Nota recensiva
a
Umberto Cerio: Antigone (inedito)
Antefatto
Laio,
re di Tebe, ordina che il figlioletto, appena partorito dalla moglie Giocasta,
venga sperduto in un bosco, perché l’oracolo ha predetto che sarebbe stato
causa di sventure. Forba, pastore del re di Corinto, lo rifugia nella sua capanna.
E la sua regina, senza figli, lo vuole e lo fa regalmente educare. Il bambino, Edipo,
ormai grande, consulta l’oracolo e viene a sapere di essere destinato a
commettere delitti orrendi. Per questo si allontana da Corinto. Questa sua fuga
lo porta ad offendere il padre senza volerlo. Giunto a Tebe, incontra la Sfinge
che desolava da tempo la città proponendo ai passeggeri di risolvere enigmi suggeriti
dalle Muse. Edipo risolve l’enigma e libera i Tebani dal mostro. Viene così proclamato
re di Tebe ed ha due figli, Eteocle e Polinice, e due figlie, Antigone e
Ismene. Anni dopo Tebe è devastata da una terribile pestilenza e l’oracolo
profetizza che le sventure dei Tebani non sarebbero terminate se non dopo
l’esilio di chi aveva cagionato la rovina della famiglia di Laio. Edipo scopre di
essere la causa dei tanti guai dei genitori ed del paese. Allora, non potendo
più sostenere la vista del sole e degli uomini, si acceca con le sue mani. I figlioli
più scellerati di lui lo cacciano da Tebe. Ed egli, povero, ramingo, e cieco
non ha altro sostegno, altra guida che la giovinetta Antigone. Con la memoria
di lei gli antichi ci hanno tramandato il più commovente esempio di pietas filiale.
Dopo tanto peregrinare giunge in un borgo dell’Attica chiamato Colono e si
ferma in un bosco sacro alle Eumenidi, sotto il cui nome venivano onorate le
Furie, degne ospiti di un uomo perseguitato dal destino. Creonte, uomo pessimo,
insulta Edipo, e le sue sventure; gli rimprovera la vita raminga che fa
condurre alla figlia (esemplare questo
passaggio nella tragedia di Niccolini).
Uscito poi dal bosco Edipo viene condotto
ad Atene, ove Teseo lo riceve umanamente. E infine il tuono di Giove gli
annuncia la sua prossima fine. Antigone, modello d’amor filiale, rimane in vita
per dare nuovo esempio d’amore fraterno…
Analisi
Due i
quadri poetici che Umberto Cerio ci propone con grande forza emotiva, sorretti da un dire ricco di metafore, anastrofi, e figure allusive d’impatto rievocativo. E
la novità del brano sta tutta nell’attualizzazione psicologica, tragica, ed
estremamente umana di Antigone. Nella prima parte tutti i fondamentali della
tragedia greca: il fato, la persecuzione, la morte, il dolore, il sacrificio
dell’innocenza, e persino, qui in Cerio, l’accenno al coro (nella tragedia
greca vero attore nella trama del dramma).
Antigone
è rappresentata nella sua totale missione di aiuto fisico e spirituale al padre cieco e solitario. Nel secondo quadro Antigone è donna
dei nostri giorni “che si uccide senza amore e senza odio,/ che non conosce
sogni,/ ma che fascino sa di ribellione”.
Poemetto
di grande intensità emotiva, con gli ingredienti di una tragedia condensata sui
due personaggi principali: Edipo e Antigone. Il tutto trasferito, soprattutto
nelle vicissitudini femminili della figlia, ai nostri giorni, spesso, convulsi
e caotici; tempi che non tengono conto del singolo, delle sue difficoltà
d’inserimento o di adattamento ad un mondo che sommerge, che annulla, omologa.
Dove il dolore, lo spaesamento, la tristezza, l’autoflagellazione prendono il
sopravvento, quasi come condanna fatale, per farci assistere alle tante
tragedie di cui è disseminata la nostra società. Attualizzazione e contestualizzazione
di un pathos di figlia e di donna. Il
linguaggio di alto spessore etimo-lirico corrisponde con adesione scrupolosa
agli intenti emozionali dell’opera. La parola è studiata, lavorata, cercata,
misurata, adattata anche con azzardi neologici, alla sua funzione essenzialmente
poetica; perché, alla fine, è la parola il tutto. E’ questo suono, questo segno,
questo involucro, come afferma il De Sanctis, a racchiudere in sé significato, significante,
figure allusive, e spinte creative. E qui la parola è presente con tutta la sua
energia a trasmetterci l’intensità di una triste avventura mitologica, che, spogliata
dei suoi fondamentali fantastici, si fa prova di un presente estremamente reale
e tragico. Antigone è ritrattata nel suo sacrificale ruolo di figlia; come
emblema di pietas filiale; e si completa
in una fusione totale con il personaggio padre che, se si vuole, è innocente. Un
padre che ha commesso orrendi misfatti, sì, ma senza l’apporto determinante del
libero arbitrio. Solo pedina di un destino programmato fin dalla sua nascita. O
prima ancora che nascesse. Ma è nella seconda parte del poema che l’artista
riesce evidenziare grandi capacità di rielaborazione e di completamento, anche
se in visione piuttosto pessimistica, della donna Antigone che soffre tutti i
malanni del suo essere donna. Poemetto compatto, studiato con attenzione, e con
ottima distribuzione di fatti, finalizzati ad un'analisi psicologica perspicace
dell’animo dei personaggi. Qui Cerio si misura con se stesso e con tutte le sue
abilità di scrittore, di poeta, e perché no, di filosofo, anche, per il metodo
e la razionalità con cui il poema è condotto. Una razionalità che sa arginare e
contenere la tracimazione di sentimenti troppo forti nei momenti più tragici
della vicenda. Insomma, qui, l’autore, con l’apporto di una convincente tecnica
di scrittura, sostanziata da un nutrito bagaglio culturale, che, decantato in
animo, si è fatto nuovo, ci presenta una storia avvincente e coinvolgente per
vibrazioni umane e per connaturata predisposizione a invischiarci nei meandri complicati
della contemporaneità: “Anche
tu, anche tu, Antigone d’oggi/ che non credi nell’Ade,/ che triste andrai
nella terra dei morti,/ che vivi la tempesta/ delle moderne metropoli assurde/
nei veleni di asfalto/ che turba solitudine d’anima/ - anche qui tua folle
clessidra -/ ed esiste nel vento di una notte”.
Nazario Pardini 30/04/2013
ANTIGONE
(1)
Risollevi il
tuo volto,
gli occhi ricoperti della polvere
sparsa dalla tua mano
tesa ancora sulla corda che stringe
l’ultimo tuo respiro
- la notte della tua solitudine -
e il tuo anatema contro Creonte.
Non basta la sua atroce follia
a cancellare l’immane tua forza
e l’immenso furore
che l’anima ti scuote
più forte delle tempeste del mare.
Spine del
tuo giardino,
- polvere per gli occhi di Polinice -
dove sognavi le rose più rosse
- e il sangue dei fratelli
rosso come quelle rose mai colte.-
Spine nel tuo sangue
di anima presaga della cascata
di dolore nella tua stessa casa
e nella reggia del folle Creonte
(e come nella casa di Làbdaco)
che tradisce la legge
non scritta degli Avi e degli Dei.
Sa, Creonte, che altro sangue versato
-e copioso - sarà nella sua casa?
Oh! Antigone
dolce,
la tua ribellione, pur giusta,
ti opprime e ti annienta.
È il destino dei giusti.
È il sonno della ragione
come le Erinni insediato nella Reggia
che era stata di Edipo
che con te ha espiato l’insaputa
sua terribile colpa
per le strade di Colono non viste.
Polvere sugli
occhi di Polinice,
e sentisti il sapore
della morte e l’acre graffio del rovo.
Ed ancora polvere
cosparsa sul corpo di Polinice
e avesti certezza della tua morte.
E vedesti la tomba
dove hai trovato la corda fatale.
Che pensi, o
Antigone?
La sfida a Creonte è decisa.
Il fiero tuo cuore non trema.
Presto verrà la notte sui tuoi occhi.
L’oro dei tuoi monili
più non risplenderà al sole.
Sarà freddo il tuo corpo
sul quale Emone verserà il suo sangue.
Il rosso che
vedevi
- sarà vera condanna per Creonte -
sconvolgerà la tua tunica bianca.
Già nella mente armeggi
strumenti di rovina e di morte
ed ascolti il battito
della solitudine del tuo cuore.
Ma spezzi la
catena
dell’assurda protervia di Creonte,
e sai la tua vittoria
nel silenzio eterno dei secoli.
E vuoto vedi
il tuo letto di sposa
promessa, ed Ismene abbandonata,
d’Emone il suicidio per il dolore
dell’abbandono, che perde i suoi sogni
per il tuo gesto da lui non compreso.
Anche
il coro ti lascia
nella tua solitudine immensa
e sai che tremerai
solo un momento prima della fine.
Solo un momento, e poi
l’indomito tuo cuore
sarà tempesta su tutta la Reggia.
Sarai come
una foglia
di acciaio che oscilla al vento leggero
di aprile, alla luce
di un giorno infinito nel tempo
delle umane sventure
e dell’eterno silenzio degli astri.
Sei la
terra, sei il cielo degli Dei
sulla terra, e sei la legge antica
degli Avi, sei la forza
che piegherà del tiranno l’orgoglio.
E sei
l’eterna vita, il sangue
che fa libero il mondo
che ora dorme il sonno della ragione.
(2)
Ed oggi sei
la donna
che si uccide senza amore e senz’odio,
che non conosce sogni,
ma che fascino sa di ribellione.
E non hai un
solo tiranno
che infelice ti opprime,
hai molti tiranni, hai contro la vita,
e ti suicidi togliendoti il sangue,
un poco ogni giorno
e l’angoscia si perde in ognuno
nel tempo più breve che la memoria
consente e porta in oblio volontario.
Sei
l’Antigone d’oggi
che riconoscere più non sappiamo,
- la guasta clessidra impazzita -
ma la tua atroce solitudine
è la nostra solitudine amara.
Il tuo delirio è il nostro delirio.
Questo ci offre ogni giorno la vita.
Ma noi non
sappiamo
se la nostra tempesta dell’anima
distruggerà mai un Creonte,
com’era nella Tebe
dei Labdàcidi nella tragica tomba.
La tua
disperazione
è la nostra disperata impotenza
che distrugge i nostri sogni in un giorno,
che luce attende ridata alla notte.
La tua
forte ribellione, ed amara,
è la nostra disperata sconfitta,
ma è tremenda condanna
dei miseri ritenuti potenti.
Sei fragile
tempesta
di guerrieri fantasmi senza scudo,
ribelli senza un pugno di cenere
da spargere sugli occhi
di morti eroi senza gloria né patria
che inseguono un Creonte
che oggi non ha dignità di tiranno.
Anche tu hai
Ismene
da abbandonare sola in altra Tebe,
il delitto di Laio,
un altro Edipo ed un’altra Giocasta.
Maledire la
stirpe,
uccidersi per mancanza d’amore,
-per i debiti assurdi della vita-,
percorrere strade deserte
nel tramonto del giorno senza sogni,
-per le tue speranze tradite-
anche per te cascate di dolore,
un Làbdaco dalle carni strappate,
una pietra che raccolga il tuo corpo,
tre pugni di cenere
che ricopra i tuoi occhi ed il tuo cuore
e nel buio di una notte profonda
vedere nell’Ade l’ombra dei morti.
Il gelo
della morte
ghermisce il tuo giovane corpo
e chiude le tue speranze d’amore,
la tua inconsolabile amarezza.
Ma l’anima tua sarà salva
senza vagare in eterno nel buio.
Andrà nei
sentieri dell’Ade
negli angoli bigi tra mute ombre
e lividi silenzi
di attese di anime sconosciute
per avere una scintilla di vita,
una tregua senza tempo e senza memorie
di esistenza su nel mondo dei vivi.
Anche
tu, anche tu, Antigone d’oggi
che non credi nell’Ade,
che triste andrai nella terra dei morti,
che vivi la tempesta
delle moderne metropoli assurde
nei veleni di asfalto
che turba solitudine d’anima
- anche qui tua folle clessidra -
ed esiste nel vento di una notte.
Anche qui,
dove tua triste bufera
agita anime altre
e si placa senza vera ragione
è il tempo dell’attesa,
dell’ansia, - e il tormento che si fa
carne. -
E non c’è
più il prima
né il dopo per il tuo cielo perduto.
E non c’è più la storia
d’anima della tua disperazione.
È lo sgomento del buio del nulla.
Umberto Cerio
Antigone incorre nel sacrificio estremo e muore. Gli dei renderanno omaggio al suo gesto eroico e Creonte rimpiangerà amaramente di non aver rispettato le leggi divine, perdendo a sua volta, moglie e figlio. La battaglia morale è vinta, ma Antigone soccombe. Anche ai giorni nostri possiamo sicuramente trarre un insegnamento da questo conflitto tra pietas e nomos, tra legge non scritta ma divina e legge scritta ma umana? Un interrogativo che nell'analisi di Pardini lascia spazio ad ampie riflessioni non affatto banali. Matteo
RispondiEliminaL'Antigone di Umberto Cerio, come dice il Prof. Nazario Pardini, nelle sue note critiche è anche donna dei nostri tempi: decisa, indipendente/che non conosce sogni ma che fascino sa di ribellione/ Una donna dei nostri tempi che purtroppo, nelle croniche di questi giorni, è spesso vittima di maltrattamenti, aggressioni anche da parte dei propri mariti, fidanzati o persone che si rivelano istintivamente brutali fino al punto di assassinare le proprie compagne. Leggendo questa poesia che ad un certo punto dice: E' il sonno della ragione/come le Erinni insediano nella Reggia che era stata di Edipo/che con te ha espiato l'insaputa sua terribile colpa/per le strade di Colono non viste/ Credo, sarebbe davvero un' opera meritoria ponderare a fondo e con serietà questi problemi per vederli nella loro veridicità storica oltre che mitologica. Infatti si avrebbe veramente utile collaborazione dei sessi, nella vita quotidiana, quando davvero tutte e due le parti fossero consce, delle proprie doti e limitazioni e ne sapessero dedurre le conseguenze pratiche. Quando le rispettive caratteristiche maschili e femminili saranno pienamente sviluppate , allora credo, sarà possibile raggiunge la massima somiglianza così che la comune vita terrena possa compenetrarsi con la vita divina. Cari saluti.
RispondiEliminaUna sapiente analisi. Brava. Ciao
EliminaLa prima emozione viene al lettore dal linguaggio, soprattutto sotto il profilo tonale: pacato, serio,intriso di pietas, segnato da echi e risonanze. Scolpito, di tanto in tanto, da settenari che frenano e quasi dominano l’onda dei sentimenti, la riducono entro i binari di una consapevolezza epico-tragica, perfusa di un pathos assolutamente corale: perché tutto il testo riporta, in fitto ideale dialogo, alla solennità dei cori delle tragedie greche, anche se invero non vi sono barriere spazio-temporali per un personaggio come quello di Antigone, drammaticamente solitario nel contesto in cui vive il suo doloroso amore di figlia e sorella, e proprio per questo indiscutibilmente attuale e proteso fino ai bordi di ogni epoca futura.
RispondiEliminaQui in ogni verso si coglie la partecipe e sofferta presenza dell’io poetante, che sceglie il registro del cuore profondo e vi intinge la penna.
Pasquale Balestriere