RICORDO DI UN AMICO
Testimonianza di Paolo Bassani
Sabato 6 luglio 2013 si terrà il 34° incontro dei "Ragazzi del '55", un appuntamento annuale, curato da Dario Bello, con i ragazzi che, oltre mezzo secolo fa, frequentavano l'oratorio di San Bernardo alla Chiappa, che aveva come assistente ecclesiastico, don Luciano Ratti, divenuto poi monsignore e vicario generale della diocesi della Spezia – Sarzana – Bugnato. Dal 1979, data del primo incontro, i "ragazzi" d'allora si ritrovano ogni anno per trascorrere una giornata insieme all'insegna dei valori dell'amicizia che ha contraddistinto la loro giovinezza e che vive oltre le stagioni e il tempo.
La manifestazione si inizia alle ore 11,00 nella chiesa di San Bernardo, con la Messa in ricordo di don Luciano e degli amici scomparsi.
Anch’io, come ogni “Ragazzo del ‘55”, custodisco un gradito ricordo del tempo vissuto negli anni della giovinezza, all’insegna di quei valori cresciuti nella comunità dell’oratorio grazie all’opera di don Luciano. Per questo, interpretando anche un comune desiderio, ho pensato di pubblicare su “Alla volta di Leucade” la mia testimonianza. Innumerevoli sono i momenti che hanno lasciato traccia nella memoria. Vorrei ricordarne tre che si sono succeduti nel tempo e che, in qualche modo, più d’altri segnano il percorso.
Il primo ha una data ben precisa: 2 gennaio 1978 . E’ la lettera che don Luciano mi scrisse quando uscì il mio primo libro di poesie. Ne voglio riportare un breve passo: “Caro Paolo, ho letto “Immagini e fremiti”; mi complimento vivamente e auguro di tutto cuore il più grande successo.
Rinnovo il ringraziamento di avermi fatto dono delle tue poesie e Ti confesso di aver provato un pizzico di orgoglio, domenica 18 dicembre u.s. durante la premiazione in Gaggiola, averti vicino e poter parlare del libro.” Confesso che quelle parole mi hanno gratificato più della vittoria di un concorso letterario (invero, allora la mia poesia non aveva ancora ricevuto alcun premio).
Anche il secondo momento ha una data ben precisa: domenica 28 settembre 1997 . E’ l’articolo scritto da don Luciano su “Spezia sette”, la pagina di Avvenire, in occasione del riconoscimento ricevuto dal mio libro “Lungo la via Francigena”. Anche in questo caso desidero riportare un breve passo del suo scritto: “…La raccolta si apre con “Il tempio della vita”, poesia dedicata alla madre Esterina Cosci a quarant’anni dalla morte: le esequie si tennero il 13 settembre 19 57, lo stesso giorno in cui il figlio, 40 anni dopo, avrebbe colto questo importante alloro poetico. Semplice coincidenza? Chi crede sa che nulla capita a caso: per coloro il cui orizzonte non si limita all’ “hic et nunc”, vita e morte non sono così separate e lontane.”
Il terzo momento si colloca qualche giorno prima della dipartita di don Luciano. Ero andato a trovarlo presso l’”Alma Mater” ove era ricoverato, assistito amorevolmente dal cugino Piero.
Che cosa potevo mai dire a don Luciano, lucido e cosciente del suo stato? La poesia, ancora una volta, mi venne in aiuto. “In questi giorni –dissi- ho messo ordine nel mio archivio. Ho ritrovato le poesie apparse negli anni su “eks” (la pubblicazione a cura degli ex ragazzi della Chiappa 1955). Voglio riunirle in un libro. Caro don Luciano, grazie per tutto quello che è stato fatto per la mia poesia. Grazie. Ora, però, vorrei ancora qualcosa: la benedizione. Nel volto di don Luciano, segnato dalla sofferenza, comparve un lieve sorriso, come se le nubi della tempesta si fossero aperte lasciando trasparire un frammento di sereno. Mi inginocchiai davanti al suo letto e chinai il capo. La voce di don Luciano riprese vigore e innalzò la sua benedizione. Custodisco nella mente e nel cuore quel momento, come il ricordo di una luce apparsa nel buio della notte.
PRIMAVERA ALLA CHIAPPA
Giovane prete allora
tu venisti tra noi
ragazzi del cinquantacinque.
Il nostro entusiasmo
fu tuo e la speranza
già nell'aria s'avvertiva
- primavera di mare -
in te, in noi,
stagione ricca di promesse.
Già nel primo albore
un nuovo giorno s'annunciava:
anche noi sentivamo crescere,
ardere nel cuore il desiderio
del grande Papa del Concilio,
là, nel vecchio sobborgo della Chiappa,
quasi cinquant'anni fa.
Passa la vita,
vanno le stagioni
ma un giorno tornerà.
Sarà bello ancora ritrovarsi
tutti insieme come allora:
tu, giovane prete,
e noi, ragazzi del cinquantacinque.
Paolo Bassani
LE FOGLIE
DEI CASTAGNI
Pagina della memoria
di Paolo Bassani
Castagni
Grossi: questo il nome di una località sperduta tra i monti di Caprigliola; una
zona immersa nei boschi sul versante sinistro della Valle dei Mulini, di fronte
al monte Grosso. Qui la nostra famiglia, unitamente ad altre due di parenti
sfollati dalla Spezia, trovò generosa ospitalità presso la cascina dello zio
Ermanno. Qui ho vissuto i primi anni della mia vita e, di allora, nonostante la
mia giovanissima età, custodisco ancor oggi stampate per sempre nella memoria
immagini freschissime. La cascina sorgeva a ridosso del monte, al limitare di
un fitto bosco di castagni che danno appunto nome alla località. Tutto intorno
piane coltivate, olivi e vigne in pergole e filari. Il complesso rurale si
componeva di un vecchio casolare che ospitava l’abitazione e le cantine con
accanto una grande loggia ombreggiata da un fitto pergolato. Più distante il
fienile, le stalle, il seccatoio con innanzi una piana dove era il pagliaio.
Qui ho vissuto tutto il periodo della guerra; qui si è instaurato in me un
profondo legame affettivo con la natura e con la mia gente contadina. Ricordare
quei tempi e il modo di vita di allora mi pare utile soprattutto per i giovani
che ignorano quasi completamente le vicende d’allora. Ai giovani rivolgo dunque
questi frammenti di ricordi; e, tuttavia, anche ai miei coetanei o più anziani
che forse troveranno in queste parole qualcosa della loro esistenza.
Voglio
innanzitutto ricordare quel caro vecchio casolare che ci ospitò, oggi mezzo
diroccato e scomparso nella macchia, come sono purtroppo ormai scomparsi molti
dei protagonisti della mia storia. La casa aveva davanti un’aia di mattoni, una
meridiana solare al muro vicino al grande uscio verde che immetteva direttamente
in cucina; il tetto a coppi e poche minute finestre senza imposte. La porta di
ingresso aveva il passagatto: il pertugio che appunto consentiva al gatto di
entrare ed uscire liberamente dalla casa. La presenza del gatto era familiare
nella realtà contadina. A Caprigliola esiste tuttora un casolare che si chiama “Cà
dl gato”. Anche da noi il gatto si trovava spesso seduto sulla soglia e,
quando nell’inverno si chiudeva la porta, era accovacciato nell’angolo vicino
al focolare, mentre noi bambini seduti sulla grande cassapanca stuzzicavamo il
fuoco sognando alle storie degli anziani.
Il fuoco. Il fuoco era
sempre acceso come nel tempio di Vesta; forse perché la legna abbondava – a
dispetto dei fiammiferi (zolfanelli) che erano abbastanza rari; o piuttosto
perché doveva servire alla comunità di quattro famiglie che avevano la cucina
in comune abitazione. Il grosso nero gorgogliante paiolo era un po’ il simbolo
di questa costante attività e su questo paiolo noi bambini avevamo una sorta di
diritto alla raschiatura, quando era svuotato dalla polenta. Mi ricordo che
dividevamo le pareti in quattro parti e ognuno prendeva possesso del proprio
spazio raschiando con estrema diligenza la polenta rimasta attaccata. La
polenta: piatto forte della cucina contadina. Dorata e fumante, la rivedo sulla
mastra mentre lo zio con il filo (refo) la tagliava. Com’era buona condita con
l’olio d’oliva e con una spolverata di formaggio! A volte, in alternativa, si
variava con la polenta dolce (farina di castagne e latte), con la pattona (una
specie di castagnaccio povero, senza pinoli e uva secca) cotta su foglie di
castagno. Granturco e castagne erano in quel tempo la base della nostra
alimentazione e molteplice l’utilizzo: così le pannocchie di granturco erano
arrostite sulla brace, così le castagne bollite con l’allora (i baleti) o
arrostite nella padella coi fori (le mondine). In momenti eccezionali c’era
anche il pane nero, ma per poco: la cassa rimaneva ben presto vuota. E allora
mi ricordo che scandivamo il ritornello. “Cucù, cucù? N’ tla cassa n’ ghe ne
pù”. Un altro piatto comune erano i panigazzi, che poi sarebbero diventati
italianizzandosi “panigacci” o testaroli. Spesso i testi, uno sull’altro,
crescevano a dismisura assumendo la forma di una torre in miniatura, a volte
come quella di Pisa “che pende, che pende e mai viene giù”: così diceva un
motivo cantato in quegli anni. Ma un giorno la pila dei testi si rovesciò e uno
volle lasciarmi su un piede il suo ricordo.
Per noi bambini poi c’era quasi sempre il latte quotidiano,
grazie alla generosità della mucca che pareva anch’essa molto sensibile ai
problemi dell’emergenza alimentare. Ma la mucca era anche utilizzata per
trascinare la treggia (la bena): quella sorta di slitta con vimini
intrecciati su due assi di legno che serviva per il trasporto del fieno e, a
volte, anche di noi bambini.
Nella fattoria c’erano però anche altri animali: alcune
pecore, il maiale e numerose galline, che durante il giorno ne andavano in giro
per i campi e a sera puntualmente rientravano al pollaio. C’era anche
Chiappino, un grosso cane che faceva buona guardia; un cane senza nobiltà di
razza, ma eccezionale, legatissimo a tutti noi. Un giorno tornò a casa con una
formaggetta intera ancora avvolta nella carta e intatta ce la depose ai piedi.
Chissà dove l’aveva trovata.
Rapide
sequenze scorrono nella memoria riportando profumi e sensazioni: la fragranza
del pane appena sfornato, l’aroma della crepitante fiamma d’olivo, la fioca
luce del lume ad olio appeso alla trave e le ombre lunghe proiettate sui muri;
il mortaio di marmo per pestare il sale, le teglie appese alla parete, il
secchio con l’acqua e la mestola di rame. Ma anche gravi sequenze hanno
impressionato la giovane lastra della memoria: i tedeschi che perquisiscono la
casa, le armi puntate, le colonne che salgono il sentiero del monte portandosi
via uomini rastrellati in un sordo angoscioso rumore di passi. Fredde sequenze,
taglienti come il vento d’inverno che scende dal monte Grosso, ululando nella
notte tra i pini della costa e tormentando gli olivi.
AI CASTAGNI
A voi
ritorno, amici miei castagni,
in questo
afoso giorno dell'estate.
La
nostalgia d'un tempo mi sospinge
alla magica
terra dell'infanzia.
Allora voi
placaste la mia fame.
S'aprivano
le ricce come scrigni:
generose e
lucenti le castagne
furono il
nostro pane quotidiano.
Non ho più
fame, ma solo sete adesso.
Con le
foglie preparerò il bicchiere,
ché l'acqua
pura dell'antica fonte
possa
spegnermi in cuore quest'arsura.
Ho tanta
sete d'alba e di rugiada.
Voi solo
ormai serbate di quegli anni
liete
stagioni e giorni spensierati,
dolcezza di
profumi e di memorie.
Datemi
ancora un poco di quel tempo!
E quando
stanco poserò il mio passo,
non
cercherò ombra cupa di cipressi
ma il vostro fresco, tenero di verde.
Paolo
Bassani
Una poesia molto delicata che parla della scienza della natura, dell'opera dei castagni e bei ricordi dell'infanzia.
RispondiEliminaCiao