Sandro Angelucci, collaboratore di Lèucade |
Quello che leggerete è un dialogo a tre
ma non perché siano tre le parti che interloquiscono tra di loro; o meglio,
sono tre ma ognuna parla con l’altra dopo aver disquisito con se stessa: dunque
un unico e trinitario discorso.
E, neppure, sono tre se si pensa che
una quarta se ne aggiunge: mi riferisco al linguaggio figurativo del marito di
Mariagrazia, Luciano Ricci (pittore, grafico e fotografo di riconosciuto valore
nazionale e internazionale) che impreziosisce il libro con immagini artistiche
di assoluto riguardo
Chi sono, dunque, i protagonisti di
questo confronto? Sono l’Autrice, la Natura (specialmente, di essa, il regno
vegetale) e la Poesia.
Bene - come dicevo - ciascuna di loro,
ancor prima di esternarsi, s’interroga ponendosi quesiti profondi, domande che
intendono portare in superficie ciò che si agita, come magma, nella pancia del
vulcano, nel cuore dell’anima. Tanto che nel suo Invito, la poetessa così si esprime: “Lasciami liberare voci / che dicano
silenzi da toccare // che smuovano l’effimero / dal campo dorato del non
detto.”, rivolgendosi ad un
ipotetico lettore e concludendo con un icastico “verrai?” con il quale si apre appunto all’altro, e dunque al
confronto.
E già prima di dirlo in poesia, nella
sua nota introduttiva al testo, - che in parte intendo riportare per non
privarvi di un’autentica emozione -, con queste parole ella si rivolge a chi si
appresta a leggerla: “ […] Così, a te che
leggi, vorrei consigliare di sfogliare queste pagine, come fossero foglie di un albero che si incontra, si guarda,
magari si ammira, con la consapevolezza, però, che la forza, la bellezza, il
ristoro e il dono vengono dalle radici che non si vedono, dal loro lavoro
profondo, sotterraneo, capace di far circolare il nutrimento in superficie. Una
metafora che i fogli/foglie della silloge spero lascino intravedere, tanto da
far apparire, come in una radiografia interiore, la linfa che li percorre.”.
Il fruitore viene chiamato in causa, ma non
soltanto da lei. Anche le foglie, appunto, gli parlano: “…sotto / l’empietà delle nubi / tenacemente / il respiro doniamo / al
mondo.”. Anche i versi lo fanno: “Ascoltami
di notte / quando i respiri / entrano nel sonno / e le stelle chiudono le
ciglia / sotto coltri di nubi / riempite
dal mio soffio”; “Ascoltami di notte
/ quando rubo ai lupi / l’ossessione / quando gl’incubi covati / nel cupo della
mente / straziano il gelo del cielo / dell’inverno”.
Questo, tuttavia, è il secondo
passaggio: prima v’è stato il rapportarsi, lo stabilire un contatto interiore
che consentisse di trasferire l’essenza di sé alla comprensione della sostanza
dell’altro. Né più e né meno ad imitazione ed esempio del lavoro oscuro, ma
essenziale, che fanno le radici nel loro produrre, non viste, linfa vitale.
Testi come Violino (stupenda), ad esempio - lo strumento che prende la parola
per raccontarsi - non sarebbero mai nati se la Natura, precedentemente, non
avesse trasfuso il fruscio della selva, i respiri dei nidi, il sapore
del miele, il colore della resina in quel corpo di legno, e mai e poi mai
il violino avrebbe potuto “suonare la
foresta che (è) / sublimata”.
Allo stesso modo, mai e poi mai
Mariagrazia avrebbe scritto Questo verde se
l’accoglienza non fosse partita
proprio da lì, dalla vegetazione dell’Appennino, così antico, aspro, carezzevole, ostile. E, meno che mai, sarebbe
riuscita a chiudere con l’epifanica scelta di quel suo - graficamente e
etimologicamente voluto - bene dico.
Ecco: direi proprio una benedizione
questi versi, un dire bene e un dire per il bene da parte di ognuna delle voci
che si svelano e si danno appuntamento in queste pagine di vera e intensa
spiritualità; un coro che si alza dall’orizzontalità piatta ed asfittica del
nostro tempo per elevarsi a più alte vette, a più vitali ed aperti orizzonti.
È improrogabile il bisogno di ascoltare
cos’hanno da dirci la Natura e la Poesia, la necessità di tastare la sofferenza
dell’una e dell’altra: un pianto che, tuttavia, si rende necessario per tornare
a sorridere sul serio, non vanamente; un riscontro, una verifica perciò, che
spingano a renderci consapevolmente edotti sull’effettivo grado di benessere
della società umana e dei singoli individui che la compongono. I libri di
storia, purtroppo, ci hanno insegnato poco o nulla ma c’è un altro libro - non
scritto - che quotidianamente mette a nostra disposizione, con gli esempi,
tutta la saggezza che ci occorre, non dico per essere felici, ma equilibrati e
in armonia con le leggi cosmiche: il che vale molto di più della felicità.
Abbiamo preso (e non da oggi) un grosso
abbaglio razionalistico, ossia ritenere che separandoci, prendendo le distanze
da quelle coordinate ci saremmo finalmente liberati dalle catene della
necessità; non è così ma esattamente il contrario: abbiamo barattato la nostra
libertà con una sempre più chimerica e ingannevole illusione (basta guardarsi
intorno per rendersene subito conto).
C’è un testo, tra quelli qui raccolti,
che è premonitore (come d’altro canto si legge nel sottotitolo): mi riferisco a
Il fico. Si tratta di una scena alla
quale forse tutti abbiamo assistito: il frutto, giunto a maturazione completa,
si spacca in un parto aperto ed il
moscone gli gira attorno in un fastidioso e continuo ronzio. Mariagrazia -
bambina - cerca di sottrarvisi facendo acquistare velocità all’altalena sulla
quale sta oscillando ma lo stratagemma non funziona: il volo la insegue e
diviene ossessivo. La poesia si chiude con questi versi: “Di fuggire speravo / il nero ronzio…// ed è trascorsa una vita”.
Non è una persuasiva metafora
dell’esistenza umana? Non è la stessa un’alternanza di stati contrastanti che
ci fanno continuamente fluttuare? Nel nostro caso, però, la poetessa va oltre:
non si limita a constatare l’ondeggiamento, ella si sente molestata da quel nero ronzio (incisiva sinestesia, tra
l’altro). E cosa - di nuovo allegoricamente - rappresenta il brusio?
Simboleggia una sorta di malessere, un qualcosa che turba e distoglie, che ci
allontana dal gioco, dall’altalena che, pur portandoci ora in alto ora in
basso, ci tiene in equilibrio.
C’è un essai di Montaigne - riproposto
all’inizio, in calce alla prima delle opere di Ricci - che recita così: “La natura non è altro che una poesia
enigmatica”: sarebbe opportuno riflettere su questa affermazione, anche
alla luce di quanto lui stesso affermerà sulla sua opera più importante: “L'argomento del mio libro sono io”.
Contiene, l’aforisma, contemporaneamente,
la migliore definizione che si possa dare e della poesia e della natura. Sono
termini - anche questi - di cui si sta abusando omologandoli, facendoli
rientrare nella generale massificazione: l’enigma, il mistero se si vuole, di
cui parla il noto scrittore, filosofo ed aforista francese, sfugge a qualsiasi
tentativo d’ingabbiamento; la poesia - al pari della natura - non vuole svelare
nulla ma insegnare (etimologicamente: “imprimere
segni nella mente”) senza alcuna presunzione, senza mettersi in cattedra,
invitandoci maieuticamente a rinvenire in noi il senso arcano dell’esistenza.
Per chiudere il cerchio: Foglie e fogli
, certo. Voli di foglie dai rami alla terra e, sulla carta, cascate di sillabe,
concerti di parole.
Grazie Sandro per questa acuta, esauriente lettura della mia ultima silloge e per la postfazione al libro che ha avuto il suo felice battesimo a Roma, presso l'amicale ospitalità di Iplac al caffè letterario Horafelix. Avevo già lasciato un mio commento che è sparito... mentre spero restino queste mie poche, sincere parole di gratitudine..
RispondiEliminaLeggo solo ora per assenza giustificata e tengo a ringraziare Mariagrazia e il mio Sandro per quest'evento di altissima levatura artistica e umana. Le liriche, legate alla natura, hanno reso 'bosco' la libreria e ci hanno trascinato in una magica voragine di radici, di verità, di umiltà. Sandro e Franco hanno dato risalto alle poesie filmiche dell'Autrice e Loredana D'Alfonso, ancora una volta, ha reso omaggio ai versi recitandoli con efficacia e bravura. Mi ha molto colpito l'espressione di Mariagrazia: " non voglio essere definita poetessa"... Solo i grandi rinunciano ai titoli, anche a quelli che spettano loro di diritto.
RispondiEliminaVivono l'arte con spontaneità e naturalezza, senza ritenerla un habitus. Magnifica donna e serata indimenticabile. Le rivolgo gli auguri più cari, scusandomi per il ritardo. Un abbraccio a tutti gli amici e, ovviamente, a Nazario.
Maria Rizzi