Lorenzo Spurio
ELEGIA PER
LORCA
“ELEGIA PER LORCA”
DI LORENZO SPURIO
PREFAZIONE
DI NAZARIO PARDINI
“Non so perché ancora parli.
C’è un vento freddo che in questi giorni
fa cadere impietosamente le foglie del fico nel mio piccolo giardino. Alcune
cadono scomposte ma lievi, altre quasi sbattute con caparbietà in qualche
angolo del muretto che lo cinge. C’è in me un fremito di dispiacere in questo
lento spogliarsi dell’albero che fino a poco fa era rigoglioso e grondava di
frutti così ricchi.
Le foglie che cadono non sono neppure
gialle o arricciate.
Non sono come quelle dell’ippocastano,
ammorbate dall’ittero…”
Non
è sicuramente difficile, trattandosi di un’opera monotematica, cadere nel rischio della ripetitività verbale o contenutistica,
dacché la poesia chiede e pretende libertà e fa di questo valore il cardine
primo della sua entità etica ed estetica. Ogni argomento è sicuramente buono
per il canto, ammesso, però, che venga filtrato dall’anima; venga macerato da
un sentire complesso e articolato,
semplice e generoso. Ma qui nessuna
costrizione, nessun adattamento, considerando che l’autore ha fatto suo il
tema, se ne è impossessato anima e
corpo, riuscendo, così, a trasferirlo dal soggettivo all’oggettivo; dal
singolare al plurale; lasciandolo a decantare nella sua interiorità, per
tramutarlo in immagine poeticamente matura per un verso completo, per una forma
che dica di equilibrio fra sentimento e costrutto. E iniziare da questa pagina,
inserita dall’autore come momento incipitario dell’opera, significa andare da
subito a fondo alle questioni che motivano le composizioni del poema. Un
incontro tra Lorenzo Spurio e Garcia Lorca. O meglio tra la vèrve creativa dell’Autore
e la via crucis dello spagnolo (il mistero della sepoltura, la morte violenta
per mano di nazionalisti, la ricerca della libertà in un frangente storico tragico
come quello della guerra civile). Già in questa lettera e nel prosieguo del
poema non è difficile rimarcare le caratteristiche fondamentali che accomunano
i due scrittori: il panismo esistenziale, lo scialo di descrizioni che
concretizzano stati d’animo e pensieri, la coscienza del tempo e della fugacità
del vivere; la valenza umana per una missione civile; e la ricerca attenta e
puntuale del verbo in vista di una cifra letteraria asso-consonantica,
figurata, comunicativa e multicorde; e soprattutto un amore viscerale per la
vita, per il suo percorso tanto problematico quanto fortemente amato. Undici composizioni che con un climax
ascensionale si concludono con la ingiusta quanto tragica uccisione di uno dei
maggiori poeti della seconda metà dell’altro secolo che ha avuto un ruolo
determinante nella scena socioculturale e artistica dell’epoca: Il Romancero gitano, il Canciones, l’elemento folcloristico e la
suggestiva e tipica decorazione di gitani, tori, chitarre e inferriate, dove il
valore impersonale del romance, la vecchia forma di ballata narrativa medioevale,
usata ancora oggi dal popolo spagnolo, hanno offerto a Lorca la base sonora e
formale per il suo Romancero e non solo. Ed è proprio nelle Canciones più che nel Romancero gitano la
vena di maggiore allegria e di maggiore umore: ne fanno testo la Giostra
o la canzone dedicata A Irene, donna di servizio, dove incontriamo il
magico e misterioso arbolé, vecchio tema ronsardiano dell’invito a godere della
giovinezza e della primavera: “Nel boschetto/ i pioppi ballano – l’uno con
l’altro./ e l’arbolé – con le sue quattro fogliette/ balla anche lui – Irene!”. Ballate, reminiscenze di feste e musiche
popolari, armonie, giochi di scarti semantici e callidae iuncturae,
testimonianze consonantiche di vita e poesia, amore per la propria terra, e per
tutto ciò che la distingue. Troppo lungo sarebbe il discorso sulle genialità
stilistica, filologica, e poetica di Francisco Garcia Lorca. Ma quello che a
noi interessa è, soprattutto, il distendersi dello spartito poematico di
Lorenzo Spurio; il suo Elegia per Lorca;
il verseggiare ampio e denso, polivalente e ontologicamente vicino a un impegno
civile e letterario, ricco di sinestetici allunghi e di cospirazioni iconiche.
Undici ampie composizioni che seguono con plurale partecipazione una vicenda
triste e dolorosa, alimentata da primavere e rocce, da Sierre e nuvole, da
quadri sapidi di panismo empatico dell’andaluso; dei paesaggi che tanto amò e
di cui tanto ci ha detto nelle opere:
(…)
Osservavi la Sierra che buca le nuvole
o componevi melodie con foglie e
formiche?
Suona pure coll’aria che noi respiriamo!
La storia si fermò senza dilungamenti
quella dei libri è stantia e deforme.
La roccia scheggiata è primavera di
lutto,
tu che mostri la faccia della Spagna. (La luna si nasconde).
Una
vera compenetrazione fra tragedia, sole e stelle; fra il vociare di maldestri
assassini e il disseccarsi dell’acqua putrida dei pozzi:
(…)
Quando cadesti, il sole non mutò piglio:
solo il vociare sommesso di maldestri
assassini,
la polvere densa delle buche scavate
che il plotone-fantaccio sentenziò.
Nel fragore secco e assordante del
piombo
ti sollevasti non visto fra un pianto di
stelle.
L’acqua putrida dei pozzi si disseccò.
Sul volto un sorriso di gigli freschi. (Il bivio di
campagna).
Tutto
l’intorno partecipa al dolore: le piante ammutoliscono; i rami impongono il
silenzio; le rane vagano stordite:
(…)
Le piante quel giorno hanno smesso di
parlare:
gli acuminati rami superbi imposero il
silenzio
e da allora le rane vagano stordite e
deluse
carche di disprezzo per la vita che urge. (Nella roccia vescovile).
Un
parenetico invito al ricordo, a non dimenticare; al rimando perenne di valori e
virtù; a messaggi di libertà in memorie
di sapienti; in calli e città di bianco verniciate:
Morto è solo chi si dimentica e scompare
come una cicogna nera nella notte
petrolio
ma tu ancor vaghi in memorie di sapienti
e
in calli strette delle città di bianco verniciate,
tu che perfori il tempo immortale,
giovane e bello.
Alza per noi le rocce a scovar gli
scorpioni e
fa che la luna rinnovi il solletico
della mente! (L’odore dei tuoi colori).
Il
poema procede, passo passo, con gli scarti emotivi dell’Autore che in uno
spartito di simbiotica fusione fra subbugli epigrammatici e vita spezzata di
uno spirito ribelle e libero, sanno mondi di soprusi di cui bene ci disse
Picasso nel suo Guernica. E il tutto si
snoda con intrusione coinvolgente e verticalmente graffiante:
da
“La luna si nasconde”
a
“Nella roccia vescovile”
momento in cui
Lorca viene portato nel vecchio palazzo del vescovo Moscoso y Peralta;
da
“Tagliami l’ombra”
dalla poesia
“Canción del naranjo seco”;
a
“C’era Amnon”,
ispirata alla
poesia “Tamay Amnon” inserita in Romancero Gitano che tratta della vicenda
amara di Amnon;
da
“Non lontano dal limoneto”
che fa riferimento
al mistero della sepoltura,
per chiudersi con
una arrampicata finale a vette di partecipato lirismo:
cercatemi là, non lontano dal limoneto nauseante
dove sosto ad abbeverarmi del nettare acido
per tornare a vagare nei dintorni confusi
e abitare smanioso ogni luogo del campo
È qui che il
Nostro, con soluzioni linguistiche di rara potenza iconica, offre la netta visione
di uno dei sentimenti più nobili e umani di Federico: l’attaccamento alla vita
e alla propria terra, a “ogni luogo del campo”. Una affezione che Spurio ha
sentita talmente sua da farne il punto luce di tutta la raccolta: il vagare e
un visionario abitare; il compimento di un iter vissuto, incamerato e tradotto
in struggente valenza realistico-emotiva.
Nazario Pardini
Saluto ad un amico
(Il mio giardino
autunnale)
Non so
perché ancora parli.
C’è un
vento freddo che in questi giorni fa cadere impietosamente le foglie del fico
nel mio piccolo giardino. Alcune cadono scomposte ma lievi, altre quasi
sbattute con caparbietà in qualche angolo del muretto che lo cinge. C’è in me
un fremito di dispiacere in questo lento spogliarsi dell’albero che fino a poco
fa era rigoglioso e grondava di frutti così ricchi.
Le foglie
che cadono non sono neppure gialle o arricciate.
Non sono
come quelle dell’ippocastano, ammorbate dall’ittero.
Quelle del
fico sono piuttosto verdi anche se delle macchie strane forse dovrebbero
ricordarmi che questa è la stagione più normale nella quale possono cadere.
Non
lontano dal fico ci sono alcune piante di erbe aromatiche. Non tutte soffrono
il freddo, anzi, qualcuna, come la
santolina e il timo, sembra ancor più orgogliosa.
È qualcosa
di istintivo, forse maniacale, accarezzarle fugacemente di tanto in tanto,
quando passo di lì.
Allineate
come sono, sembrano impegnate a parlare
tra loro.
Mi dispiaccio
sempre dopo averle scosse seppur con un tocco pacato, immaginando di averle
disturbate o addirittura innervosite, stropicciandone incautamente la chioma.
Quando
rientro in casa, però, godo di quella pacificante assuefazione olfattiva
annusando le punte delle dita dove si concentrano gli odori netti e magici di
quelle erbe.
Lievemente,
proprio come il tocco della pianta, le loro essenze si attenuano fino a
svanire.
Non mi
domando dove sei dopo gli ottanta inverni che da allora hanno girato.
Non mi
appartiene la presunzione che è di tanti di dare al reale ciò che ha perso
sostanza.
So però
che l’anima di un’esistenza tanto rara e inestimabile come la tua non si
annulla col tempo.
Non
degrada come il corpo che, corruttibile, marcisce e si sfarina.
Di te
tutto si è detto, anche ciò che non era vero.
Ciò che
hanno voluto dire di te, perché faceva piacere o comodo a qualcuno.
Ogni volta
gli argini dei fiumi hanno visto piene e periodi di siccità e la luna ha
provato sconforto né ha saputo a chi chiedere aiuto.
È curioso
assistere agli insetti che goffamente prendono il volo, sbandano e ritentano
l’ascesa, quando una pioggia d’estate interrompe il loro sonno tra le piante.
Struggente
è il ciclamino che piega il capo ma è nella sua quiete. Non è vero che le vespe siano nemiche
dell’uomo, è più doloroso il suono della cicala.
Nel
convivio degli odori della natura tu sei parte.
Comprendo
che non c’è un rigore con il quale le foglie del fico cadono.
Alcune
sono più resistenti di altre.
Ma
l’inverno non ne lascerà nessuna.
15-12-2015
Os
hablan las cosas
y
vosotros no escucháis.
El mundo es un surtidor
fresco, distinto y
constante.
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