NAZARIO PARDINI
I
dintorni della solitudine, 2019
ILNUMERO DI TELEFONO DELLA CASA EDITRICE GUIDO MIANO: 023451804 |
Questa
nuova silloge di Nazario Pardini I
dintorni della solitudine è costituita da tre sezioni, di cui la prima,
molto estesa, raccoglie testi dalla tematica unitaria che fa capo alla visione
che il poeta ha del reale, un tempo
definita, nella terminologia filosofico-letteraria tedesca, Weltanschauung, parola oggi un po’
desueta, ma sempre efficace sintesi di un concetto epistemologico ampio e
complesso. È stato detto più volte che la sua è una poesia che trascorre dal
presente al passato, dal reale alla visione memoriale che lega la sua anima al
vissuto di un’infanzia e di una giovinezza idealizzate, rese nostalgiche alla
stregua di un paradiso perpetuamente agognato e inesorabilmente lontano. Nella
lirica di apertura L’ultimo autunno
compare già uno dei temi più ricorrenti nel tessuto dell’opera, quello del
trascorrere del tempo nelle stagioni che si fanno simbolo delle tappe
biologiche della nostra vita: “Sarà bello abbracciarsi” dice il poeta alla sua
donna “sarà di nuovo bello / confondersi coi lampi di una fine, / come lo era,
/ coi fremiti nascenti delle fronde.” Ciò che stupisce è la valenza simbolica
delle immagini, tutta giocata tra presente e passato, tra vita reale e ricordo;
l’assimilazione de “i lampi di una fine” con la stagione amorosa del presente
in cui vive un autunno metaforico - e
quella dei “fremiti nascenti delle fronde” che al di là della primavera reale
richiama quella simbolica degli amori giovanili. Si coglie, in questi
brevissimi accenni, il perfetto parallelismo tra le stagioni della natura e
quelle dell’uomo. Altro tema ricorrente è quello dell’esistenza messa di fronte
al suo destino di morte: nei versi di Piccioni
lo sguardo trascorre ammirato sulla naturalità e bellezza della loro esistenza,
del loro volo, espressione purissima di libertà. Il componimento porta avanti
una lunga strofa gioiosamente descrittiva, e all’inizio della seconda ed ultima
strofa, molto breve, esordisce con l’improvvisa sgomenta constatazione: “E poi
la morte.” Ed è come se il poeta trovasse sorprendentemente incongruo
l’esistere di tanta vitalità e bellezza
di fronte all’imperiosa, ma anche misteriosa,
necessità della morte. Il tema dell’abbandono è presente in molti testi, a
cominciare da Il falcione che per i
toni mesti, in parte crepuscolari, e nostalgici, richiama “l’aratro in mezzo
alla maggese” di matrice pascoliana, ma anche la vena vagamente ironica di
certi versi gozzaniani. “(...) ha perso la sua foga tra le miste / ferraglie di
cantina; (…) ed i suoi suoni (…) sembravano dei canti a primavera. // Ora è lì,
senza voce: una bestia ferita, / (…) Nemmeno ti risponde se lo chiami.” Anche
nella lirica L’aratro ritroviamo lo
stesso tema: strumenti che prima erano parte integrante della vita di chi li
usava e che ora giacciono dimenticati. Una caratteristica li accomuna: il loro
vibrare di un’inopinata umanità che osserva, pensa e si duole della sua stessa
sorte. Questa umanizzazione e personificazione dell’ oggetto, saldamente
ancorato all’ambiente e al lavoro dei campi, è una delle peculiarità di tanti
testi in cui, ritorna il ricordo di quel paesaggio, della vita e dei costumi
familiari, che il poeta riconosce come sue lontane radici: un mondo fatto di
elementi desueti e nostalgici - e dunque poetici per eccellenza - in cui
grandeggia il mito di un’età dell’oro vagheggiata e lontana. La lirica Lo stradone e diverse altre della stessa
silloge, sono accomunate da uno stesso sentire: abbandono e amarezza della
solitudine che reca in sé un interrogativo inquieto e mai sopito. E anche qui,
le cose si animano di una vita propria, si umanizzano e partecipano di una visione
e di un sentire che è tipicamente umano. Nella vibrazione di certe atmosfere
pascoliane, si potrebbero collocare pure alcuni versi di Le case. Il poeta scrive: “E mi domando spesso: / ‘Ma le pareti
terranno in memoria / le parole d’amore, i grandi affetti, / le promesse di
fede, gli urli e i canti…’ (…)”. In essi si stempera il presupposto che, in
qualche modo, ci riconduce alla dimensione del “nido” familiare, mito
pertinente agli affetti e alle memorie del poeta romagnolo. Nel componimento
intitolato La giacca, presente e
passato ancora si legano per misteriosi e carnali richiami. Il poeta ricorda una giacca che era stata del
padre, poi del fratello, e di cui non rimane che un piccolo lembo di velluto: “
(…) Fu mia madre / a ricavarne un brandello. Mi diceva: / “Profuma di persona,
di stagione; / sa di storia passata, di vicende; / annusa! C’è tuo padre in
questa stoffa, / tuo fratello”. Ci andavamo a cacciare, / ed il coniglio, la
lepre, o il fagiano / penzolavano giù (...)”. Per vaghe suggestioni e richiami,
questi accenni evocano il ricordo della sindrome proustiana, dove la semplice
fragranza delle madeleine richiama tutto un mondo che, per vie indefinibili e
misteriose, è ad esse legato. Anche il ricordo della giacca, che ha una sua
storia, un suo vissuto, ed è intrisa della materialità del padre e del
fratello, è in sé piena di tanto altro: del ricordo degli scambievoli affetti
familiari, di quello della caccia e della gioiosa e sana vita dei campi, che
riappaiono in un percorso a ritroso che ramifica man mano che si addentra nelle
memorie di un passato divenuto mito. Il testo intitolato Pandoro è dedicato alla figura indimenticabile di un cane, il cui
nome è già di per sé un’icona ben definita: è tutto un dono per il suo padrone.
I versi accennano alla struggente vicenda di affetti semplici e incrollabili di
cui l’animale è protagonista, vicenda che, per analogia, ci riporta a quella
che i versi immortali di Omero resero mitica attraverso la figura del cane
Argo. Il poeta canta spesso la sua terra, la Toscana, la sua grandezza e
bellezza, le memorie illustri, l’arte,
la sua storia. Bellissimo l’incipit della lirica Vieni al mio paese con quel gentile richiamo al forestiero: “Vieni
a trovarmi, caro forestiero. / Vive da me ogni palpito di storia, (...)” E
cantando la sua Terra, il poeta sembra incarnarsi in essa: un sentimento panico
cui aderisce corpo ed anima. La seconda sezione del libro
Verso la luce è un poemetto che
dispiega una visione onirica, indirizzata a percorsi salvifici. È istanza di
riconquista di quel “paradiso perduto” che racchiude infanzia e giovinezza, e
una vita campestre gioiosa e vibrante di affetti: il “nido” che condensa gli
ideali custoditi nel santuario dell’anima. I versi di apertura descrivono un
cammino arduo, instancabile e periglioso che è
il traslato della vita: “Cercavo la luce. Camminavo, / e camminavo
sempre, e camminavo, / per monti, valli, e fiumi. Per campagne, / per boschi.
Mi infilavo tra i rovi e le sterpaglie:
il mio corpo sanguinava (...)”. Il sogno ha le sembianze di una discesa agli
inferi, dove l’impervio e selvatico cammino, per grandiosità e icasticità di
immagini, riporta alla mente - unitamente alla sua valenza allegorica - il
percorso infernale e “la selva oscura” di dantesca memoria. Le figure del fratello
e del padre, insieme ad altre apparse al poeta lungo l’immaginario cammino, gli
indicano la strada che riconduce al cuore delle sue memorie, a quel luogo
santo, agognato, cui abbiamo fatto riferimento, e che incarna, nella sua luce,
ideali di ancestrale purezza. Nel simbolico arrivo di questo percorso non si dà
il raggiungimento di vette sovrumane nell’astrattezza ideale dei voli pindarici
della nostra immaginazione, ma il poeta
sembra volerci dire che l’unico reale “paradiso”, concesso agli uomini, è
quello si attaglia alla dimensione umana. E la luce che illumina i valori
eterni dell’uomo, attraverso la strada dell’Amore e della Purezza, non è che
quello stesso “piccolo raccolto paradiso” custodito nel mito delle sue memorie.
Nella terza ed ultima sezione, intitolata Dialogo
ci troviamo di fronte ad un immaginario contraddittorio tra la Storia, che
diviene personaggio, e un personaggio della Storia, che è lo spartano Leonida.
Ognuno di due rivendica con autorevolezza
il proprio punto di vita. Leonida chiarisce le ragioni che lo hanno
indotto ad immolare i suoi trecento valorosi uomini alle Termopili: “Solo la
vera libertà mi era cara. / Solo il pensiero di essere soggetto / mi rendeva
infelice. / Inappagato”. E la Storia sciorina le proprie superiori ragioni
facendo riferimento al valore delle azioni dell’uomo in quanto lascito alla
posterità. Ancora una volta, come spesso accade, il testo apre a suggestioni
molteplici, provenienti da altri versi e da altri poeti; in particolare, qui,
mi tornano in mente certi componimenti di Luis Cernuda, anch’essi strutturati
in forma di contraddittorio, di disputa tra tesi contrapposte, come è, ad
esempio in L’adorazione e dei Magi e
ancor più in Notte dell’uomo e del suo
demonio.
Rossella
Cerniglia
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaSono così felice di vederLa pubblicata da Guido Miano Editore.
Un nuovo volume della collana Alcyone 2000:
il Suo, Nazario Pardini, "I dintorni della solitudine". Titolo centrale della Sua poetica, splendido; così come è splendido seguire il Suo viaggio verso L'isola che non c'è perché sì, l'uomo è solo sul cuore della terra, è isola a sé stesso che, viaggiando, torna al cuore, al centro di sé, alla sua libertà.
Cari auguri... l'abbraccio
Rita Fulvia
Non ho l'onore di conoscere Rossella Cerniglia, ma avverto
RispondiEliminala necessità di congratularmi con lei per la recensione dell'Opera del carissimo Nazario. Mi ha particolarmente colpita la vena letteraria e la scelta di rendersi fruibile pur toccando tutte le corde delle tematiche del Poeta. Conosco l'attitudine di Nazario a ricorrere alle isole della memoria, a visitarle con nostalgica malinconia senza indugiare in inutili rimpianti. Conosco altresì la sua tendenza a rapportarsi con la morte, che talvolta ricorda il mondo cileno, il desiderio di viverla come una stazione della vita, non l'ultima, una delle tante... Ma non ho letto l'Opera "i dintorni della solitudine" e l'ho 'assaporata' con i cinque sensi grazie all'analisi epistemologica della dottoressa Cerniglia. Ella cita passi struggenti delle liriche di Nazario e li commenta in punta di piedi, senza ostentare le attitudini di critico letterario, che possiede. I versi, come sempre, sono cammei. La metrica è moderna, viva, vibrante. E dimostra che nessun tipo di espressione artistica può cadere nel dimenticatoio o apparire desueta se coltivata da simili 'giardinieri'... mi si permetta l'espressione.
Rivolgo ancora i più caldi complimenti a Rossella Cerniglia e al mio Nazario e auguro loro ogni bene.
Maria Rizzi