Epistola d’inverno II
Patrizia Stefanelli, collaboratrice di Lèucade |
Ora ti scrivo. Di nuovo è quasi inverno e qui, dal ponte della mia finestra sulla valle, intuisco dintorni di solitudine. Il noce ha perso le foglie… vorrei fermare questi pensieri decadenti, come le foglie. Con tutto quello che accade nel mondo ben altre sono le solitudini, lo so, ma la natura è una grande insegnante e ci dice che è così che va, che tutto va, oltre la morte, nel rinnovamento. Forse, anche il fare crudele degli uomini, fatti a Sua immagine e somiglianza, forse anche quello è giusto? La legge del più forte non cede a compromessi? Resterà ciò che vale? È il tardo autunno ma in queste terre dell’Agro Pontino esso è una bolla d’aria che resta sospesa, in attesa… Non voglio cercare parole giuste, non credo siano necessarie affinché tu mi comprenda dacché già lo fai.
Il
giallo caldo della copertina del tuo libro, a me daccanto, ha lo stesso colore
di quelle foglie del noce cadute sul terrazzo. Sì, ci ritorno. Tu sei albero e in
caduta dai tuoi rami sta la parola del sentimento. Ma non il sentimento
nell’accezione vaga che ormai gli si attribuisce, ma in quella di “senso” così
com’era nelle antiche dizioni poetiche. In questo modo la tua poesia mi trapassa;
la sorseggio con un caffè alle sei del mattino; nel fondo della tazzina i
residui hanno disegnato un cuore.
Qualcosa vorrà dire? Resto alla Domanda, la lascio a decantare fino alla trasparenza.
Qualcosa vorrà dire? Resto alla Domanda, la lascio a decantare fino alla trasparenza.
Distinguo i dintorni della
solitudine
L’ultimo
autunno che vivremo assieme/sarà per impolparci dei colori/della nostra
stagione. Verrà il mare (…)
Il
mare radice materna e suo simbolo per eccellenza è anche archetipo della
coscienza, pertanto immagine positiva e negativa al tempo stesso. Con questi straordinari
versi sembra chiudersi un ciclo stagionale mentre il Poeta si apre alla consapevolezza
di un nuovo evento: Sarà bello abbracciarsi;
sarà di nuovo bello/confondersi coi lampi di una fine, /come lo era, /coi
fremiti nascenti delle fronde. (L’ultimo autunno).
L’uomo-albero
conosce il valore della vita e del fremito che ne anima il compiersi; usa il
modo verbale non finito del participio presente per suggerirne il movimento, la
qualità della sua evoluzione nel gesto espressivo del correlativo oggettivo. Se, come diceva Paul Valery, il primo verso
lo dà Iddio, in questa poesia Egli ha versato l’ultimo.
E
diventa uomo-mare Nazario Pardini, con la sua voce d’acqua, nell’opera che ha
per titolo La solitudine del mare, a
bramare la riva e le luci di Natale quando nessuno, a parte qualche innamorato,
lo cerca nel suo inverno. È chiaro quanto e come le trasposizioni d’immagini
interiori, sostanzino la sfera lirica annullando ogni distanza tra l’uomo e il
mondo. Che altro dovrebbe fare una poesia per Essere? Nulla, credo, oltre il dasein.
Bianchi, bigi, rossi, sopra il
tetto/si assiepano, la testa fra le piume, /a tu per tu col vento. Sono
liberi./Appena il sole sbuca da levante/scuotono il manto e volano decisi/sui campi a becchicchiare qualche seme.
In
questi versi, di sintassi chiara e pulita, c’è la forza di una profonda
riflessione ontologica: il piccione è quel che è, non si chiede cosa fare, non
ricerca fama o fortuna, vive, si nutre e muore così come deve essere, libero
dallo gnommero gaddiano proprio dell’esistenza
umana. E ancora, si evince bene dalla poesia, quanto il Pardini dia rilievo al
concetto di “libertà” insito anche nell’idea della morte ordinatrice di tutte
le cose: (…) E poi la morte. Dove andranno a
morire/ quando la sorte tocca?/Non ce n’è traccia. Sarà forse il destino/a riservare loro un
angolino?( Piccioni). Un angolino come quello che
occorre riservare a un Poeta quando l’ombra indicherà la sua sorgente di luce.
Gli uomini passano ma la loro arte e il pensiero filosofico che la permea non
passeranno; saranno faro che tanto ci
dice /dell’umana portata degli umani, nella continua ricerca di una verità.
Una portata che termina sul confine
delle consuetudini e delle certezze per aprirsi al desiderio di un ultimo
infinito intuìto laddove nessuno vede.
Ogni cosa parla al Nostro Poeta
di cui in corsivo riporto i versi, e diventa il Poeta e i suoi ricordi: Il
Falcione che aveva avuto mani amate per sostegno; il brandello della giacca in velluto profumata di paterna e
fraterna memoria. (…) Era l’unico a farmi
ritornare/col profumo intenso di velluto/a tutto il mio vissuto. Mi parlava.
(La giacca).
In questa silloge, più che in
altre, gli oggetti parlano al poeta, sono vivi e pregni di un passato da raccontare,
antropomorfi e con intenti allegorici. Essi sembrano avere una propria vita. Come
non ripensare a Marcel Proust nella sua ricerca della felicità
perduta quando ci dice: “Basta che un rumore, un
odore, già uditi o respirati nel tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali
senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente, e solitamente nascosta,
delle cose sia liberata…” Ecco,
questa è la meraviglia del risveglio di sensazioni tanto vive da essere reali
in versi di alta significazione che tanto dicono dell’Uomo
venuto dalla sua memoria.
La poesia di Nazario Pardini, senza
dubbio una poesia molto ispirata e di mestiere, chiede all’endecasillabo
(spesso declinato nella sua solennità in “a maiore” non disgiunto da
anisosillabismo quando occorre) di alludere senza svelare, evocare senza
scoprire, incantare senza stravolgere, portandoci nel suo mondo passando per il
nostro, facendoci cogliere le corrispondenze e la Bellezza comune donando i
suoi occhi e la sua voce a ogni oggetto di cui traccia la storia: Sono un aratro stanco/ malandato, /ma più delle ferite corporali/mi dolgono i risvolti della vita:/questa fine tra aggeggi logorati, /fra attrezzi arrugginiti dall’età.
La
sensazione straniante che chiamo “deserto del sublime” mi arriva fortemente
leggendo In una immensità che ti rapina
(stesso titolo di un’altra poesia). È una lirica magnifica. Ecco, sono fuori da
ogni ingranaggio di pensiero. Quel fiume, di cui il Poeta ci parla con alta
condensazione emotiva, è madre e padre, desiderio di ritorno, genesi: (…) Verserai / il tuo letto nei campi per
disperdere/ memorie ormai sfuocate; per concederti/ a quella terra a cui
donasti il sangue (…). I versi sdruccioli portano all’estremo il
significato del corpo poetico incarnando un ritmo fatto di “crescendo”, cuore
pulsante della lirica. Armonia e prosodia sono parte del contenuto
così come le figure di pensiero sempre molto incisive riposte quasi per caso
tra le strofe come la camelia di fine verso: (…) Corri, corri, /vento selvaggio, corri a perdifiato/fino a
incontrare il volto di colei/che chiese al tempo di volgersi in camelia (…). (Scoprimmo).
Tra gli
effluvi malinconici delle anafore, nell’accorato imperativo-preghiera rivolto
al vento, s’intravedono possibilità di
senso. Una camelia è simbolo d’amore, del grande sacrificio fatto per amore, di
carattere forte e solido. Essa si stacca dal ramo conservando fino alla fine la
sua Bellezza fino a fermare il tempo nella vivezza del colore. È un amore di
terra e grano col rosso dei papaveri a far sangue. Visioni drammatiche perché
alla dolcezza di immagini come i candidi
piedi nudi, segue la crudezza di un
fiore strappato, di uno stretto piano
sul quale brancoliamo nella nebbia col desiderio di conoscere quella fine del mondo alla quale anela
chi cura fino in fondo un grande sentimento.
Il desiderio del
limite e l’intuizione del Mistero intessono la poetica equorea di Nazario Pardini. La realtà della sua Isola è uno
degli aspetti fondamentali così come l’al-di-là da questa; ogni al-di-là che ne
dispiega i dintorni fino ai confini che destano dubbi umanamente irrisolvibili
e domande senza risposte:
(…) Tutto è deserto. Solo le criniere/che svolazzano al vento come i
panni/stesi ad asciugare da mia madre./Come farò a dirglielo al mio babbo/se mi
tornasse in sogno questa notte. (Disatteso). Nazario Pardini parla spesso
di suo padre e di sua madre, e ci commuove. Loro sono in lui, nella sua
malinconia, a dare corpo al sogno di un campo disatteso e di una vigna in cui
da bambino succhiava acini d’uva bianca mentre la mamma stendeva panni al sole.
Suo padre sorrideva sornione, lo abbracciava. Ora in quel campo ci sono
cavalli. Tutto si confonde, sogno e realtà si portano ai ricordi svegliando
nostalgie necessarie, siamo grandi e siamo bambini: è il gioco della vita/ che se ti lascia tu ti trovi solo/senza saper
perché ti sia sfuggita/quella spiaggia su cui/ti sei giocato il mare. (Giocarsi
il mare). Torna il mare col suo ritmo, a slargargli sempre il cuore là dove con
Delia si cullava nell’amore, in una sensuale poesia dai toni caldi in cui il
paesaggio danza insieme ai sensi che vanno Verso
la foce.
Tutta
un’esistenza passa dai versi di
questa bellissima e corposa silloge. Non può sfuggire a me, teatrante, la
certezza che la finzione non falsa la recita. Sul palcoscenico della vita siamo
la nostra maschera, la persona che rivive nel personaggio, attenta al
movimento, allo sguardo, al sangue che batte sulle tempie l’istante. (…) vivi l’attimo/non ti chiedere altro; non
pensare/alla miseria umana, al suo degrado,/ fingi che il momento sia per
sempre. /È l’unico sistema per fregare/lo scettro imperituro della sorte. (La
Poesia si scrive).
È tardi, caro professore
del treno (della poesia Il treno corre), sì, dico proprio a lei.
Il sole è ormai alto e il tempo per la lettura è finito. Lei per me è reale, le
sue parole la inverano al mio sentire perché il nostro ruolo ci impersona; lei,
che ha da spiegare all’università la rivoluzione,/Quella
francese, la grande;/ quella che ha cambiato il mondo intero, guarda
teneramente la figliola di fronte cogli
occhi lucidi e generosi di una lirica del Pardini. Sa, siamo tutti spettatori
e attori al tempo stesso e quando si chiude il nostro sipario, ci apriamo al
paradosso del sentimento reale.
E anche tu, Storia, anche tu sei un personaggio,
un’invenzione e come Poesia tenterai l’approccio all’eternità. Taci, non
chiedere a Leonida se ha pentimento
per quei 300 sacrifici. Non sarà sempre uguale il tuo pensiero che si declina
sempre al presente. Lo cambierai secondo il punto di vista e le tue scoperte. Scire
nefas.
Poesia, non sapevo del muro della tenebra più nera; tra i versi del Nostro Poeta la Luce
mi era apparsa subito come un’epifania. Tu l’hai condotto là da dove io già lo
credevo, e seguirò la mappa che ha tracciato, per il mio cammino. Tenterò. Non
vedrò la casa stretta delle mie memorie,
e mia madre non mi attendeva/ con in mano
le vesti fresche e nuove/da porgermi al ritorno dalla scuola. Cammino
guardando avanti e cerco tra i rovi dolci sembianze e le trovo nella sincera amicizia,
in questo istante in cui una voce di bimba mi chiama. E vado. Verso la luce.
Grazie, Nazario, per il magnifico dono del tuo
libro che mi ha dato tanto di te e di me. Come sempre.
Con affetto e stima.
Patrizia
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