LA STRADA
Nello scorrere degli anni non molto è
cambiato. Venendo dai lungarni si snoda
ben dritta la strada. L’alto campanile del
Nervi taglia fette d’aria. In lontananza
la collina di Fiesole. La scuola è stata
restaurata e le suorine, quasi accanto,
salutano i passanti nella loro corsa
mattutina. Alle quattro e mezza grida e
sciami di bambini che urlano festosi
addentando schiacciatine. Sono cambiati i
volti delle mamme di un tempo. Ora molte
straniere e alcune col capo avvolto
in un velo scuro. Mi rivedo giovane in un
tempo ormai lontano aperto alla
speranza. C’è sempre il bar di Dario,
leggendario da una cinquantina d’anni e la
sua voce, sempre uguale, si spande. Due
soli tavolini e, quasi tutti i giorni,
quell’anziano signore col canino bianco seduto
davanti a una tazza di caffè.
Sono una veterana che percorre la strada
col carrello della spesa e tanti ricordi.
Escono in fila parlottando e con lo
sguardo imbambolato quelli di Don Orione.
Qualcuno sorride, qualche altro dice
strane cose ai passanti frettolosi.
È rimasto solo il ricordo del potente
scampanio. Dove le campane?
Gruppetti di ragazzi fanno bivacco sul
sagrato. Telefonini, merende e spesso
fogliacci lasciati in terra. Tanti anni fa
non uscivano nell’intervallo dalla scuola
ma si sbrancicavano dalle finestre aperte;
si udivano le loro risate e il semellaio
col suo grido si fermava lì davanti.
Quando cala il buio, quell’aria allegra
scompare. Nella parete più riparata
all’esterno della chiesa ci sono gli
invisibili sdraiati su cartone e coperte. Per un
certo periodo, uno di loro, più fortunato,
aveva una tendina. Non usciva quasi
mai. Fuori qualche sacchetto con cibo.
Queste persone che nessuno conosce,
sono come oggetti nella notte, loro
compagna.
Non se ne vede il volto, s’indovina la
sagoma e, qualche volta, affiora una
mano che stringe la coperta. Devono essere
lunghe quelle notti all’addiaccio. È
raro che qualcuno si fermi. Si dice: “È
una loro scelta, potrebbero andare alla
Caritas”. In effetti nessuno dedica loro
più di una frettolosa occhiata. La
mattina, solo lunghi sacchetti neri
appoggiati nell’incavo del muro con i loro
oggetti.
Una mattina un camioncino con piante verdi
e qualche palma sosta
davanti alla chiesa. Penso: “Sistemano il
sagrato”. Però negli anfratti dove si
rannicchiavano gli invisibili, sono poste
delle piante che adornano lo spazio. Ci
stanno bene, pero non accoglieranno più i
senza dimora. Non c’è posto per loro.
Ripenso ai tempi ormai lontani di Don
Giuliano, alla sua umanità; per lui i
poveri avevano un volto e le sue braccia
erano aperte.
Da alcuni mesi c’è sempre di giorno un
ragazzo. Piuttosto robusto, bruno
di capelli. Un viso tondo con occhi scuri,
attenti. Nella mano destra un berretto
con visiera sventolante; lo tende ai
passanti. Attacca discorso con me. Viene
dalla Romania. Addenta con voracità un
pezzo di pane e me lo offre. Fa molte
domande che sembrano inadatte alla sua
condizione, ma, forse, è perché ha
bisogno di parlare. Gli dico: “Sei troppo
giovane per vivere così. L’elemosina
più spesso viene data agli anziani, ai
menomati”. “Ma io lavoro anche” mi dice.
Qualche volta porta le borse della spesa a
qualcuno. Guarda il mio
carrello: “È vecchio”, mi dice. Rispondo:
“Sì, ma funziona ancora bene”. Forse
sono il suo unico interlocutore. Mi mostra
una foto mezza stracciata di dove
abitava in Romania. Lì un’anziana donna si
prendeva cura di lui. Vede in me,
forse, una specie di nonna.
Io insisto perché si dia da fare. Ama
stare isolato e credo non abbia un
posto fisso per dormire. Da una parte mi
fa pena, dall’altra mi sento come
inseguita. Appena mi scorge attraversa la
strada di corsa col suo berretto
sventolante. Gli spiego che non posso
sempre dargli qualcosa. Deve lavorare.
“Ma che ci fai tutto il giorno seduto su
quello scalino? Sei giovane, devi darti
da fare”. Da una parte mi fa pena,
dall’altra non sopporto quel suo vago
ciondolare. Un giorno mi dice che torna in
Romania. Gli do dei soldi per il
viaggio.
Il non vederlo più mi fa sentire più
libera. Non riuscivo a comprendere il
perché della sua costante presenza e
ricerca nei miei confronti. Non ha l’aria
violenta, semmai è un po’ spaesata. È
andato via...
Poche sere fa me lo vedo venire incontro
di corta col solito berretto
sventolante. È tornato indietro perché
quel rifugio che lo accoglieva non c’era
più. Mi racconta di essere rom. I genitori
lo hanno abbandonato da piccolo.
“Allora sei apolide, non puoi godere di
nessun diritto”. Mi guarda; il viso
rassegnato ma privo di qualsiasi impegno
di vita.
Scende la sera di questo lungo autunno. Va
via di corsa e gira l’angolo.
Non può essere aiutato. Ho intuito che ama
la solitudine. Anche lui uno dei tanti
che dormono su una panchina? Quali i suoi
sogni? Mi sono abituata a rivederlo
la mattina quando rientro verso
mezzogiorno. Mi chiede cosa ho nel carrello;
cosa mangio oggi. Mi dice: “È tanto buona
la pasta”. Lo vedo come un
rinunciatario che riempie i suoi giorni di
niente. Ci sarà mai per lui un futuro?
Seduta al mio desco solitario mentre
mangio il salmone, mi sento in
colpa. Ho una casa, non mi manca niente e
la solitudine mi è compagna.
Esiste un destino che ci rende differenti
l’uno dall’altro o è solo il caso?
Accendo la televisione.
Firenze – 9 novembre 2023
Anna Vincitorio
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