PRESENTAZIONE DI SOUVENIR D’ITALIE
DI ANGELO MANCINI
Sandro Angelucci, collaboratore di Lèucade |
È indispensabile prendere abbrivio
dall’epilogo. Non soltanto per esigenze chiarificatrici (come vedremo) ma
perché lo stesso rinvia al prologo, nel contesto del quale sono contenuti
alcuni versi di fondamentale importanza.
Angelo è ospedalizzato, ha subito “un
duro intervento chirurgico”, è “imbottito / gonfio di farmaci”, vorrebbe tanto
dormire ma non ci riesce. Fiuta, avverte delle sensazioni “distorte”, arrivando
a definirle finanche “malate”, e tuttavia sostenute - scrive - da una “strana
energia interiore”.
Ecco: questo vigore inconsueto, fuori
dall’ordinario, da cosa si origina? E come mai scaturisce dal tormento, dallo
scoramento, dall’afflizione?
“Un breve / lunghissimo incubo / ad occhi
aperti…” - si legge nel sopracitato epilogo -. Si è trattato dunque di un
sogno?
No, decisamente no. Al contrario, è stata
la nuda e cruda realtà che ha fatto emergere chi ride “dentro e fuori di (sé) /
nonostante tutto l’insieme (la condizione di sofferenza che gli tocca vivere)”;
è stato “proprio per tutto l’insieme… / inspiegabilmente” (ma anche
innegabilmente) che “come un pazzo / (come…un poeta)” egli ora si affida alla
corrente.
E da dove sgorga il ruscello? Dalla
sorgente del dispiacere che lo scrittore prova nel non amare il conformismo (Il poeta è per sua natura contro, si
confronti l’esergo di Pier Paolo Pasolini).
Il primo dei testi che compongono il
poema (come è bene definire Souvenir
d’Italie) è, nei fatti, una richiesta di accoglimento di scuse, un fare
pubblica ammenda d’essere poeta: il reiterato “Mi dispiace, / credetemi, / mi
dispiace” ne è chiara riprova. E la chiusa - superba - descrive l’immane dolore,
che prova chi è nato per comunicare ed offrire agli altri tutta la bellezza che
alberga nell’animo suo sapendo già di nulla potere contro l’inevitabile destino
di solitudine che lo attende.
Da qui, impetuoso, il torrente inizia
la sua corsa. Sono i giovani, gli studenti, i primi a doverci fare i conti:
nella terza composizione, Mancini si rivolge loro senza mezzi termini: “cosa
cazzo contestate / se tutto accettate / e v’inchinate / (mi piace mi piace…) /
ad ogni schiocco di dita / che arriva dall’alto… / . . . . / vittime siete
infatti / di Padre Consumo / lo sapete (?...)”. Il Nostro li vede come agnelli
sacrificali - per questo è amareggiato -. Si sente impotente di fronte
all’evidenza: “Pasolini // un poeta che / l’Italia / non meritava // ma molti
di voi / scommetto / non sanno / neanche / chi sia”.
Un J’accuse
che fa male in primis a lui, perché sa che dove si fermano i programmi
ministeriali, lì, si ferma anche la responsabilità degli studenti.
I ragazzi del sessantotto “c’erano
andati / molto vicino” - scrive, poco dopo, Angelo -. È vero ma perché, neppure
allora, seppero comprendere “le potenzialità…rivoluzionarie della poesia”?
Chiediamocelo anche noi il perché.
Io credo che la risposta consista in
questo: non diversamente da quelli attuali, anche quei giovani erano vittime di
un abbaglio e, paradossalmente, si ha a che fare con lo stesso tipo di
cantonata, un inganno idealistico di cui forse - anzi senz’altro - non erano
consapevoli ma che, purtroppo, ha finito col portarli proprio dove non
volevano.
È la storia dell’uomo, e sarà sempre
così a livello sociale, fatti salvi periodi nei quali si verificano particolari
condizioni di equilibrio.
Quando Mancini si scaglia con veemenza contro
la tecnologia, la superficialità, il vuoto, dice cose che lo fanno soffrire,
che preferirebbe quasi tacere ma la sua natura lo porta a denunciare. È a quel
punto che entra in ballo la poesia, la cifra della sua poesia, che si vale del
sarcasmo e dell’ironia con una doppia finalità: da una parte lenitiva per se stesso
e, dall’altra, provocatoria per il lettore.
Consentitemi di citare, in proposito e
per esteso, la sesta poesia: “oddio, tuo padre / tuo padre ha avuto / un
gravissimo / incidente stradale: / è in fin di vita… // va bene, ho capito, /
ma ora sto impazzendo: / non riesco a trovare / dannazione / il mio
smartphone!”.
Siamo al parossismo ma per scuotere, a
volte, è necessario portare l’animo al limite della sopportazione, e lo stesso
fruitore - colpito nel vivo - non potrà non immedesimarsi , non sentirsi
partecipe dello sdegno manifestato dallo scrittore.
Non mancano altri testi - nel libro -
che testimoniano l’innata propensione alla sardonica derisione che - tengo a
dirlo - è indice d’intelligenza sia perché investe l’autocritica sia perché non
attira le ire dei fautori del contrario, bendisponendoli anziché irritandoli.
Ci siamo soffermati, finora, sulla
caratteristica saliente della poetica manciniana: una poetica del contrasto e
contro corrente che non infastidisce tuttavia, trovando consenso in tutti
coloro che s’indignano, che sono nauseati dal conformistico consumismo dei
nostri giorni.
Chi - ditemi chi -, quale persona di
buon senso non si rende conto che stiamo raschiando il fondo del barile? Eppure
ci si uniforma, si accetta passivamente l’andazzo, il trend (per dirla con un termine in voga) anche se non tutti, per fortuna, si beano di essere alla
moda.
Sarebbe un errore, dunque, un
gravissimo errore intendere quella di Angelo come un’invettiva fine a se stessa,
se non addirittura considerarla pregiudizievole.
La sua è, invece, la presa di posizione
di un poeta che caparbiamente e ostinatamente non smette di lottare: è una
strada obbligata, non coercitiva; è un destino segnato, non assegnato.
“Io guardo / (e scrivo) / le cose del
mondo / da poeta / da artista; / il mio / è un occhio / fatto di / sensazioni /
di emozioni / istintuale.” - si legge a pag. 106 - e proseguendo: “Li ho letti
/ ed esaminati / con profondo interesse, / con umana apprensione” - ci dice
riguardo agli articoli dei giornali, alle notizie non certo incoraggianti per
il futuro - ciò nonostante il (suo) sguardo “vaga, comunque, altrove: / è
rovente smarrito / indignato amareggiato / (ingenuo, spesso) / ma, alla fine, /
ambisce, / malgrado tutto, / rivolgersi / umilmente / verso / il cielo”.
È un passaggio che reputo basilare per
la comprensione dell’opera: rivolgere umilmente lo sguardo al cielo significa
essere predisposto a farsi piccolo per non cedere all’arroganza, alla
prepotenza; non denota un’umiliazione bensì la convinzione che si può
rispondere al sopruso con ironia, con indignato sarcasmo ma mai con un’altra
prevaricazione, un’altra violenza. E, dunque, il cielo di Mancini va inteso in
senso lato: è il cielo della libertà, e della poesia.
Mi fermo qui - come Aldo Onorati al
termine della sua prefazione - e prendo in prestito la sua conclusione: “[…]
questo ‘sfogo’ (scrive l’amico) è solo apparentemente tale, perché al fondo
vibra un’anima inquieta e costruttiva, che ama la vita e vorrebbe, come tutti
gli uomini di buona volontà, migliorarla, valutarla, goderla nel suo
irripetibile (e aggiungo io: meraviglioso) senso del mistero.”.
Sandro
Angelucci
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