MAKOTO ŌOKA e la nuova poesia giapponese
Traduzione da Pierre Dubrunquez
Come
succede che, all’improvviso dall’intrico di una lingua sconosciuta una parola
si distacchi circondandosi di echi stranamente familiari? “Inquietante
stranezza”, di essere, dall’altra parte del mondo, interpellati da questo poeta
moderno, testimone del crepuscolo degli dei, degli elementi restituiti alla
loro avventurosa gravitazione e a un surrealismo esacerbato.
Grido
del nostro desiderio accolto nel vivo di una sconcertante tradizione culturale.
La poesia Makoto Ōoka ci riporta alla “parte più nascosta del nostro essere”.
Forse ciò che Henri Michaux aveva scoperto in Asia? Due volte si fa udire la
voce dell’Origine. La prima volta nella lingua. Lingua mitica che noi sogniamo
anteriormente alla scissione dell’essere e del suo manifestarsi. Lingua
connaturale al mondo. Simbolica e feconda a fasi alterne. Suo tramite gli
imperatori decaduti continuarono segretamente a regnare; e ricorderemo a questo
proposito Go – Toba che ricostituisce, al tempo di Bernard de Ventadour,
l’ordine delle stagioni delle feste, dei sentimenti con il retaggio di duemila
poemi. Lingua che il poeta canta soltanto in una scelta antologica, dove egli
appare fugace, nella successione di voci innumerevoli che tessono la frase di
un renga. Lingua che conoscerà né la storia né i torbidi commerci
dell’anima. Lingua felice, per vocazione poetica, la sola nella nostra
immaginazione fornita di capacità intuitive sotto la ragnatela serrata delle
parvenze di complesse rispondenze, meno simboliche che sensibili. Talmente
privilegiata questa lingua che, pur spogliata d’essa stessa alle nostre
orecchie, la poesia di Makoto Ōoka fisserà tra l’uomo e la terra ancora un
sorprendente connubio:
I tuoi seni brillano nella sorgente
e sotto le nostre ciglia
un mare e un frutto saturi di sole
calmi si schiudono nella loro compiutezza
Surrealismo creato qui appositamente come conseguenza della Lingua considerata nella sua assolutezza.
Ma la voce che canta l’origine del mondo è anche la mia voce che grida, che annunzia ai pochi di questa terra e di questo tempo una nascita più inquietante: quella della sensibilità moderna dei suoi incredibili dissidi, del suo scontrarsi in modo radicale col demone saturniano della storia.
Faccio
riferimento a un popolo che interroga nell’uomo questo essere singolare né dio
né bestia permanentemente solo nel concerto delle realtà naturali. Ma un popolo
in cui la poesia ha iniziato nuovamente nella sua veste più essenziale eö più
intensa. Makoto Ōoka che aveva 14 anni nel 1945, è fra coloro che nel Giappone
del dopo guerra, hanno sentito la poesia come esigenza che scopre nel
surrealismo europeo questa identificazione dell’uomo con il poeta che aveva già
azzardato Hönderlin. Ma, malgrado le rovine della guerra, malgrado Hiroshima e
Nagasaki, “l’uomo, occorre ripeterlo, abita poeticamente la terra”. E proprio
quando il suo rapporto col mondo è più teso che la sua parola sorge, più nuda
per dare uno scopo al suo soggiorno. Vicina al Giappone, la Germania nelle
tenebre della sua “luce”. Vicina al giovane Ōoka, ai suoi primi poemi, alla
primavera, all’amore, Gunther Eich e Paul Celan che reinventarono la parola
attraverso la semplice enumerazione delle cose.
Necessità di ritornare oggi, contro le frivolezze dell’evidenza, a quegli anni della poesia dove essa è ritornata alla sua essenza. Se Makoto Ōoka canta sempre oggi il “rollio di questo pianeta”, il cielo lussurioso delle stagioni, le acque, l’erba di Tokio, o semplicemente “una fanciulla a primavera” noi non ci vediamo assoggettamento a una tradizione le cui dislocazioni convenute impallidiscono davanti a questa polifonia di percezioni, questo accesso di lirismo dove l’impeto del verso libero si sfuma talvolta di ricordi: il metro di un tanka, la forma ellittica di un haiku. E se occorre ad ogni conto determinarne la provenienza, pensiamo può darsi a Boshò, che per primo, avvicinò con occhio nudo, spoglio delle convenzioni di corte, la polvere del cammino, l’erba del viandante e il loro margine di silenzio. Vicino al pellegrino della “Sente étroite” abbandonando gli orizzonti troppo frequentati dello sguardo, il poeta moderno ha notato:
Anelli di fuoco
altari dal loto tremante nella brezza
assurdità
incapacità di reazione
riconciliazioni infamanti
Tranne il fatto che lo sguardo qui è critico di una dissolvente lucidità. “Un poeta deve essere un critico acuto” ha notato dopo Baudelaire Makoto Ōoka. Perché sulla “terra vana” di un Giappone dissacrato, il “pensiero di ritrovare una totalità nella poesia”, di farne l’ultima sorgente dei senti, depositaria di una esperienza di universalità, questo pensiero è oggi troppo forte per non incidere sulla coscienza.
“Vivendo
la guerra nella sua totalità e la distruzione nucleare, i poeti giapponesi poterono
così riconoscere la dimensione mondiale della loro tragedia personale”. Dopo
aver formulato questo concetto, Makoto Ōoka venne a cercare in Europa e in
Francia in special modo, le testimonianze di una poesia colma di interrogativi,
aperta dopo il romanticismo a tutti i venti dello spirito. Traduttore di Éluard
e Breton, autore di una versione giapponese delle “Troiane” di Euripide, egli
ha tessuto tra una cultura e l’altra questo canto meno soggettivo che generale
delle antologie imperiali, invitando allo stesso tempo, in questi ultimi anni,
il poeta americano Thomas Fitzsimmons al gioco sottile del renga. Perché
Makoto Ōoka lo prova, non ci sono luoghi privilegiati dell’esperienza in
poesia. C’è soltanto la parola che ritorna all’origine, parola della sera alla
ricerca del suo oriente.
I confini del vento
Il vento non ha seme né calice. Del frutto egli non conosce la fine.
Appena io cammino si solleva sotto i miei passi. Sospiro che all’improvviso svanisce.
Ma il vento, quello vero sempre nasce e scompare nella lontananza.
Il vento non ha seme né calice. Del frutto egli non conosca la pienezza.
Scivola e piroetta. Evanescente viandante, sposo del vuoto.
Corpo sublimato dello spazio.
È cessata la pioggia. Ecco un guado. Passeggiata tra i boschi
Cangiante proliferazione di uccelli.
Bianca infiltrazione di suoni nel cielo.
Vibranti sfinteri. Anche le pietre vibrano afflitte nella loro carne
Si leva il vento e il sole capovolto si spande sulla campagna.
Improvvisa la visione di dissolventi lontananze.
Il vento mi sussurra nelle orecchie: – afferra la luminosa essenza
di queste droghe e io ti mostrerò una Chimera che naviga sotto terra.
Ah, questo vento che adoro
Questo vasto patto ingannatore
così bello!
Un vento diverso allora spazza via
fruscianti parole dell’uomo
che non hanno saputo aprirsi alla verità
Perché mi è sì caro il loro torpore?
Forse che la notte nel mobile ripetersi di corpi gassosi
che fanno sgorgare rugiada
sulle ciglia degli alberi
non è essa intrisa di flebili rumori?
Nell’uomo il vibrante impulso delle dendriti
risuona ogni notte
con i fremiti della linfa in tutti gli alberi
Tra i due un trasparente viandante scivola e piroetta
innamorato del vuoto
Non
tende forse i suoi impulsi nervosi verso l’essenza della specie?
Nascita degli dei
L’inverno era sempre nell’acqua
Il ghiaccio tra le sue labbra
scintillanti
Lui rideva
La primavera dal fondo del suo ritrarsi
mille volte
aveva cantato e vissuto
la ballata dell’empia primavera (del tempo dissoluto)
mille volte
morendo di noia
ha cantato
e improvvisamente divenne
Dea radiosa
Germinale e deiscente
Marzo e Aprile
Maschio e femmina
non svelate ancora le parti
Ma il tempo è venuto
Il Giappone sulla cresta delle acque
è attraversato dagli Dei.
Essi filano
tra mari e monti
per fondersi e morire
nel
Grande Sud.
Canto della fiamma
Quando mi tocca
grida di paura
ma io non so se sono
calda o fredda
io
non sono mai simile
al momento precedente
io
non lo sono più
sempre io muto sembianze
e fuggo
io brucio
Chiara appaio
contro l’oscurità
ma sempre mi proietto
verso il nero
Lui mi teme perché
io corteggio
non sapendo perché
albero carta carne
ogni mia carezza
celata e mai chiesta
è destinata a
perire
tra le ceneri
grida dell’uomo
mi dicono quanto terribile
sia il mio amore
per
lui.
Ritratto
Campi e città oscure
nei freschi piani della tua fronte
sempre giungi
dopo il risveglio
spirale di vento
continuità
senza inizio
trepidante in un bosco
dove gli alberi sono scomparsi
eterno mezzogiorno
e leggenda
vespri
dove fiamme delimitano cammini di uccelli
tu sei una piccola nuvola accesa
in te
al di sopra del tuo centro
tuo alto atollo
pesce blu chiaro nuota in schiera
tra le alghe
un occhio
(come) torre fissa nella lontananza;
occhio di fiamma nel centro
tu sei specchio opaco
io cado in te senza limite (senza potermi fermare)
talvolta io fluttuo in te
non fanciullo intorno
all’autunno che calmo mi avvolge
ma tu sei soprattutto
splendore
fulmine scaturigine del fervore
dieci dita protese
ai confini dell’universo
come lampo
o attesa
polpa delle dita sensibile e calda come labbra
un vento del largo
ti riporta al mare
eccitato
caldo di sole
tu avanzi nell’eternità
provando nel silenzio
della forma perfetta
niente che non sia movimento
Per la primavera
Tu dissotterri la primavera che dormiva nella sabbia
ti agghindi i capelli e ridi
e la spuma del tuo sorriso si disperde nel cielo
come rughe sull’acqua
sereno il mare sa guardare il calore
d’un sole colore d’erba
la tua mano nella mia
le tue pietre nel mio orizzonte ah
oggi nel cielo
l’ombra di petali scorre
alle nostre braccia che pulsano di gemme
nell’iride dei nostri sguardi
(mentre) infangato il sole gira
e noi – alberi e laghi
chiarità sulla tenera erba
luce tra il fogliame
terrazze della tua chioma sulla quale danzano –
noi
al vento novello si apre la porta
innumerevoli mani nell’ombra verde ci chiamano
frescura del cammino sulla docile pelle della terra
i tuoi seni brillano nella sorgente
e sotto le nostre ciglia
un mare e un frutto saturi di sole
calmi
si schiudono nella loro compiutezza (maturi)
Chofu
Abitante in una città
Io penso alla città.
A questa città dove vivo
stranamente non riesco a pensare.
Ogni volta verso l’altra città
occhi e ricordi sono protesi.
Non è certo come pensare
a un’altra donna
Sul bordo del pendio sfiorando gramigna e zizzania questo tafano che
sempre s’allontana
e annega nel suo stesso volo,
urta la torre che oscilla al centro della città tra
le nuvole,
si libera,
e nell’altra città
dove turbina l’altra aria,
riesce a entrare
Senza che io lo sappia
Io
NOTIZIE BIOBIBLIOGRAFICHE
Makoto Ōoka
Mishima 16 febbraio 1931 – Mishima, 5 aprile 2017.
Pioniere della forma poetica del renshi negli anni ‘90.
Collaborazioni con Charles Tomlinson, James Lasdun, Joseph Stantou, Shuntarò Tanikawa e Mirkò Sasaki.
BIOGRAFIA
Figlio di un poeta tanka nel 1953 si laureò in letteratura presso l’Università di Tokio. Lavorò come professore e giornalista per il periodico Yomiuri Simbum.
Nel 1956 primo poema – Kioku to genzai (memoria e il presente).
Il
suo successo come poeta. In seguito si focalizzò nella produzione letteraria
ispirandosi agli stili dei poeti classici. Come Kakinomoto no Hitomaro,
Fujimara no Teika e Matsuo Bashò. Nel 1970 iniziò a sperimentare con il renga.
Più partecipanti per creare un singolo poema. Seguendo le basi del renga e del renku, negli anni ‘80 ideò con altri la forma del renshi. Tale stile ebbe uno sviluppo intensivo successivamente con la collaborazione di autori come James Lasdun, Charles Tomlinson e Hiromi Itò
1979 – 207 – rubrica poetica Oriori no Uta (Poesie per ogni stagione) nel quotidiano Asahi Shimbum.
Muore dopo lunga malattia il 5 aprile 2017 presso un ospedale di Mishiuma.
OPERE PRINCIPALI
Kioku to genzai – 1956
Toji no Kakei – 1969
Kino Tsiroyuki – 1971
Niou Shiko Kilò – 1978
Oriori no Uta – 1979
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