lunedì 4 febbraio 2019

SANDRO ANGELUCCI LEGGE: "SOUVENIR D'ITALIE" DI ANGELO MANCINI


PRESENTAZIONE DI SOUVENIR D’ITALIE
DI ANGELO MANCINI

Sandro Angelucci,
collaboratore di Lèucade

È indispensabile prendere abbrivio dall’epilogo. Non soltanto per esigenze chiarificatrici (come vedremo) ma perché lo stesso rinvia al prologo, nel contesto del quale sono contenuti alcuni versi di fondamentale importanza.
       Angelo è ospedalizzato, ha subito “un duro intervento chirurgico”, è “imbottito / gonfio di farmaci”, vorrebbe tanto dormire ma non ci riesce. Fiuta, avverte delle sensazioni “distorte”, arrivando a definirle finanche “malate”, e tuttavia sostenute - scrive - da una “strana energia interiore”.
       Ecco: questo vigore inconsueto, fuori dall’ordinario, da cosa si origina? E come mai scaturisce dal tormento, dallo scoramento, dall’afflizione?
       “Un breve / lunghissimo incubo / ad occhi aperti…” - si legge nel sopracitato epilogo -. Si è trattato dunque di un sogno?
       No, decisamente no. Al contrario, è stata la nuda e cruda realtà che ha fatto emergere chi ride “dentro e fuori di (sé) / nonostante tutto l’insieme (la condizione di sofferenza che gli tocca vivere)”; è stato “proprio per tutto l’insieme… / inspiegabilmente” (ma anche innegabilmente) che “come un pazzo / (come…un poeta)” egli ora si affida alla corrente.
       E da dove sgorga il ruscello? Dalla sorgente del dispiacere che lo scrittore prova nel non amare il conformismo (Il poeta è per sua natura contro, si confronti l’esergo di Pier Paolo Pasolini).
Il primo dei testi che compongono il poema (come è bene definire Souvenir d’Italie) è, nei fatti, una richiesta di accoglimento di scuse, un fare pubblica ammenda d’essere poeta: il reiterato “Mi dispiace, / credetemi, / mi dispiace” ne è chiara riprova. E la chiusa - superba - descrive l’immane dolore, che prova chi è nato per comunicare ed offrire agli altri tutta la bellezza che alberga nell’animo suo sapendo già di nulla potere contro l’inevitabile destino di solitudine che lo attende.
Da qui, impetuoso, il torrente inizia la sua corsa. Sono i giovani, gli studenti, i primi a doverci fare i conti: nella terza composizione, Mancini si rivolge loro senza mezzi termini: “cosa cazzo contestate / se tutto accettate / e v’inchinate / (mi piace mi piace…) / ad ogni schiocco di dita / che arriva dall’alto… / . . . . / vittime siete infatti / di Padre Consumo / lo sapete (?...)”. Il Nostro li vede come agnelli sacrificali - per questo è amareggiato -. Si sente impotente di fronte all’evidenza: “Pasolini // un poeta che / l’Italia / non meritava // ma molti di voi / scommetto / non sanno / neanche / chi sia”.
Un J’accuse che fa male in primis a lui, perché sa che dove si fermano i programmi ministeriali, lì, si ferma anche la responsabilità degli studenti.
I ragazzi del sessantotto “c’erano andati / molto vicino” - scrive, poco dopo, Angelo -. È vero ma perché, neppure allora, seppero comprendere “le potenzialità…rivoluzionarie della poesia”? Chiediamocelo anche noi il perché.
Io credo che la risposta consista in questo: non diversamente da quelli attuali, anche quei giovani erano vittime di un abbaglio e, paradossalmente, si ha a che fare con lo stesso tipo di cantonata, un inganno idealistico di cui forse - anzi senz’altro - non erano consapevoli ma che, purtroppo, ha finito col portarli proprio dove non volevano.
È la storia dell’uomo, e sarà sempre così a livello sociale, fatti salvi periodi nei quali si verificano particolari condizioni di equilibrio.
Quando Mancini si scaglia con veemenza contro la tecnologia, la superficialità, il vuoto, dice cose che lo fanno soffrire, che preferirebbe quasi tacere ma la sua natura lo porta a denunciare. È a quel punto che entra in ballo la poesia, la cifra della sua poesia, che si vale del sarcasmo e dell’ironia con una doppia finalità: da una parte lenitiva per se stesso e, dall’altra, provocatoria per il lettore.
Consentitemi di citare, in proposito e per esteso, la sesta poesia: “oddio, tuo padre / tuo padre ha avuto / un gravissimo / incidente stradale: / è in fin di vita… // va bene, ho capito, / ma ora sto impazzendo: / non riesco a trovare / dannazione / il mio smartphone!”.
Siamo al parossismo ma per scuotere, a volte, è necessario portare l’animo al limite della sopportazione, e lo stesso fruitore - colpito nel vivo - non potrà non immedesimarsi , non sentirsi partecipe dello sdegno manifestato dallo scrittore.
Non mancano altri testi - nel libro - che testimoniano l’innata propensione alla sardonica derisione che - tengo a dirlo - è indice d’intelligenza sia perché investe l’autocritica sia perché non attira le ire dei fautori del contrario, bendisponendoli anziché irritandoli.
Ci siamo soffermati, finora, sulla caratteristica saliente della poetica manciniana: una poetica del contrasto e contro corrente che non infastidisce tuttavia, trovando consenso in tutti coloro che s’indignano, che sono nauseati dal conformistico consumismo dei nostri giorni.
Chi - ditemi chi -, quale persona di buon senso non si rende conto che stiamo raschiando il fondo del barile? Eppure ci si uniforma, si accetta passivamente l’andazzo, il trend (per dirla con un termine in voga) anche se non  tutti, per fortuna, si beano di essere alla moda.
Sarebbe un errore, dunque, un gravissimo errore intendere quella di Angelo come un’invettiva fine a se stessa, se non addirittura considerarla pregiudizievole.
La sua è, invece, la presa di posizione di un poeta che caparbiamente e ostinatamente non smette di lottare: è una strada obbligata, non coercitiva; è un destino segnato, non assegnato.
“Io guardo / (e scrivo) / le cose del mondo / da poeta / da artista; / il mio / è un occhio / fatto di / sensazioni / di emozioni / istintuale.” - si legge a pag. 106 - e proseguendo: “Li ho letti / ed esaminati / con profondo interesse, / con umana apprensione” - ci dice riguardo agli articoli dei giornali, alle notizie non certo incoraggianti per il futuro - ciò nonostante il (suo) sguardo “vaga, comunque, altrove: / è rovente smarrito / indignato amareggiato / (ingenuo, spesso) / ma, alla fine, / ambisce, / malgrado tutto, / rivolgersi / umilmente / verso / il cielo”.
È un passaggio che reputo basilare per la comprensione dell’opera: rivolgere umilmente lo sguardo al cielo significa essere predisposto a farsi piccolo per non cedere all’arroganza, alla prepotenza; non denota un’umiliazione bensì la convinzione che si può rispondere al sopruso con ironia, con indignato sarcasmo ma mai con un’altra prevaricazione, un’altra violenza. E, dunque, il cielo di Mancini va inteso in senso lato: è il cielo della libertà, e della poesia.
Mi fermo qui - come Aldo Onorati al termine della sua prefazione - e prendo in prestito la sua conclusione: “[…] questo ‘sfogo’ (scrive l’amico) è solo apparentemente tale, perché al fondo vibra un’anima inquieta e costruttiva, che ama la vita e vorrebbe, come tutti gli uomini di buona volontà, migliorarla, valutarla, goderla nel suo irripetibile (e aggiungo io: meraviglioso) senso del mistero.”.

                                       Sandro Angelucci

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