflessione sui tempi che stiamo vivendo: il mondo è gravemente ammalato, sotto tutti gli aspetti, e i soli responsabili siamo noi, gli uomini.

 Non voglio fare di tutta l’erba un fascio ma sono convinto che libri come questo, che educano al rispetto, all’integrità morale, al valore dei sentimenti, abbiano molto da insegnare a tutti, non facendoci dimenticare che siamo qui per essere i custodi - non gli aguzzini - del migliore e più auspicabile futuro.

 

 

Sandro Angelucci   

    

1 commento:

  1. Tra le ali dell'anima si può nascondere solo l'amore elevato alla purezza più recondita. Guidolin esprime l'amore con passione ora nascosto ora visibile, incubato tra terra e cielo o tra ombre e luce.
    Ci lascia liberi di scegliere con il cuore il nostro cammino senza limiti.
    L'articolo di Cinzia offre una chiave di lettura interessante arricchendo la poesia stessa.
    Gianna Costa

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