“Questo poemetto, nato come avvertito nel
titolo da una visita alla Valle del Belice e alle rovine della vecchia
Gibellina, vuole essere una breve meditazione poetica a partire dai luoghi in
cui all’evento luttuoso della catastrofe naturale si accompagna la
responsabilità di un malinteso rapporto col territorio basato, oltre che su una
sua cattiva conoscenza, su uno sfruttamento disordinato ed equivoco delle
risorse. Tutto ciò, celato nelle insufficienze di un sistema politico
incompetente o deliberatamente mancante, manifesta i segni di una mentalità
diffusa in cui a vari livelli ognuno di noi rischia al tempo stesso di esserne
vittima e causa…”
Questo il
frammento di uno scritto inserito come postfazione dall’Autore all’opera La stortura della ragione, e-book, Clepsydra
Edizioni, 2011. Un testo significativo che fa da prodromico invito ad una silloge
carica di risentimento e di dolore per come vanno le cose in questo paese: carenza
di educazione civica; incuria, mancanza
di rispetto per tutto ciò che ci circonda; verso una natura bistrattata e
spregiata per interessi economici, egoismi e soprattutto per una cattiva
conoscenza del territorio. Una silloge che, sviluppata su un percorso di XIV
pièces,. riesce con tutto il suo apporto semantico-allusivo e verbale a
concretizzare gli intenti etico-emotivi dell’autore; a evidenziare un mondo che
sta smarrendo quelli che sono i cardini fondanti della società e della
politica.
Lo stile, plurale e di efficace sonorità
per metonimie e anacoluti, per figure retoriche di saggio impiego costruttivo, fa
da corpo a tematiche di ontologica creatività per interrogativi su: “un
malinteso rapporto col territorio basato, oltre che su una sua cattiva
conoscenza, su uno sfruttamento disordinato ed equivoco delle risorse”. Se al tutto
si aggiunge l’incompetenza di politici inetti o vòlti a interessi personali il
gioco è fatto:
“Quant’anima s’è fatta improvvisa, terra
senza risolversi. Basse, dalle mura aperte, povere, care case sbattute sul
crinale. “Coliamo, dentro le crepe scomposti, in un irraggiungibile grido..”.
Sì, proprio un grido da parte del Poeta; un grido che rimbomba e fa eco per
tutti coloro che caddero in precipizi, o che furono sfrattati dalle loro case per
terre frananti su paesi e città, una volta tripudio di colori,di ruscelli, e di
boschi. Ci si rivolge direttamente all’Italia, come personaggio vivo con cui
parlare; ma è un monologo triste e appassionato; ossimoricamente visivo per una
signora di luce che cancella le sue mandrie come tributo:
“Improvvida Italia, signora di luce, la
grazia del nome non trattiene il furore. Scandiscono i caduti un patto
instabile, scelleratezza domestica ove non uso, non avvezzo il suolo alla vite.
Sconfessa la valle in discorde memoria, cancella le sue mandrie come da tributo”.
Composizioni inanellate le une alle altre
in un insieme compatto ed organico; in una forma polisemica in cui la natura si
fa attrice prima con un volto sfigurato da sottrazioni e mancanze; da irresponsabilità che riguardano tutti;
ognuno di noi, manchevoli di storie che dovrebbero riportare alla mente eventi
e disastri ancora da risanare. Ma le memorie possono anche avere risvolti
positivi se ci riportano a tempi in cui vigeva la fratellanza e la
collaborazione; a tempi in cui il guadagno e la speculazione non erano al primo
posto, ai tempi in cui l’uomo era un po’ poeta di fronte a colli verdeggianti,
a marine senza fine, o a tramonti dai volti appaganti. E’ da là, forse, che
l’uomo dovrebbe attingere, non per tornare addietro, ma per ripescare un
passato sano da tramandare al futuro dei posteri, dacché l’identità “solo in
questo dipende/ matura interrogando e interrogando agisce”:
XIV.
L’identità solo in questo dipende:
matura interrogando e interrogando agisce.
Nella cura ha la sua appartenenza
riconoscendo in uno scambio continuo
quale l’abbaglio, nel sovrapprezzo il pericolo.
Intende il prima nel tempo del dopo
faccia a faccia col proprio umano soggiungere.
Mulina colpi, ci fa invalidi
la presenza costante e
avversa dei rifiuti.
Nazario Pardini
GIAN PIERO STEFANONI
Il
ventre infertile
Maeba
Sciutti
La stortura della ragione
Gian
Piero Stefanoni
Prima
edizione: febbraio 2011
Ebook
© Clepsydra Edizioni
per Tommaso Casini
“Infuria la misconoscenza, s’abbuia la stortura della loro
ragione,
o sei tu, Signore, che vuoi perdere questi uomini?”.
Mario
Luzi, “La passione”.
I.
Conca di betulla,
mungitura,
azzurro che ti prende.
Dalla piana un becco
sottile
qualche papavero avverte
prima di collina.
“Strette in pugno le
miserie ultime,
non coperte al termine del
pasto,
si restava abbracciati
nelle difformità dello
sguardo,
scorrendo tra le labbra
un volto anonimo”.
II.
Né più si ricorda
il luogo dov’era.
Tutto il dolore
strappato alle madri.
Un torto non bestia,
non cielo, ma pietra
ruvida come stele:
malore di sempre.
III.
Cos’altro
se non squittire?
Tu scava dalle ossa
il termine, la sostanza
in verbo precipitata,
frutto stante rosso fra gli
altri.
Uomini siamo,
in nostra historia legati.
IV.
Quant’anima s’è fatta
improvvisa, terra
senza risolversi.
Basse, dalle mura aperte,
povere, care case
sbattute sul crinale.
“Coliamo, dentro le crepe
scomposti,
in un irraggiungibile
grido..”.
V.
Improvvida
Italia,
signora
di luce,
la
grazia del nome
non
trattiene il furore.
Scandiscono
i caduti
un patto
instabile,
scelleratezza
domestica
ove non
uso, non avvezzo
il suolo
alla vite.
Sconfessa
la valle
in
discorde memoria,
cancella
le sue mandrie
come da
tributo.
VI.
Mesta,
in ultima vampad’un
gioco
che finisceapri
un buco
nella carta
ora che
ingrossi.
Diventa
un treno il fiume
dieci
metri sopra il livello.
In
violenta successione
abbatti,
appendi
ai ganci
degli elicotteri
col tuo
carico di combustibile.
VII.
Ed i corpi si raccolgono
tra le zeppe della
corrente.
“L’ acqua ci ha trasformato
a guisa di specchio.
Quanto buio manca? Quanta
luce
a questo volto rappreso?”.
Attende identità,
nominazione;
muove dall’offesa il
riconoscimento.
Dopo la
furia la sorte divide,
resta
sospesa in pudica resa.
VIII.
Ma nega se stesso e in quel
rifiuto
di nuovo accade, si
perpetua- nella colpa,
nei tendini-
l’inesprimibile evento.
Come dirsi, come svelarsi
l’errore
negli anni l’uno all’altro
figlioli?
Non più chiaro, crediamo,
l’orrore.
Non più vera l’imputazione
dovuta.
Accresce la frana una più
acuta distanza
qui la devianza in atto di
esclusione partecipe.
IX.
In questo rovescio
la battitura grata alla
polvere,
la consegna di un paziente
dominio.
(Ha i colori del banco
spazzato via a S.Giuliano,
l’ortografia della cenere
che piegò a sé Gibellina, Sarno,
Onna).
In lotta col ferro
s’avviluppa
e freme padrona del seme.
Le voci segnate, prestate
al sangue:
paesi, bambini
a cui nemmeno odore
più giunge.
X.
Nell’inviolabilità della
norma
lo scarto, la non
generabilità dell’assenza.
Nuove forme da anonimi
strati
e avallamenti che il tempo
poi abiura.
Un impasto a rialzare il
confine
che azzera di quelle croci
il passato.
Solo un gran freddo ancora
oggi li attesta
in un’altra impercorribile
notte.
XI.
Perchè, di sé sa il cuore
i tanti adattamenti; il crepitare,
la fede, l’umile piega del
giunco.
Ma non conosce ardimenti
la desolazione che patisce,
deforma, si fa massa nel
ventre.
Sostiene piuttosto
un impareggiabile esilio;
un’egritudine antica
che il fango non scrosta.
XII.
La tentazione, allora, è il
furore,
la parola non detta,
la musica mai pronunziata.
Si smarrisce, tra le
screpolature
e la rete@, senza voce lo
scempio
che presto la costernazione
confonde.
Si conforma alla festa:
ritorna
il germe che è in
appendice.
XIII.
Così ora è uno scontro di
fedi,
di possibilità; cadere o
capire
sotto la sragione e
l’usura,
se il nostro spirito ne è
ancora capace.
Giacché (dapprima) la vera
sciagura
è il sedimento di mondo di
cui ognuno è l’untore,
disconoscere ancora che
patire, sulla soglia
ritratti al proprio
sommesso potere.
In quale ordine una
generazione cancella
le altre, steccando i passi
da un idea di paese.
XIV.
L’identità solo in questo
dipende:
matura interrogando e
interrogando agisce.
Nella cura ha la sua
appartenenza
riconoscendo in uno scambio
continuo
quale l’abbaglio, nel
sovrapprezzo il pericolo.
Intende il prima nel tempo
del dopo
faccia a faccia col proprio
umano soggiungere.
Mulina colpi, ci fa
invalidi
la presenza costante e
avversa dei rifiuti.
Nota
dell'autore
Questo
poemetto, nato come avvertito nel titolo da una visita alla Valle del Belice e
alle rovine della vecchia Gibellina, vuole essere una breve meditazione poetica
a partire dai luoghi in cui all’evento luttuoso della catastrofe
naturale si accompagna la responsabilità di un malinteso rapporto col territorio
basato, oltre che su una sua cattiva conoscenza, su uno sfruttamento
disordinato ed equivoco delle risorse. Tutto ciò, celato nelle insufficienze di
un sistema politico incompetente o deliberatamente mancante, manifesta i segni
di una mentalità diffusa in cui a vari
livelli ognuno di noi rischia al tempo stesso di esserne vittima e causa. Per sua
natura non compete alla poesia nessun tipo di analisi sociologica o politica,
ma fedele ad un’etica del presente che muove tra le maglie delle passioni e
delle aspirazioni umane, il suo sguardo non è mai secondario dove c’è da ridare
dignità e ascolto, dove, nella comune mancanza, solidarietà e sostegno possono
venire anche dalla rimessa in moto della memoria nella condivisione e nel
riscatto del dolore. Questo lavoro non è
che un piccolo tentativo in tal senso, ben cosciente della sua insufficienza di
dettato appena accennato. Ma io credo che soprattutto oggi e nella circolarità
delle sue corde civili il poetico debba formarsi e informare tra le questioni e
gli interrogativi che non si possono più rimandare. E quando dico poetico
intendo anche i dubbi e le voci sollevate per una discussione partecipativa degli
eventi, affermativa per una ricostruzione quanto mai collettiva.
Gian Piero Stefanoni
Tutti i diritti dei testi riservati all’autore
Copertina © Gian Piero Stefanoni
Ebook © Clepsydra Edizioni
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