Un poemetto di ampia
suggestione, anche se l’autrice si lascia andare ad uno stile di positura
minimalista, con poca intrusione di personale apporto. Tutto scorre libero e frammentato sotto gli sguardi
occasionali; gli ammicchi a perone ed oggetti che sembra non siano legati da un
filo conduttore. Cosa non vera, dacché la poetessa, anche se fuori scena, fa
sentire le sue emozioni sulla vita e la sua inesorabile piega. La casa vuota,
Mina, il fiore ostinato, il gatto, Ignacio, il toro, il Bolero di Ravel,
Giovanna, il portafotografie, Antonio, santo di metà gennaio... tante immagini che si alternano in una visione realistica
tipo stesura Anceschiana, o correlativo di stampo eliotiano. Ma non si può sfuggire,
camminando, alle nostre impronte; e sono esse che parlano e dicono di tante figure nella morsa di un tempo che
scorre fregandosene di tutto e di tutti. Una cosa è certa. Angela Greco è alla
ricerca di indirizzi nuovi che si distacchino dalla solita poesia convenzionale,
basata su sinestesie e strutture dalla classica positura; e si concede ad ampie
misure quasi di positura narrativa per raccontare la vita, mirandola, a
sprazzi, dalla sua postazione, in disparte, senza ficcare il naso nel suo inesorabile
consumarsi... Ed è essa, la vita stessa,
che ci tiene imbrigliati nella sua
rete-tramaglio lasciandoci poco spazio
d’intervento durante il prosieguo della vicenda. Forse è proprio da
questo porsi in alto, sopra i fatti, che l’autrice ricava il leitmotiv che dà
compattezza alla trama.
Quella
casa è vuota; nessuno
accende
più le luci alla Madonna e
persino
il sempreverde, ormai, ha
difficoltà
di relazione con il vicinato.
Mina
aspetta il passo a secondo piano,
un
suono, un ricordo, che le auguri buongiorno,
un
silenzio in meno e una timida domanda;
anche
casa sua è vuota. Abito assenze.
A est,
appena dopo la casa marrone e bianca,
ostinato
un fiore selvatico senza pretesa di nome,
s’arrampica
giallo verso lo spazio tra due finestre
in
cerca di cielo. Stamattina un gatto tigrato ha
scalato
la vetta di un piano e mezzo alla ricerca
di una
risposta al suo insistente miagolio. Il fiore,
il
gatto e Mina s’assomigliano in questa stradina
casa-elementari,
percorso a ritroso in attesa.
[…]
Ignacio
è morto, ferito ad una gamba; tutti pensano
ad
Ignacio, comprese la calce e la sabbia, onorando
il suo
silenzio, parlando dei suoi meriti e aspettando
il
terzo giorno, il momento preciso in cui si torna quel
che si
era prima e dopo la croce. Al cielo o alla terra
non fa
differenza. Ignacio è morto, scriviamolo bene.
Il
toro no, lui è ancora vivo; il toro ha visto la morte e,
per questa
volta, lui è ancora vivo, ma non sa per quanto.
Nessuno
lo vede, con il corno insanguinato, a cuore battente,
con la
spalla rigata da uncini metallici e la sabbia, la stessa
compassionevole
che accoglie Ignacio, bruciargli occhi e gola
nel
tentativo di sopravvivenza. Il toro è vivo, ricordiamolo.
[…]
A te
non piace il Bolero di Ravel; lo hai detto
un
giorno di un altro inverno, forse mille anni fa;
la
marcia, reiterata sotto la progressione della storia,
ti
annoia. Io sono in quel vortice; io sono quel vortice.
Lo
dice la mia schiena e avanzo, svolgendo all’indietro
il
filo su cui cammino da quarantatré anni, raspando
al
suolo con lo zoccolo, sciogliendo le vertebre cervicali,
soffiando
l’ultima polvere dalle narici frementi, raccogliendo
le
forze, che hanno seppellito quelli che avevo intorno e mentre
gli
acuti ingaggiano una tachicardia col mio petto, i fiati sciolgono
la
muscolatura ferma da troppo tempo e s’apre l’ultimo minuto.
Sale
in gola il primo vagito, mentre il coro annuncia la fine del mondo.
[…]
A forza
di ripeterlo magari accade ed un mattino diventa
un prato
di iris blu, che prosegue il cielo. Certe domeniche pomeriggio
di
inverno sono un lavoro fatto a mano; punti e parole, un intreccio
di
fili e pensieri, solitudini rivestite di erica di fronte all'oceano.
“Ciao,
sono contenta di sentirti; io sono sempre rimasta qui
ad
aspettare. Anzi, ad aspettarmi.”
Sogno
a colori e al risveglio ricordo finanche le tonalità
differenti
che compaiono di notte. Ultimamente distinguo
nitidamente
la tua voce; una umanità ormai rara albeggia
nei
tuoi gesti. Giunco sulla riva, segui stagioni senza spezzarti.
Se mai
dirò ancora di andare via sarà solo per venire più vicino,
tra
camicia e pelle, distesa sul tuo silenzio.
[…]
Appena
usciti, tra due ante di vetro, una finestra rotta
avvisa
i gentili ospiti che Giovanna non abita più lì,
all’ultimo
gradino di una strada in discesa, fregiata pazza
dalla
dirimpettaia. Nemmeno Pasqualina segna più in blu
il piccolo
debito di una cioccolata, perché mamma non può
più
pagare. Il mitreo è all’ultimo piano; qui, bisogna salire
e San
Clemente guarda stranito da secoli di distanza.
Mezzogiorno
è la scia di un aereo al posto delle campane;
un
volo in picchiata ascoltato dal soggiorno azzurro - o
forse
è il cielo - e mentre scandisco le dita sulla tastiera, tu sei
a
pesca in jeans e telefonino, pronto per la prossima acqua alta.
Una
visione compare appena prima del risveglio
ed è
un dolore addominale, dallo sterno in giù;
ulivi
secolari fronteggiano onde anomale. In mezzo,
una
striscia di Murgia tenta una strenua difesa, ma non
sappiamo
da chi o da che cosa; mezzi blindati occupano
la
testa dei filari e il cielo si fa scuro fino alle tre del pomeriggio.
L’impotenza
guarda dalla finestra cercando suoni da articolare.
A
destra e a sinistra i due ladroni hanno dato forfait e a metà
gennaio
la vigna è un ordinato susseguirsi di dita aggrappate
a fili
tesi allo spasmo. Proseguo, ma l’alba sopraggiunge senza
preavviso
e solo allora riconosco la mia condizione e ti chiamo.
[…]
Il
portafotografie dice del tempo, al pari della polvere, sottraendo
l’aspetto
reale e donando sembianze tutte da riconoscere.
Il
vetro terso ha una cattiveria da non sottovalutare; riflette
meglio
di me e mi avvisa che ho bisogno di un altro spazio, dove
rimettermi.
Allora m’accontento di un giorno seduta al mio tavolo;
il
campanaccio scaccia le scie di maldicenza e le capre
cancellano
il segno sulla schiena, tanto Bodini lo ha già scritto.
«Come
abbiamo fatto ad evitarci fin’ora, nemmeno un bacio
da
raccontare all’inferno?» Qualche dubbio che non sia accaduto ce l’ho.
Antonio,
santo di metà gennaio, prega nel deserto ed io prenderei
senza pensarci
due volte il tuo posto. In fondo, ci sono già passata e
ti
risparmierei davvero questo accadimento di fili e sterno alla stregua
di una
porta. Le mani si fanno fredde e non basta il cielo a non ricordare
che quindici
anni sono un granello, che precipita nella metà opposta,
anche
senza volerlo.
Confermo un "passaggio", che sta accadendo in questo periodo alla mia poesia; una mancanza di apparente unità non dissimile da questi tempi, dal quotidiano che insiste, che ci investe, frammentandoci in cocci di varie argille, ammassati senza forma e apparentemente inutili a dire qualcosa...Eppure è poesia proprio mettere in luce la pluralità che siamo, che vediamo e che sentiamo, l'incomunicabilità paradossale nell'era dell'eccesso di comunicazione...è poesia il dettaglio che evoca, il filo conduttore nascosto nello spessore del muro e che pure a distanza dalla fonte accende una luce. Versi outsider, ostici in apparenza, che trattano di un tema fondante la Poesia, la morte, difficili anche da dire poesia, che sicuramente non attendono alle aspettative del lettore e di nessuno, la cui accettazione, lettura e pubblicazione coraggiosa del prof.Pardini, mi riempiono di gioia. Grazie di cuore,
RispondiEliminaAngela Greco AnGre
ieri sera ho inserito subito un commento, soprattutto un ringraziamento, ma temo che le novità apportate da alcune piattaforme lo abbiano annullato. Lo riporto come lo ricordo, in questo inizio di giorno.
RispondiEliminaConfermo un "passaggio" che in questo periodo sta accadendo alla mia poesia, nella quale si evidenzia un mettere in primo piano una mancanza di unità -solo apparente, come ben rilevato nella nota critica-, non dissimile dal quotidiano che ci investe, frammentandoci in cocci di varie argille, ammassati e apparentemente inutili...Eppure è poesia anche il fare luce sulla pluralità che siamo, sull'incomunicabiità paradossale nell'era dell'eccesso di comunicazione, così come è poesia il dettaglio che evoca, il filo conduttore nascosto nello spessore del muro e che pure, lontano, accende una luce. Versi outsider, difficili persino da leggere 'poesia', che sicuramente non attendono alle aspettative di nessun lettore e di nessuna scuola, la cui accettazione, lettura e commento e coraggiosa pubblicazione da parte del prof.Pardini .che ringrazio di cuore- non può che darmi gioia.
Angela Greco AnGre