IL
MITO VIVO
Racconti di Maria Grazia Ferraris
di Franco Campegiani collaboratore di Lèucade
Una gradita sorpresa le Storie fantastiche di Maria Grazia
Ferraris (ETS Edizioni, 2015), recentemente avute in dono dalla scrittrice, con
l'aggiunta de Il viaggio di Penelope,
tratto da Il croconsuelo ed altri
racconti sempre del 2015. La scrittrice trae ispirazione indistintamente
dalla storia e dal mito, ma in ogni caso il suo narrare è un faro puntato sulla
vita. Il vissuto viene messo a
confronto con il mitizzato, con il favoleggiato, ed è sempre il primo
termine ad avere la meglio, ad essere favorito. Tutti i personaggi cercano
con forza di uscire dal mito, inteso come stereotipo, come cliché di ruoli schematici e comportamenti rigidi, convenzionali, cristallizzati.
Così accade a Adalberto, monaco benedettino ed
eccellente amanuense, nel convento medievale di Voltorre, quando si accorge di
un errore di trascrizione (calamo al
posto di talamo) e tenta di
correggerlo. Gli appare, in lacrime, il diavoletto Titivillus, collaboratore di
Belfagor, adibito a trarre i copisti in errore, e la visione lo aiuta a
riflettere sulla grande importanza dell'errore. L'ironica e dissacrante
riflessione conduce il monaco a liberarsi dell'intolleranza che sempre induce a
separare la perfezione dall'imperfezione, e in senso più lato il bene dal male.
Un manicheismo che blocca e non aiuta l'evoluzione coscienziale. "Sbagliando
s'impara", dice il proverbio, ed è vero: senza l'errore, la verità non
appare.
In un altro racconto, vediamo Cassandra giungere
a Micene al seguito di Agamennone che sta tornando da Troia, vittorioso. Clitennestra
lo attende con gelidi occhi insieme al pavido Egisto, in attesa della vendetta
fatale. Nel suo lungo monologo, la profetessa condanna il re per il male che ha
fatto a sua moglie, ed anche per aver approfittato di lei. Proprio di lei che
aveva rifiutato l'amplesso di Apollo ed era stata condannata dal dio ad essere
inascoltata per sempre. Violenza chiama violenza, e nella vendetta della regina
la stessa Cassandra viene coinvolta e assassinata. Lei, da veggente qual'era,
sapeva che sarebbe accaduto e tuttavia non riesce a liberarsi del destino segnato.
E' bloccata nel mito con quel ruolo preciso, con quella parte da recitare
assegnata. Non può assolutamente essere una donna normale. Tutta colpa del dono
che vorrebbe non avere avuto mai.
Penelope è altrettanto stanca del proprio
destino: "Giorno verrà in cui anche noi donne ci libereremo dalle angustie
e dai timori. Alla pari di voialtri eroi, che brandite il ferro e sognate
l'alloro, ci ergeremo contro il destino. Sfidandolo, come del resto abbiamo
sempre fatto senza che ci fosse mai dato alcun riconoscimento". Al
contrario, dice Penelope, "Gli uomini partono, come se fosse un grande
gioco, una gara, immemori di ogni cosa, a soddisfare i loro orgogli e la loro
sete d'avventura, ammantandola con grandi valori, il sacro principio della
giustizia e della indiscutibile volontà degli dei". Gli uomini si
costruiscono gabbie illusorie, mentre le donne vorrebbero liberarsi delle
proprie. Mitizzazione e demitizzazione: si ha a che fare con queste categorie
mentali.
Guardando il suo uomo, Penelope pensa:
"Quest'uomo che non sa più cos'è la verità, che trasforma in verità la
finzione, che si bea del racconto, ripartirà... Ne sono certa. Abbiamo compiuto
due viaggi, non uno. L'andare di Penelope
e quello di Ulisse. Non ci rincontreremo". Entrambi escono dalle
stanze del mito, dell'enfasi, della retorica, della grandezza idealizzata. Si
tolgono la maschera e tentano disperatamente di conquistare una dimensione più
umana. Ed ecco Ulisse, dipinto come un vecchio brontolone, stanco e scontento
di ciò che trova ad Itaca al suo ritorno. Penelope gli appare come una vecchia
zitella, bisbetica e sospettosa. Telemaco è solo un giovane ingenuo che non ha
conosciuto un padre e crede di vedere in lui, anziché un uomo, un modello di
paternità gloriosa.
Basta, Ulisse non ne può più. Se ne andrà da
Itaca, lasciando a Telemaco un unico appello, una sola sollecitazione: quella
di liberarsi di ogni vaneggiamento e di ogni esaltazione, di ogni memoria
leggendaria ed eroica, ponendosi al riparo di quelle gesta memorabili che
spargono sempre nella storia lutti, guerre, sangue e stermini a non finire. Ed
ecco infine l'augurio: "Con te forse nascerà e si estenderà sul nostro
paese una generazione nuova, che non ha bisogno di padri". Può sembrare
dissacrante, questo auspicio, ma è invece quanto di più etico e costruttivo
possa esistere. Abbiamo popolato di geni, di santi e di eroi i nostri libri e
le nostre teste senza capire un'acca del loro vero insegnamento: la necessità
di essere noi stessi, come loro han fatto e ci hanno indicato.
La grandezza di un padre sta nella capacità di
farsi dimenticare, nella capacità di eclissarsi affinché il figlio possa essere
padrone di se stesso, anziché vivere all'ombra di chi l'ha generato. I padri
vivono nei figli come il seme nel frutto, senza alcun bisogno di melense e
flaccide celebrazioni. E' morendo che sopravvivono nei figli. Se non vogliono
morire, se preferiscono aggrapparsi alla patetica memoria nei posteri, allora si estinguono davvero, e
definitivamente, perché fuoriescono dal ciclo della vita. Il vero mito, penso voglia
dirci la Ferraris ,
non è mai separato dalla vita, ma è tutt'uno con essa, perché il suo scopo è di
rivelarsi per dare spinte nuove alla vita. Quando si idealizza e si
cristallizza, il mito diviene feticcio, un'elucubrazione, un'astrazione lontana
dalla vita.
C'è un mito vivo e c'è un mito idealizzato. Una storia d'Antan mostra esattamente
come la vita inaridisca quando si allontana dal mito sorgivo con il quale si è
annunciata. Ci troviamo a Besozzo, nell'alto Varesotto, in pieno Seicento.
Antonio, figlio primogenito di Luis, destinato dal padre a proseguire
l'attività paterna (una fiorente industria cartaria), preferisce entrare in
convento, e Carolina, sua sorella, che mostra invece capacità imprenditoriali,
segue le orme paterne. Di lei s'innamora follemente don Alberto, ultimo
rampollo della nobile famiglia Besozzi, destinato ad un futuro di notaio nella
mondana Milano. L'ipocrisia dettata dalle differenze di ceto sociale, decreta
la fine del giovanile sogno d'amore e mostra impietosamente il modo in cui la
realtà si separa dal mito. La prima diviene sterile ed il secondo una
sconfitta, un sogno irraggiungibile, un'utopia vana e irrealizzata.
Franco
Campegiani
Ringrazio calorosamente Franco Campegiani per la sua recensione, che è originale e come al solito fuori dal comune. Conferma il suo interesse filosofico principe, quello del mito e del rapporto autentico Vita/mito che ricerca con attenzione anche nelle mie novelle. Proprio per aver letto i testi –cui tengo molto- può fare un intervento calzante. Ringrazio vivamente di aver ricordato nel blog, tornato a vivere, la mia plaquette di racconti il caro Nazario, che ha già recensito a suo tempo le mie novelle, segnalando il “modo di scrivere e descrivere; di raccontare e analizzare; di approfondire e attualizzare…” e la ricerca di “ verità in queste confessioni”.
RispondiEliminaGratissima, come sempre per questo interesse costante.
M.G.Ferraris