Tullio Mariani. Memoria di una vita non vissuta. Edizioni Stravagario. 2019 |
PREFAZIONE
A
Tullio Mariani
MEMORIA DI UNA VITA NON VISSUTA
Corsi e ricorsi, oscillazioni e salti
dall'Ete al Serchio in poche scarse
mosse
(...)
Tutti insieme
si
attende il buio ognuno per suo conto.
Sanno
di lisoformio anche le piante
i lampioni
e le brache dei cagnetti
e
ogni cosa proclama sacra voglia
di
Svizzera e Baviera. Pure noi
adesso
abbiamo i soldi!
Tullio Mariani, collaboratore di Lèucade |
È
ben altro che Mariani sogna; sogna l’antica primavera, quella che è passata
come un fulmine; sogna l’amore, l’amicizia, la vicinanza, l’affetto di altri
tempi; sogna figure e luoghi che cerca di riportare alla luce coll’alchimia del
canto. E lo fa con un sentimento di nostalgia spesso sfiorato da un senso di
distacco da un mondo che non sente più suo. Dolore e ironia, malinconia e
dissacrazione, sorriso e tristezza, una fusione di contrapposizioni che
costituisce l’epicentro della sua opera; come direbbe Victor Hugo “la gioia di
essere tristi”. Questo è il nerbo del suo poetare, la complessità emotiva dei
suoi stati d’animo in parte velata dalla dolcezza dei ricami musicali.
Scrivere
sulla sua poetica è come disquisire di storia, di arte, di filosofia... di sarcasmo,
di sagacia; del melanconico quesito sul correre del tempo, della vita e della
sua indifferenza di fronte agli interrogativi degli umani. Il suo è un progetto
di polisemica significanza; un’avventura umana e ultra che tocca ogni ambito
del nostro vivere; di quello di ognuno di noi. Già il titolo ci introduce con
cospicua elasticità in una vicenda che manca di quella dimensione vitale che
l’autore crede le sarebbe dovuta spettare: MEMORIA DI UNA VITA NON VISSUTA. Sofferenza
e mala tempora per un essere con l’animo al cielo ed il corpo nelle grinfie del
tempo: hic et nunc. Memoria il termine giusto, dacché il memoriale con
l’onirico contribuisce non poco alla tessitura del filo rosso di questo corposo
lavoro: momenti, frammenti, gioie e rimanenze di giorni fuggiti e
irrecuperabili: Dum loquimur fugerit invida aetas, per scomodare Orazio. Ampio
e vasto è il campo d’azione, proteiforme il messaggio epigrammatico di questa poesia,
dove la conoscenza metrica e la competenza etimo-lessicale raggiungono
l’ineguagliabile. Basta porre l’attenzione sull’incipit della silloge,
sull’antiporta del “poema”, sul prodromico avvio partorito dalla penna abile e
incisiva del Nostro: tutto si fa musicale, tutto si fa euritmico, combinazione
di versi armoniosi e fluenti in un insieme prosastico di personale andatura:
endecasillabi e settenari sguinzagliati in una narrazione contaminante per
combinazioni sonore facilmente convertibile: “Sfaccendato lettore,/ché tale ti suppongo,/ se trovi tempo e
impegno da donare/ a questo scarno figlio del mio ingegno,/ io voglio dirti
innanzitutto grazie./ Altro non posso fare,/ ma l’idea che qualcuno
s’interessi/ ai versi, pur corretti e rifilati,/ di un tecnicaccio di laboratorio,/
in vecchiaia presuntuoso/ poeta, mi gratifica/ in modo indescrivibile/...”. Questo
il risultato della prosa poetica inserita come presentazione e facilmente traducibile
in poesia. Anche la prosa, o quel che si vuole, ne risentono; tutto è
contagiato da una mente avvezza alla sonorità del canto. Non ne può fare a
meno: sarà malizia, o tecnica versificatoria, o spontaneità debordante, il
fatto sta che lo scritto ci afferra e non ci molla per la verve comunicativa,
per la personalissima inventiva affidata alla parola. Mi piace continuare
questa mia esegesi riportando un pezzo
che ho avuto occasione di scrivere come commento ad una sua composizione (Gorgoglia
il Serchio): “Una poesia compatta, fluente,
chiara e corrente come le acque di un fiume che scivolano portandosi dietro
memorie, e feste paesane; tradizioni che
la storia inventa e cancella; riscopre e abbandona; ripesca e trasmette,
facendone lirica di epica nostalgia (il mio Serchio, quello di Mariani, quello
dei poeti, quello che rifletteva gonne di fanciulle intente al gioco); una
poesia in cui l’animo si affida ad una rapsodia di classica plasticità; di
armoniche perfezioni; di eufonici assalti emotivi. La struttura delle 5
quartine, formate, ciascuna, da tre endecasillabi ed un quinario, danno l’idea,
ictu oculi, di una composizione meditata e costruita; inanellata nel suo corso
da una sapiente mente prosodica. Ma si sa che la poesia vive di slanci
emozionali, di sperdimenti panici, di incontrollate vertigini passionali, di
assalti memoriali, di nostos e saudade; insomma di vicissitudini, che, riposate
in un terriccio fertile, sbocciano, col tempo, in immagini sapide di una
storia. Ed il verbo sta lì, in attesa; matura esso stesso coi giorni e con le
ore, con le gioie e le peripezie, con le primavere e gli autunni, pronto a
liberare quel crogiolo di abbrivi dandogli visività e concretezza; un verbo
che, fedele e mansueto, vario e articolato, si inventa, si moltiplica, si fa
nuovo in binari di iuncturae simboliche, ma soprattutto si mantiene integro in
tutta la sua semplicità per fare da stampella a tanto sentire. La ragione no!
Semmai frena, richiama all’ordine; non permette
voli che azzardano mete irrazionali; che, sbrigliati e liberi, toccano
il cielo con le loro impennate. Ed eccoci a questo connubio artisticamente
equilibrato, e umanamente suasivo; i due fondamentali della poesia si combinano
in una simbiotica fusione di perfetta armonia consonantica: forma e contenuto.
Fanno il resto i maliziosi accessori stilistici che si traducono in veri
strumenti musicali a ricamare il sottofondo dell’opera: coro nella “boca
cerrada” della Butterfly: emozione, brio creativo, spazio liberatorio; uno
spartito dagli argini ben solidi,
costruiti per evitare esondazioni, e da cui poter godere il passaggio di una
storia paesana; di un Serchio che Gorgoglia e increspa in crepe schive sotto il
suo ponte: “(...)/ Già cala il sole. Nuvole elusive/inghirlandano il rosso d’orizzonte./
Gorgoglia il Serchio e increspa in crepe schive/ sotto il suo ponte”.”. E per venire a noi, ai risultati della
nostra lettura, quello che emerge da subito è l’abilità di Tullio nel giocare
con lo stile: sonetti, ballate, canzoni... si alternano in un fluire di
assonanze, rime, metafore, allunghi iperbolici, a dimostrazione che al poièin
non basta la semplice canonica morfosintassi, ma che a esso necessita qualcosa
di più della usuale parola. Quel più che l’autore sa dare al suo canto
elevandolo all’atto creativo, al stratosferico mondo dell’arte. In quello dove
la vita si presenta con tutte le magagne
vicissitudinali, con tutte le sottrazioni, e miserie che fanno riflettere e
pensare magari inducendoci a reagire con scherno per tradirne la vocazione. Si inizia con
un sonetto di classica positura, dove la potenza dell’endecasillabo
troneggia con tutta la sua maestosità,
concedendosi a interpunzioni a centro verso con emistichi a maiore e a minore a
conferma di una poetica che niente ha a che vedere con sperimentazioni
prosastiche che nell’intento di sovvertire schemi tradizionali non hanno fatto
altro che danneggiare il bel canto; come quello di Mariani che da subito ci
mette sull’attenti sul modo di far poesia e sulla maniera da seguire per dare
concretezza ritmico-ontologica ai suoi stati d’animo: “... muggiti, martellare dalle case,/
fiorivano canzoni come rose/ tra odor di cuoio e di fieno maggese./..../Ad ogni
incontro, in qualche breve frase,/ commentare il fluire delle cose/ e il
rimpianto di annate andate e spese”: memorie, futilità del tempo, saudade,
immaginazione e realismo lirico alla Capasso si fanno ingredienti sostanziali
nello scorrere dello spartito:
da Perdute
antiche primavere:
Io
mi stendevo, a volte, sulla ghiaia
degli
stradelli a frontiera ai poderi
vivevo
i campi e il cielo e praticavo
l’illusione
dorata, imprescindibile,
che
quel mondo potesse essere eterno,
a Le
estati del dopoguerra, dove il ricordo si fa alcove rigenerante, edenico
flusso di riposi:
(...)
Ed
oggi la memoria
mi
porta a quelle sere di bambino,
a
quelle notti di canzoni e vino,
da Silvano
Berdini in memoria, dove l’amicizia di un tempo torna come lenimento del
vivere:
Sono
partito, sono andato via,
poco
ci siamo visti da quel tempo
e
un po’ sei uscito dalla vita mia,
questa
vita di cui facevo scempio.
Penso,
a volte, che averti più vicino
avrebbe
un po’ aggiustato il mio destino,
alla saggezza antica di Francesco
Bedetta, Francì de Rampéca:
(...)
Francì,
tu sei partito
per
quell’ultimo viaggio, ed io non c’ero.
Tanto
vagabondare e tanto leggere
nulla
ho imparato mai
che
valesse la tua saggezza antica,
transitando per poesie di sapido
risvolto analitico o di struggente realismo psicologico: Vecchi all’osteria, Lo
scarparo, Casette d’Ete, che già
vincitrice del Premio Mimesis di Itri, tocca punte di alta liricità, Notte sui Lungarni, per chiudere con Poco da dire, in cui il poeta si
abbandona ad una sarcastica quanto mai triste nota di biografica concordanza:
(...)
Scrivo
in metrica e rima per cifrare
umori,
tedio e sprazzi di sereno
e
almeno un risultato è da apprezzare:
scrivo
di meno.
Questa è la silloge di Tullio Mariani:
un mix di composizioni in metrica in cui si racconta una storia sorretta da una
plurale cifra esistenziale; e dove, come scrive E. A. Poe nel saggio postumo Il principio
poetico, la poesia è creazione ritmica della bellezza”, convinto che
“il sentimento poetico si ottiene nell’unione tra poesia e musica, giacché
nella musica, forse, l’anima raggiunge quasi interamente il grande fine per il
quale, se ispirata da un sentimento poetico, essa lotta… per raggiunge la
creazione della Bellezza Suprema…”.
Nazario Pardini
DAL TESTO
Sfaccendato lettore,
ché tale ti suppongo, se trovi tempo e
impegno da donare a questo scarno figlio del mio ingegno, io voglio dirti
innanzitutto grazie. Altro non posso fare, ma l’idea che qualcuno s’interessi
ai versi, pur corretti e rifilati, di un tecnicaccio di laboratorio, in
vecchiaia presuntuoso poeta, mi gratifica in modo indescrivibile.
Non troverai, nei testi contenuti, né
l’esibito impegno umanitario, ch’è più utile a quello un pomeriggio di
volontariato che mille languidi scazontici versi, né pindarici voli, ché
manierismi e espressionismi a frotte stuprano, a mio parere, la Poesia.
Narro di me, che è ciò che fa Poesia,
pur se lo maschera sotto altre vesti, mescolando la vita che ho vissuto ad
un’altra che avrei potuto avere, e ad una che pareva a me possibile ma che tale
non era.
Venendo al dunque, comparo e raccordo
il mondo del paese dove nacqui a quello dove scelsi poi di vivere, seguendo sogni
fatui in grande parte. Comparo gli amici di allora a quelli in gran parte periti,
che scelsi nei luoghi ove vivo o in quelli in cui son transitato. Pure comparo
situazioni, ambienti e varia umanità. Non suddivido i testi in base ad aspetti
formali, i sonetti si mischiano a canzoni fatte di settenari e endecasillabi ed
a ballate, una in novenari. Qua e là ho azzardato pure alessandrini. A
raccordare il tutto è una indecisa e traballante linea cronologica che segue i
salti e viaggi di emozioni e pensieri dall’uno all’altro lato dell’Appennino.
Ti ringrazio per aver letto fin qui ed
auguro ai miei versi di piacerti.
Tullio
CASETTE D’ETE, ANNI CINQUANTA
Vecchio paese sparso nella valle
fertile e verde dove l’Ete scorre,
veglia da un colle la vetusta torre
dei conti Brancadoro. Alle tue spalle
Monte dei Falchi indossa un verde
scialle
di cespugli e di arbusti. Alto discorre
un falco con l’azzurro, a riproporre
spirali e ampi volteggi. Dalle stalle
muggiti, martellare dalle case,
fiorivano canzoni come rose
tra odor di cuoio e di fieno maggese.
Ad ogni incontro, in qualche breve
frase,
commentare il fluire delle cose
e il rimpianto di annate andate e
spese.
CALORE
Danzavano le travi al chiarore dubbioso
della lucerna ad olio, crepitava la
fiamma,
pulsava la penombra di parvenze irreali
a ravvivare favole e leggende e
racconti.
Sedevo sul gradino del focolare acceso
le spalle tutelate di vivido calore
in faccia il cerchio chiuso degli
adulti a narrare
le paure di sempre con diverse parole.
E morti che tornavano, e forme ed
animali
che non erano ciò che appariva alla
vista
e di notte acquisivano voce di profezia
e perfida e ghignante, a rinfacciare
colpe,
annunciare castighi di lutti
imprescindibili
e poi ratti svanire quasi fossero
nebbia.
E streghe, e fuochi magici, e
inquietanti tesori
che una parola incauta mutava in foglie
secche.
Ciondolava la testa a cercare i
ginocchi,
gli occhi già quasi chiusi, per cuscino
le braccia.
E lento e lieve il sonno mansueto
coinvolgeva
per ultima la mente, e mi prendeva un
limbo
di buio caldo acceso, di figure
incantate
evanescenti forme soavi nel sorridere
e nell’istante ultimo tra l’essere e il
sognare.
osavo il grave azzardo di sentirmi
felice.
PERDUTE ANTICHE PRIMAVERE
Era un cielo di rondini il mio tetto
e occhieggiavano scampoli di azzurro
tra nere falci di affilate piume.
Si abbarbicava il tralcio ai fili tesi
da un olmo all’altro, rette parallele
oscillanti di pampini ancor gemme,
a intarsiare i poderi, arcani segni,
codice a barre senza altro messaggio
che unire utile e bello. Era già tempo
delle viole odorose, e margherite
chiazzavano bottoni d’oro e avorio
lungo i bordi dei fossi
quasi chiamassero a serrarli.
Il tappeto del grano ancora erboso
verde incontaminato, intenso, esteso
a tutta vista, cedendo segnava
il vigore di brezza in lunghe onde
e dolci e terse. Si alzavano in volo
i primi schivi e poveri aquiloni
stecche di canna e carta di giornale
a intralciare le frecce delle rondini
e ad appendere al cielo ingenui sogni.
Io mi stendevo, a volte, sulla ghiaia
degli stradelli a frontiera ai poderi
vivevo i campi e il cielo e praticavo
l’illusione dorata, imprescindibile,
che quel mondo potesse essere eterno.
LE ESTATI DEL DOPOGUERRA
Erano notti di canzoni e vino
di inconsuete speranze
di corale illusione.
Vedevi, anche negli occhi di un
bambino,
luci intessute in danze
e lampi di passione
ché si era chiuso il tempo del soffrire
ed apriva le braccia l’avvenire.
Dopo il gelo tornavano a fluire
calore e gioia in cuore
e il cupo disincanto
dello scettico prono al divenire,
rassegnato al dolore,
si apriva al riso e al pianto
e alla vergogna di essersi già arreso.
Di nuovo in piedi, uomo, a pugno teso!
Durò decenni il sogno vivo e acceso
di nuova umanità,
d’uomini tutti uguali
finché un indecifrato malinteso
ci svegliò a una realtà
di antichi uguali mali
e lo sconforto ci vuotò la vita
al veder l’illusione ormai finita.
Pure quella partita
fece di noi soggetti della Storia
d’un sogno puro di vita e vittoria
Ed oggi la memoria
mi porta a quelle sere di bambino,
a quelle notti di canzoni e vino.
(...)
"Il poeta è un grande artiere/ che al mestiere/ fece i muscoli d'acciaio..." Non so perché, durante la lettura dell'ottima e partecipe prefazione di Nazario e dei vividi versi intrisi di vita vera e pulsante di Tullio Mariani, mi siano ripetutamente tornati alla memoria questi lacerti poetici carducciani; forse è stato perché considero Mariani poeta serio, preparato e autentico, nonostante io non abbia letto molto di lui. Ma sono, e rimango, convinto che basti anche un numero esiguo di composizioni a rivelare la sicura presenza della poesia. Insomma, se il poeta c'è, c'è; e, se c'è, non si può far finta che non ci sia.
RispondiEliminaAnche per questo inserisco il presente commento; per offrire una mia testimonianza, con la quale dico "bravo" a Tullio per avere realizzata perspicua poesia e "bravo" a Nazario per averla proficuamente colta nella sua variegata epifania.
Pasquale Balestriere
Posso solo ringraziare Nazario Pardini, di cui apprezzo l'immeritato sostegno a quanto compongo in versi. Grazie anche a Pasquale Balestriere, che altre volte ha espresso apprezzamento per ciò che scrivo, e che mostra di saper distinguere tra pRoesia e poesia.
RispondiEliminaIl mio Timore è che qualche aspirante salvatrice di campidogli venga ad accusarmi diavere pubblicato una poesia sul padre e nessuna sulla madre e poi, intuendo la mia indifferenza, si prodighi a riversare astio e livore su una incolpevole Loriana Capecchi. Ma lasciamo da parte questo aspetto, capita anche ai cattivi come me di sprecare risorse di stima.
Grazie di nuovo ad entrambi.
Tullio Mariani