La mia
Lèucade
(Il
viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di
proiettarsi in mondi di onirica bellezza)
Ho
sempre in memoria le parole che un poeta semisconosciuto francese mi rivolse
alla fiera del libro di Francoforte nel lontano 1997 (Maurice Degas): “Le poète
c’est la mer et le fleuve”, il poeta è mare e fiume. Mare perché vede in
quell’orizzonte lontano la possibilità di completare la sua insufficienza.
Fiume in quanto si sente rappresentato in toto da quelle acque che scorrono
veloci verso un’immensità che completa o annulla (contemplazione). Una visione
eraclitea della vita e del tempo. In effetti tutti e due si fanno simbologia
dell’anima poetica: il senso alfieriano (vedi “La vita”) di una libertà che mai si concretizza in politica, e il
cui simbolo più aderente è quel piano azzurro (per Alfieri le ampie distese
nordiche di neve) nel quale i Romantici vedevano concretizzate le loro
aspirazioni vaghe e indeterminate (vedi le pitture di Delacroix). E Lèucade è
l’isola che non è, e mai sarà. Rappresenta l’aspirazione dell’uomo, la sua
spinta verso il plurale, la totalità; la
sua attrazione naturale verso il Cielo, in quanto essere mortale, imperfetto e
miope, con una vista che mai potrà appagare il suo desiderio di vedere lontano.
Quindi sta in questa spinta verso l’alto il cuore della Poesia. La ricerca
continua del Bello assoluto; ciò che si fa e si sfa in continuazione. Niente
c’è di compiuto, niente di perfetto, tantomeno l’idea del Bello che
l’uomo-poeta ha: un divenire di contrapposizioni che generano verità relative.
E tutto è relativo, ed è proprio ciò a determinare spleen, inquietudine,
saudade, nostos. È proprio nella sua natura questo miscuglio di terra e cielo.
Il fatto sta che il terreno tiene vincolato l’uomo alle sue braccia. Mentre
egli dovrebbe ambire alla Natura. A quella pura, incontaminata, specchio del
supremo. Tutto è in fieri, in divenire, e l’Arte in genere è alimentata da
questo impulso a superare la realtà cruda, anch’essa imperfetta, e deficitaria,
che ci dà la continua conferma della nostra pochezza. Mi piace definirla - la
Poesia - quella parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile. Sì,
all’inarrivabile; e finché avvertiremo questa voglia, questo impulso, questa
necessità di elevarsi, esisterà anche il serbatoio della Poesia. Un traguardo
quindi inarrivabile anche perché non esiste linguismo sufficiente a
concretizzare questi input emotivi che l’anima genera. Questa è soprannaturale,
venuta dall’alto e destinata all’alto; il verbo è mortale, una semplice, seppur
complessa, creazione umana, e, come tale, imperfetta; mai sufficiente a
configurare quegli slanci. Un tempo misi come sottotitolo a Lèucade: “Il
viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di
proiettarsi in mondi di onirica bellezza”. Poesia è vita; il poeta è un uomo
vivente in tutto il corso del tempo (passato, presente e futuro). E che cosa è la
vita se non che la memoria e il sogno. La memoria, dacché essa conserva le cose
importanti, quelle che stanno a cuore nel bene o nel male, e degne di restare;
la vera vita. Il sogno, perché è là che si rifugia il poeta per ovviare alle
sottrazioni del quotidiano. Ed è nel sogno che vede le realizzazioni della sua
impotenza. Höldernin nove anni prima di essere ricoverato in una clinica per
alienati mentali, chiede nella lirica Iperione
o l’Eremita della Grecia, al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”,
affinché la sua “anima, raminga e senza radici/ non smanî di oltrepassare la
vita” e divenga “luogo di felicità (…) giardino curato con premuroso amore,/
ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura,/ in sicura semplicità io abbia
dimora,/ mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il
tempo mutevole rumoreggia lontano”; e nell’elegia Pane e vino invita tutti i poeti a unirsi in un’universale
fratellanza: “… e molto (buono) ascoltare dei giorni d’amore,/ dei fatti che
accaddero un tempo/… Sono i poeti, a fondare quel che rimane (Was bleibt aber
stinte die Dichter)”. Trovare la serenità là da dove siamo partiti è forse il
sistema migliore per calmare il disagio che incontriamo misurandoci con il
tempo e la morte, se non si vuole impazzire. E là è il “giardino curato” di
Höldernin. Che cosa sia la poesia, poi, è certamente uno degli interrogativi
più annosi della storia dell’uomo. La sola certezza comunque è che necessita,
volenti o nolenti, di realtà individuali, di singole esperienze, di
vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal memoriale all’im-
maginario, dalla vita al gran senso. Si fanno avanti il sogno, la fantasia, la
realtà che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto dal bagaglio del
memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico, vita scampata
all’oblio e per questo degna di esistere. E quello che ci tormenta è proprio il
pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro
sogno, chi ad una fede poetica, e chi, laicamente, ad un’isola quale potrebbe
essere quella di Lèucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del
dubbio.
E
Lèucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola del- l’equilibrio
classico, della realizzazione del supremo su questa nostra problematica terra;
il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole. Excursus verso un
mito futuro rappresentato già da Ulisse che riprende la sua navigazione. Non è
soddisfatto di chiudere i suoi giorni nella staticità di un tramonto insulare.
Riam- maina le vele, impugna la scotta verso la demarcazione delle colonne.
Impennata laica in un contesto medievale in cui primeggia la supremazia di un
Divino intoccabile e imperscrutabile per chi tenta l’avventura umana.
Ed è
qui che si raggiunge dopo il percorso di una realtà settembrinamente
idealizzata, e melanconicamente vissuta, l’incontro con l’apparizione
metaforica delle Eumenidi nella collocazione geografica del fiume paesano
trasferito nell’isola di Lèucade. Si chiede aiuto perfino a figure più o meno
grandi che già si sono imbattute colla visione infernale delle tre donne, o col
mito di Venere cipride o citerea. Incontri laici, comunque, sia coll’epicu-
reismo di Lucrezio, sia col panteismo di Virgilio che nel VII dell’Eneide
incontra le Erinni, sia con l’Ulisse di Dante, sia con le Grazie del Foscolo
che con l’Edipo del Niccolini:
Il ritorno di Ulisse
Qui
tutto è sapido. Lo so! I profumi
dell’isola,
il ginepro, la lavanda,
e tu
che ho ritrovato. Ho sempre in mente
il
volo urlato della procellaria.
Mi
strappava la carne. Le sirene
misteriose
e adescanti e io che immobile
all’albero
maestro volli fendere
i
nascondigli fitti del sapere,
i più
vogliosi. è questa la mia isola.
Qui
alla sera torna a dilatarsi
l’idea
dei meriggi e il lungo andare.
E
ancora estendo sguardi in lontananze
sperdute.
Mi lasciarono nell’anima
crepata
di salsedine le note
che
tornano insolute. È sempre aperta
la
sfida tra l’eterno e me che cerco
con
gli occhi indolenziti quella luce
che mi
soverchia. Ma stasera il mare
riporta
chiare voci di Calipso
e di
Circe. E il canto di una vergine
intenta
al suo corredo.
Sento
ancora la sua candida pelle
su me
adusto di sale. Ritornare
era il
mio sogno. Eppure condannati
siamo
sempre dai gorghi della vita
che le
spoglie depongono. Nell’anima
germinano
e si fanno giganti al
calare.
Ognuno tiene di Nausicaa
chiusa
con sé nel fondo una sembianza
mai
defilata. Ed ora salta fuori
e
porta dietro ogni contorno d’anni
e di
stagioni che non solo amore
significa,
ma voglie e nostalgie
che
trovano le vie le più nascoste
e
avanti a noi si levano. La ciurma
è lì
che attende. Ancora salperemo
oltre
colonne, questa volta, mitiche
d’impedimento
ai sogni. L’ora è giunta.
Se il
mio destino vuole che ritorni
ai
familiari usi ed ai barlumi
dell’isola
agognata, porterò
con me
più luminoso il cielo. Se
perire
vorrà ch’io debba in mare
straboccante
d’immenso sopra i limiti
del
mio essere umano, perirà
assieme
a me l’eterna primavera
di chi
non sentì mai sopita in anima
la
voglia del viaggio. Poi tornare
nuovi.
O superbi spegnerci per via.
Il
linguaggio stesso subisce un’evoluzione di adeguatezza diacronica. Si
insaporisce di termini arcaici, tende sempre più alla plasticità del distacco
marmoreo. Ed è sullo scoglio di Lèucade
che si raggiunge il colmo di una scalata lirica che permette sia la
dimenticanza degli affanni esistenziali, la ripulitura per così dire del
vissuto, che l’amore del tutto, ora
veduto con altra dimensione umana, direi quasi ebrietudine dell’immagine
che si fa poesia. La circolarità si compie nei canti arcaici. Dove tutto un
mondo amato, in cui, secondo me, immensi erano i presupposti immaginativi e
creativi, irripetibili per liricità poetica, dipana una visione superlativa di
amor vitae che si fa plenitudine di canto e di filosofia laica dell’esistenza.
Un’isola mitica e magica, irrealmente reale; un’isola a cui tutti i poeti
sentono il bisogno di approdare; e non mi prendete per narciso se vi propongo
un pezzo nato proprio dalla voglia di approdare a Lèucade:
Fuga da settembre
E
furono le Eumenidi a portarmi
dove
non vi è stagione. Ventilava
zefiro
eterno l’isola di Lèucade
eternamente
dolce nel respiro
di
lavanda e di timo. “Dallo scoglio”
mi
dissero “Ove siedi ad osservare
gli
ampi spazi del mare ricamato
da
sciami di gabbiani, si gettavano
gli
sfortunati umani per disperdere
reminiscenze
estreme. Ed anche Venere
restò
meravigliata nel sentirsi
serena
dopo il volo. Gli infelici
a Lèucade accorrevano
dai
più lontani luoghi. Preparavano
con offerte
ad Apollo e sacrifici
la
loro prova. Ed erano sicuri
coll’aiuto
del dio di sopravvivere
all’eccelsa
caduta. Proprio qui,
dove
tu siedi, stette il piede tenero
dell’infelice
Saffo che Faone
abbandonò.
Nel cielo di quest’isola,
lucido
ed armonioso, riscontrava
solo
dolore; andava su altre sponde
dove
il mare violento tormentava
gli
scogli dissestati per rivivere
il suo
triste destino. Dalla cima,
sfiorata
dalle mani
della
dimenticanza, si gettò
in
quest’onde fatali. Ed Artemisia
regina
della Caria ed altre ancora
raggiunsero
la meta, ma scambiando
la
vita con la morte.” “Mi sovviene
il mio
settembre tanto logorante
nei
palpiti di umana inconsistenza,
nei
flebili lamenti di esistenza,
nei
pallidi scolori di tristezza
di un
borbottio leggero di rumori
quasi
alla fine. Ma non so se vale
di più
restare immoti nella stasi
di un
eterno sereno che provare
il
dolce senso del dolore umano.”
“Proprio
il poeta, diciamo di Nicostrato,
gettandosi
dall’alto della rupe
non
lasciò col patire
il
respiro di vita. Forse il dio
volle
che poesia perpetrasse, dopo il salto,
il suo
divino suono. Ci chiediamo
se più
grande pacato che in tormento
come
da scoglio umano.” Ed io fuggii
scabro
settembre, mese addolorato,
dal
sangue che si sperde in ogni dove
dell’ultimo
respiro della vita.
Io ti
lasciai e un salto nelle oniriche
acque
di Lèucade non mi concesse
morte
né oblio, ma solo la ricchezza
d’immagini
feconde rivissute
da
un’anima al di sopra delle povere
storie
del giorno. E ti rivissi, vita,
con un
sentire lieve e tanto amato
che in
ogni fatto lieto o meno lieto,
ma
scampato, vidi un superbo dono.
Nazario Pardini
Stupenda dichiarazione di poetica. "Il poeta è mare e fiume" (Maurice Degas"). E' aspirazione alla totalità ed è tumulto di vita. E' spinta verso altezze irraggiungibili ed è constatazione dell'impotenza umana. "Un miscuglio di terra e cielo", "una visione eraclitea della vita e del tempo", sospesa tra il memoriale e l'immaginario, tra il passato e il futuro, tra le pastoie dell'umano e le altezze irraggiungbili. E Lèucade è l'isola che non è, "isola mitica e magica, irrealmente reale". Che dire poi delle due poesie ("Il ritorno di Ulisse" e "Fuga da settembre")? Due classici del repertorio pardiniano che catturano in uno struggimento incontenibile, dove l'ansia di liberazione dai limiti esistenziali è pari al desiderio di aderire visceralmente alla vita. Ed è la lacerazione tra assoluto e relativo che - per venire al dibattito in corso - fa dire a Vito Lolli (naturalmente sto semplificando) di fare ritorno all'Uno, mentre da parte mia io sostengo l'interiorizzazione dei due poli, la loro assunzione all'interno dell'io.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Questo"viaggio tormentato di una memoria" e le due poesie, in particolare Fuga da Settembre, rappresentano per me quanto di più interessante e sublime possa sortire da un'anima poetica. Ogni altra mia parola non conta, travolto come sono dall'ammirazione.
RispondiEliminaUbaldo de Robertis
Non commento.Non serve, non ha senso, non mi va. Solo un grazie per la tua lirica, Nazario, che mi ha rimemorato il sentimento del pomeriggio passato in silenzio ad ascoltare il vento sulla punta meridionale di Lefkada, sopra la scogliera del suicidio di Saffo. Me lo ha rimemorato molto forte, Nazario. "Io nel pensier mi fingo"... Questo accadde, ma il poco che evita al cuore di spaurarsi è un filo invisibile e infinito.
RispondiEliminaVito Lolli