Decima egloga delle Bucoliche
di Virgilio
Carla Baroni, collaboratrice di Lèucade |
Extremum hunc,
Arethusa, mihi concede laborem:
pauca meo Gallo, sed
quae legat ipsa Lycoris,
carmina sunt dicenda;
neget quis carmina Gallo?
Sic tibi, cum fluctus
subterlabere Sicanos,
Doris amara suam non
intermisceat undam.
Incipe; sollicitos
Galli dicamus amores,
dum tenera attondet
simae virgulta capellae.
Non canimus surdis;
respondet omnia silvae.
Quae nemora, aut qui
vos saltus habuere, puellae
Naides, indigno cum
Gallus amore peribat?
Nam neque Parnasi vobis
iuga, nam neque Pindi
ulla moram fecere,
neque Aoniae Aganippe.
Illum etiam lauri,
etiam flevere myricae;
pinifer illum etiam
sola sub rupe iacentem
Maenalus,
et gelidi fleverunt saxa Lycaei.
Stant
et oves circum; -nostri nec paenitet illas,
nec
te poeniteat pecoris, divine poeta; -
et
formosus ovis ad flumina pavit Adonis;
venit et upilio; tardi
venere subulci;
uvidus hiberna venit de
glande Menalcas.
Omnes “Unde amor iste”
rogant “Tibi?”. Venit Apollo:
“Galle,
quid insanis” inquit; “tua cura Lycoris
perque nives alium
perque horrida castra secuta est”.
Venit
et agresti capitis Silvanus honore,
florentis ferula et
grandia lilia quassans.
Pan deus Arcadiae
venit, quem vidimus ipsi
sanguineis ebuli bacis
minioque rubentem.
“Ecquis
erit modus?” inquit; “Amor non talia curat;
nec lacrimis crudelis
Amor, nec gramina rivis,
nec cytiso saturantur
apes, nec fronde capellae”.
Tristis at ille: “Tamen
cantabitis, Arcades,”inquit
“montis
haec vestris: soli cantare periti
Arcades. O mihi tum
quam molliter ossa quiescant,
vestra meos olim si
fistula dicat amores!
Atque
utinam ex vobis unus, vestrique fuissem
aut
custos gregis, aut maturae vinitor uvae!
Certe,
sive mihi Phillis, sive esset Amyntas
seu
quicumque furor – quid tum, si fuscus Amyntas?
Et
nigrae violae sunt et vaccinia nigra -
mecum
inter salices lenta sub vite laceret;
serta mihi Phyllis legeret, cantaret Amyntas.
Hic gelidi fontes, hic
mollia prata, Lycori,
hic
nemus; hic ipso tecum consumerer aevo.
Nunc insanus amor duri
me Martis in armis
tela inter media atque
adversos detinet hostes:
tu procul a patria (nec
sit mihi credere tantum!)
Alpinas, ah dura, nives
et frigora Rheni
me sine sola vides. Ah,
te ne frigora laedant!
Ah, tibi ne teneras
glacies secet aspera plantas!
Ibo et Chalcidico quae
sunt mihi condita versu
carmina, pastoris
Siculi modulabor avena.
Certum est in silvis,
inter spelea ferarum
malle pati, tenerisque
meos incidere amores
arboribus; crescent
illae, crescetis, amores.
Interea mixtis lustrabo
Maenala nymphis,
aut acris venabor
apros: non me ulla vetabunt
frigora Parthenios
canibus circumdare saltus.
Iam mihi per rupes
videor lucosque sonantis
ire; libet Partho
torquere Cydonia cornu
spicula: - tamquam haec
sit nostra medicina furoris,
ut deus ille malis
hominum mitescere discat!
Iam neque Hamadryades
rursus nec carmina nobis
ipsa palacent; ipsae
rursus concedite silvae.
Non illum nostri
possunt mutare labores,
nec si, cum moriens
alta libera aret in ulmo,
Aethiopum
versemus ovis sub sidere Cancri.
Omnia vincit Amor; et
nos cedamus Amori”.
Haec sat erit, divae,
vestrum cecinisse poetam,
dum sedet et gracili
fiscellam texit hibisco,
Pierides; vos haec
facietis maxima Gallo -
Gallo, cuius amor
tantum mihi crescit in horas,
quantum vere novo
viridis se subicit alnus.
Surgamus; solet esse
gravis cantantibus umbra;
iuniperi gravis umbra;
nocent et frugibus umbrae.
Te domum saturae, venit
Hesperus, ite capellae.
Concedimi, Aretusa,
Musa mia
quest'ultima fatica.
Pochi versi
per Gallo scriverò ma
che li legga
Licòri stessa: chi
rifiuterebbe
un carme a Gallo? Che
mai a te, quando
sotto i flutti sicani
vai a scorrere,
Dori amara non mischi
la sua onda.
Inizia; orsù, solleciti
cantiamo
di Gallo i tristi amori
intanto che
camuse capre i teneri
germogli
brucano. Ai sordi certo
non cantiamo
ché le selve di ciò
tutto ridondano.
Quale bosco o dirupo vi
trattenne,
o Naiadi fanciulle,
mentre Gallo
d'indegno amore il
giorno suo finiva?
Infatti né le cime del
Parnaso
né del Pindo vi fecero
indugiare
né l'Aonia fontana
d'Aganippe.
Anche mirici e allori
ed il pinifero
Mènalo lui gemettero
disteso
sotto una rupe
solitaria e pianse
del Liceo la gelida
pietraia.
Fanno cerchio le pecore
qui attorno
(ad esse non rincresce
il nostro stare
né a te rincresca, mio
divin poeta,
la presenza tranquilla
degli ovini
che il bell'Adone ai
fiumi pur condusse);
venne il pastore,
vennero i porcai;
venne Menalca umido di
ghiande
colte d'inverno nel
terreno zuppo.
“Da
dove quest'amore ti proviene?”
chiedono tutti ed anche
Apollo venne:
“Perché,
Gallo, impazzisci?” gli domanda
“Licòri
tua per nevi e accampamenti
già segue un altro”.
Venne Silvano
il capo ornato con
agresti emblemi
che agita di canne e
immensi gigli.
E venne Pan, d'Arcadia
dio, che vidi
rosso di minio e di
sanguigne bacche
trafugate al selvatico
sambuco.
“Quale
termine” disse “alle tue pene?
Amor di queste cose non
si cura
né, crudele, di lacrime
si sazia
né del fiore s'appaga
l'ape o d'acqua
l'erba o di foglie
l'avida capretta”.
Ma quello triste: “Voi,
Àrcadi”
disse
“canterete
di me ai vostri monti
unici voi esperti nel cantare.
O quanto dolcemente le
mie ossa
riposeranno se la
vostra piva
qualche volta dirà dei
miei amori!
Ah, fossi stato uno di
voi, pastore
o di turgida uva
vignaiolo!
Certo se Aminta o
Fillide o chiunque
fosse la mia passione
(Aminta è bruno
e allora? Non sono
forse scuri
le viole ed i
giacinti?) giacerebbe
con me tra i salici e
la vite: Fillide
per me serti farebbe e
Aminta un canto
intonerebbe. Qui gelide
fonti
soffici prati qui,
Lycori, il bosco;
qui insieme a te dal
tempo consumato
sarei soltanto. Ora un
insano amore
tra le armi di Marte mi
trattiene
in mezzo agli avversari
e contro i dardi.
Tu lungi dalla patria
(oh, se potessi
non crederci!) senza di
me da sola
vedi le nevi alpine e
l'aspro gelo
del Reno. Che il freddo
non ti nuoccia,
ed il pungente ghiaccio
non ti sciupi
i teneri piedini! Io me
ne andrò
e i carmi da me scritti
con il verso
di Calcide di nuovo
intonerò
al flauto del pastore
siciliano.
È certo preferibile
patire
nelle selve tra i covi
delle fiere
ed incidere il mio
infelice amore
sulle tenere scorze
delle piante.
E quelle cresceranno, e
insieme a loro
diventerai sempre più
grande, amore.
Percorrerò il Mènalo
frattanto
o caccerò cinghiali con
le Ninfe;
né impedirà il gelo
d'attorniare
con i cani le balze del
Partenio.
Andar per monti e
boschi risonanti
mi vedo già; mi piace
all'arco parto
fare vibrare le cidonie
frecce;
quasi la medicina
questa fosse
al mio furore o quel
dio imparasse
ad ammansirsi alle
miserie umane!
Non amo più invece le
Amadriadi
né i carmi e voi,
selve, allontanatevi.
Ogni mio sforzo non lo
può mutare
nemmeno se bevessi in
mezzo al gelo
dell'Ebro all'acque o
nel piovoso inverno
affrontassi le nevi del
Sitone
o, se quando sull'alto
olmo la scorza
morente inaridisce,
pascolassi
sotto il segno del
Cancro il gregge etiope.
Tutto Amor vince e ad Amor io cedo”.
Questo vi basti del
poeta vostro,
o Pieridi dee, mentre
egli siede
intrecciando con ibisco
sottile
un piccolo canestro;
ciò che canto
farete grande voi per
Gallo nostro
di cui m'aumenta amore
d'ora in ora
così come si erge il verde ontano
alla stagione nuova.
Adesso alziamoci;
l'ombra ai cantori
nuoce ed alle messi
e soprattutto quella
del ginepro.
Sazie caprette andate,
andate a casa.
Il Vespero nel cielo di
già sorge.
Traduzione di Carla Baroni
(da Rina Buroni e Carla
Baroni Virgilio Bucoliche
traduzione in
endecasillabi- Nuove carte Edizioni)
Caro Nazario ti ringrazio infinitamente per avermi fatto approdare su Leucade con questo mio lavoro a cui tengo moltissimo perché è la prosecuzione di una traduzione fatta da mia madre Rina Buroni che l'aveva iniziata a tredici anni quando era al ginnasio. La circostanza che fosse stata fatta in endecasillabi perfetti la rendeva singolare e metteva nella giusta luce il bellissimo testo virgiliano. Da adulta mia madre, sollecitata da me, tradusse altri brani delle "Bucoliche" ma si stancò presto lasciando quindi l'opera incompleta. Ho voluto finire io stessa tutta la versione per poterla pubblicare e rendere così un ulteriore omaggio a chi mi ha voluto bene.
RispondiEliminaCarla Baroni
Una bella traduzione, interpretata (più che realizzata) con cuore caldo e partecipe. Carla "sente" la poesia delle Bucoliche e la vive incarnandola -più che situandola- e soffondendola in versi italiani. E tanta bellezza -quella delle Egloghe, intendo- Carla comunica al lettore con il metro da lei molto amato e usato, l'endecasillabo, opulento, variegato e, insieme, scorrevole e musicale; prevalentemente piano, talvolta sdrucciolo, raramente (tre volte) tronco. Quello che rimane nell'orecchio dopo la lettura è un'onda fonica pervasivamente dolce, con qualche piacevole sonorità; e nel cuore la percezione di un'humanitas che, mentre sfida e supera il contingente, trabocca di grazia.
RispondiEliminaBrava, Carla! Complimenti a te, anche perché so quanto impegno hai messo in quest’opera.
Pasquale Balestriere
Caro Pasquale, grazie del tuo bellissimo commento e grazie anche per avermi talvolta
RispondiEliminaaiutato quando il verso non aveva la musicalità giusta: perché oltretutto chi mi
conosce sa che non sono molto arrendevole nell'accettare consigli. Hai avuto una
pazienza infinita come l'hai sempre nei miei confronti. Purtroppo sto accorgendomi
che la metrica non è conosciuta come si dovrebbe per cui per molti due traduzioni,
una in prosa ed una in versi, sono perfettamente equivalenti mentre io ritengo che un
testo che nasce in poesia debba essere tradotto in poesia per essere apprezzato nel
giusto valore. Comunque sia, non sono assolutamente pentita della mia fatica
soprattutto quando ricevo attestazioni di stima da persone estremamente colte e
preparate come sei tu. Ciao e ancora grazie
Carla
Il lavoro lungo, meticoloso, sempre in progress della poetessa Baroni è stato per me (l’editrice) motivo di ansia (oddio, quando riusciremo a pubblicare?) ma anche di grande soddisfazione e arricchimento. La prospettiva che una poetessa ha nel tradurre poesia è davvero unica, tanto più se ha deciso di misurarsi con l’esercizio di traghettare i versi non solo in un'altra lingua ma addirittura in un’altra metrica, che Carla Baroni padroneggia assai bene. Credo che questa versione delle Bucoliche virgiliane potrebbe essere particolarmente interessante per le scuole; gli insegnanti possono, attraverso i versi italiani e latini a fronte, trovare spunti per parlare di due culture poetiche e due letterature distanti e vicinissime. Come sottolineava Luciano Canfora: “Cosa rende ostico il compito della traduzione dal greco e dal latino per i ragazzi? L’idea che ci sia un’unica traduzione giusta che loro devo ‘indovinare’. In realtà la traduzione è una marcia di avvicinamento continuamente in corso. [Come è stato per l’Autrice.] Le traduzioni possibili sono infinite, e nel tempo se ne susseguono di diverse. Bisognerebbe far partecipare lo studente a questa marcia, a questo lavoro in corso, a questo esercizio” (https://libreriamo.it/curiosiamo/luciano-canfora-salviamo-la-traduzione-dei-classici-strumento-di-comprensione-tra-i-popoli/). Ci auguriamo che il nostro libretto possa essere uno strumento e uno spunto di apprendimento per le giovani generazioni, alle quali Carla Baroni, ex-insegnante, è particolarmente vicina. Silvia Casotti
RispondiEliminaCara Silvia, grazie del tuo bel commento anche se un po' tardivo e che quindi
RispondiEliminadifficilmente sarà visto dai lettori di questo blog. Infatti se un piccolo appunto si può
fare a “Alla volta di Leucade” è proprio il troppo materiale che viene pubblicato per
cui spesso si tralascia di rispondere perché l'argomento è già stato sommerso da tanti
altri. Tuttavia, tornando all'oggetto del tuo scritto, come dicevo proprio ieri alla
presentazione di alcuni miei libri alla biblioteca Ariostea di Ferrara, il male grande
delle versioni dal latino o dal greco delle opere in poesia e di ogni altro testo di liriche
in genere è che sono davvero in pochi quelli che, al giorno d'oggi, conoscono la
metrica e quindi ne sanno apprezzare la musicalità. Una traduzione in prosa ed una in
versi vengono considerate alla stessa stregua, anzi ho notato che dalle lodi ad essa
tributate la prima ha un successo molto maggiore della seconda, sebbene se ne
trovino di quasi identiche su internet e si possa, quindi, molto dubitare della genuinità
della stessa. Eppure abbiamo tutti studiato Iliade, Odissea, Eneide nelle bellissime
traduzioni rispettivamente di Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte, Annibal Caro e
da questi poeti abbiamo imparato (o avremmo dovuto imparare) la struttura
dell'endecasillabo. E non è che i ragazzi d'oggi non apprezzerebbero, se fosse loro
insegnato, alcune regole fondamentali della metrica se molti si avvicinano alla poesia
soltanto attraverso i rapper, gli unici a dare loro un qualche rudimento molto
approssimativo nel genere. Comunque chiamatemi pure “ dietrologa” ma io continuo
ad affermare che un testo in versi vada reso ancora in versi anche nella completa
differenza delle due metriche.
Grazie ancora Silvia del tuo scritto che ha analizzato a fondo gli aspetti del mio
lavoro anche se i pochi che lo leggeranno lo considereranno soltanto di parte.
Carla