Sul rapporto immagine e parola poetica sono stati scritti fiumi di inchiostro, ma sempre qualcosa si può aggiungere attingendo al pensiero filosofico e iniziando con qualche definizione.
L’immagine
è da intendere in due sensi:
-
Come forma esteriore di un oggetto (come
ci appare)
-
Come creazione della mente
verosimigliante o meno al reale
La
parola è la traduzione orale o scritta di ciò che l’immagine ci trasmette. L’ immagine
evoca la parola. Si potrebbe mai parlare senza immagini e senza una mente che
le comprenda?
Io
partirei dalla filosofia platonica, di cui tutto il pensiero occidentale, come
diceva Giovanni Reale, non è che una serie di note. E forse persino quello
orientale, anche se precedente. Qui comunque esporrò la mia nota.
Platone
nella celebre allegoria della caverna affronta subito il problema dell’immagine.
Le
immagini sono relegate sul fondo dell’antro, sono ombre di oggetti proiettati
sulla parete illuminata dalla luce fioca di un fuoco acceso all’ingresso.
Soltanto ombre di oggetti non ben identificati che il prigioniero, liberatosi
dalle catene, potrà scoprire. Ma intanto sono ombre, proiezioni su uno schermo.
Ho
sempre detto ai miei studenti che Platone ha qui previsto l’invenzione della
televisione e delle informazioni più o meno distorte dai mezzi di comunicazione
di massa.
Da
queste ombre scaturisce la nostra immaginazione o “congettura”, una sorta di un
tirare a indovinare che diventa un quiz a premi… Potrebbe sembrare che Platone abbia
addirittura anticipato il gioco televisivo organizzato per tenere buoni i
prigionieri dello schermo. Su un mondo che non sappiamo bene cosa sia e che
qualcuno forse manipola… Eppure, la congettura è il primo segnale della messa
in moto della mente umana, sia pure in una condizione di cattività. Ma al piano
alto, usciti dalla caverna, troviamo altre immagini, più raffinate, e sono
immagini di oggetti riflessi nell’acqua, ovvero la scienza delle idee con cui
conosciamo il mondo, la chiave di conoscenza delle idee matematiche che stanno
alla base della realtà La struttura
logica del mondo, la geometria perfetta dell’universo, la mentalità scientifica
che sarà di Galileo (con le sue necessarie dimostrazioni e le sensate
esperienze di quadrati, rettangoli, ecc…che estrapoliamo dalle qualità
oggettive delle cose.), per volgere poi la testa verso il cielo stellato e
scorgere infine il Bello, il Bene…
La
coscienza morale dentro di me, il cielo stellato al di sopra di me, avrebbe
detto Kant, molti secoli dopo.
Tutta
qui l’immaginazione? Platone aveva qualche riserva su alcune forme d’arte, come
la pittura, al suo tempo poco evoluta e vista come mera imitazione, copia delle
copie, ovvero delle cose, che a loro volta erano imitazione delle idee. E
tuttavia, proprio Platone era affascinato dalla poesia visionaria e vedeva
nella follia poetica un tramite per entrare in contatto con la Bellezza eterna.
Nella
poesia l’immaginazione diventa dunque una via di contatto con il divino, e questo
non avviene attraverso il linguaggio logico, ma analogico.
E
qui entriamo dalla porta stretta dell’immaginazione come produzione di
metafore. Perché dico porta stretta? Perché è il passaggio più difficile e
delicato della ricerca della verità. Una verità mai definitiva come deve essere
nella scienza, ma nell’arte quello che si cerca è più sfuggente, più ambiguo, è
la verità interiore. Per questo la parola perde il legame stretto con la logica
facendosi analogica e l’immagine diviene polisenso, può assumere più
significati a seconda di come viene letta e interpretata.
Kant
vedeva nell’immaginazione produttiva una facoltà dell’intelletto che presiede
alla formazione dei concetti, ovvero delle categorie con cui interpretiamo il
mondo, come ad esempio la causalità, ma parlava anche di una immaginazione riproduttiva
come capacità umana di “vedere” la bellezza e di tradurla creativamente
nell’arte.
A
differenza del pensiero discorsivo, che si traduce nel linguaggio descrittivo
della scienza, il legame tra poesia e immagine è immediato e ha carattere
intuitivo. Inoltre, l’arte utilizza concetti indeterminati e interpreta le
immagini non in modo univoco. La
metafora e, ancor di più, il simbolo (il cui significato greco è proprio quello
di “mettere insieme” due parti distinte) sono i luoghi poetici in cui l’immagine
non può essere assolutizzata e proprio in tale libertà abita il suo senso più
profondo.
Ma
dal momento che la parola poetica, molto più che quella discorsiva, attraverso
metafore e simbolismi entra in una comunicazione più profonda con l’immagine, per
comprendere la sua chiave di lettura polivoca, si può fare uso di più” sguardi”,
ossia punti di vista diversi nel rapporto tra parola e immagine, come ben ha sottolineato lo storico tedesco
Heinrich Wölfflin, nei Concetti
fondamentali della storia dell’arte. Egli distingue infatti fra ‘sguardo
evento’, ‘sguardo avvento’, ‘sguardo esperimento’ e ‘sguardo accecamento’.
Per ‘sguardo evento’ si intende un atto che non imita la realtà
ma la rende più ampia, ed è uno sguardo che concepisce il mondo come una
“cosmopoiesi infinita” e che si esprime nell’estasi o abbandono alla visione e nella
partecipazione dell’artista alla creazione in una visione rinascimentale di
tipo panteistico dove ogni cosa è parte del tutto e dove parola e immagine sono
in piena armonia.
Lo ‘sguardo avvento’ ha invece il carattere della ricerca di un
senso ultramondano e ultrasensibile, partendo da una dimensione fisica
intensamente indagata e trascesa. Un esempio di questo sguardo si trova nella
poesia di Mario Luzi, che nel Viaggio terreste e celeste evoca
il pittore senese Simone Martini, la cui opera diventa Epifania e varco verso una
verità divina, e la parola poetica un viaggio verso la luce che ci avvolge e
che si rivela grazie alla capacità dell’arte di sublimare la storia umana.
Ma è sguardo avvento anche la laica visione di Giovanni Testori
dove la scrittura valorizza l’umano nella sua miseria e bellezza, come nei
quadri di Caravaggio, ma probabilmente anche in quei pittori dove gli stessi
oggetti sono astratti dall’oggetto che rappresentano e assumono un carattere
eterno (come la pipa che non è una pipa di Magritte).
Lo ‘sguardo esperimento’, di cui fa uso l’arte contemporanea, ha
invece un carattere dissacrante, e può diventare smascheramento dell’immagine stessa,
entrando in rapporto con una realtà inedita, mentre lo ‘sguardo accecamento’ è
ancora più rivoluzionario e si
pone come reazione alla sovrabbondanza delle immagini, annullando ogni visione
e portando nel linguaggio poetico il corpo stesso dell’autore che si
auto-percepisce nella sua quotidianità o si identifica con gli oggetti stessi, in una
sorta di straniamento nichilista e salvifico al tempo stesso.
Quest’ultimo sguardo dimostra paradossalmente che la morte
dell’arte profetizzata da Hegel non si realizzerà mai, fino a quando la parola
e l’immagine, anche rinnegandosi o
mettendosi reciprocamente in discussione, potranno confrontarsi, rimanendo le
fondamentali forme di comunicazione dell’umano cammino.
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