Nazario
Pardini:
L’azzardo dei confini, BooK Sprint Ed., 2011
Il testo, ripartito in quattro sezioni, Ombre (40 poesie), Elegie Pisane (32), Dialoghi (3), Canti Larigiani
(28), spinge a
riflettere sulla capacità di rapportarsi con le più svariate dimensioni del
nostro essere: presente-passato, amore- sofferenza, sogno- aspettativa. E’ un
susseguirsi di emozioni e sentimenti proposti in un tono apparentemente
colloquiale, ma incisivo, ammaliante e coinvolgente per una discreta pensosità
inquieta, gli accostamenti ossimorici , le scelte metriche ,le reminiscenze
classiche e non.
L’inquietudine dell’essere spinge l’autore a cercare una
“fetta di mistero/tra il silenzio degli olivi” e montalianamente “quasi quasi …
sembra di carpire/la debolezza del cielo,/l’errore umano commesso dal divino”.
Quel silenzio traduce “quanto l’ombre degli uomini/ si allunghino all’umano
degli dei”. La bellezza fa tracimare sì che si diventa “tassello di un
costrutto/che assorbe il tutto” .L’anima si inebria, ma per poco, perché
ritorna presto a bussare la coscienza dell’esistere. Il panta rei eracliteo nel
gorgoglio dell’acqua del fiume “non tiene il presente” e l’assillo delle stagioni è parte del mistero.
La speranza è che ogni sogno “si farà /concretezza di luce” e che sia “L’amore per ciò che Tu hai creato
preparazione /all’infinita grandezza della luce”, “Uno squarcio nel cielo / per
andare ben oltre”. E questa speranza evidenzia
la scelta del titolo della
raccolta. Alle liriche in cui
pressante si denota il desiderio di luce
che si concretizzi si alternano quelle dedicate ai giorni trascorsi e si
nota il rimpianto di parole non dette
,di carezze mancate che rimandano a un passato in cui le “labbra sono serrate
come pietre”, a una gioventù che “giocava con gli avanzi della guerra”. Il
passato costante bussa al cuore e riporta “la sorpresa di un nido tra i
filari”, l’infuso di marina e tamerici, lo zefiro che ha” lisciato i grani dei
miei campi”. Pare essere lì ad ascoltare “pigolare i neonati/tra le pagliuzze
che inchiodano i miei sguardi”. S’incanta il lettore, portato per mano, tra i
rami che “schiudono spazi” , “ l’afrore
di vendemmie” , “il brulichio di fascine arse alle vigne”. Al “da mi basia mille”
di Catullo l’autore contrappone “parole”
per “vincere il mondo e la vita”,” “la solita attenzione nel porgere le cose”
per restare “prigioniero sempre più del tuo respiro”. Un che di panico si
coglie nel desiderio che i capelli si trasformino in “distese di grani che
s’increspano /al respiro di giugno” per non perire, ma “verdeggiare di nuovo
sugli alberi”.
Le foglie di Mimnermo
qui acquistano un colore e valore oltre; sono foglie “arrugginite” in un
“autunno malaticcio e mortale” e una in particolare giace “secca sul viale/che
tiene ancora in seno /il calpestio leggero del tuo piede” sì che i rami “quasi
spogli sono della vita”. In un’altra lirica : “Il pianto dell’autunno /sulle
sue foglie matide /è come melodia di un cielo muto/ nella mia anima zuppa
d’autunno. ” In un frammento rappresentano:“ spersi a terra/ i sogni verdi/
della primavera”.
L’autunno ,i tramonti
come novembre sono indizio di ciò che volge al termine: “Andiamo incontro a
quei tramonti/che gridano la sorte”.” Mi vedo stagione /che lascia alla
corrente /l’ultimo verde delle sue memorie”. Se da un canto la Natura spinge il
Nostro pensosamente ad affermare : “quanto è
eguale /alla mia solitudine il tuo abbandono” dall’altro prorompente la
natura-vita, di contro al volto del mese dei morti da “ trista gramaglia”, si
perpetua ben “oltre l’oscuro di una terra nera” e “contraddice la morte con lo
sforzo/del caco che si ammanta di Natale”. La sua magia si esplicita nei
paesaggi del cuore come quello terso di
Marina di Pisa : “si rispecchia /in fondo al mare l’iride del cielo”. Lo stesso
mare è “clessidra della vita”.
La memoria diventa
amica, perché permette di “cancellare solitudini” .Una serie di assenze
costellano la vita: il fratello -“ora l’amo/come si amano gli assenti”, Delia
-“nascosta tra le rughe del cuore”, “Facciamo d’ogni tempo primavera”, Laura-
“l’immagine immutabile di un tempo”, il padre -“mio padre mi avvicinava alla
vita dei campi”, “la tua immagine è sul marmo/consunto dai tramonti”, la madre
-“lesta alle brine mattutine” .Le assenze sono in parte colmate dal ricordo
di gesti
che annullano il tempo e lo spazio e rimandano a un dove il cielo
mascheri “ il senso della notte”.
Resta un privilegio “avvicinarsi il più possibile/a ciò ch’è
inarrivabile”. Lo stesso Ulisse rifiutò
“spazi divini/per ambire al mistero di un mortale” e la grandezza
di Pardini come di Ulisse risiede nel “bramare”, con una serenità che
sconcerta, “un’immensità che ti rapina”.
Luisa
Martiniello
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