Prefazione
a
Pierangelo Scatena. RICORDI DEL PRESENTE. (2011 – 2012).
Edizioni
ETS. Pisa. 2012. Pp. 40
Trascorrono
nel buio cupi uccelli,
ci
gracchiano un mai più
per
quei baci poi dati,
per
quei corpi assolati
nel
mare, per i volti
perduti
a mirare se stessi
in
lividi specchi spezzati
da
languide attese d’amore.
La poesia di Scatena si snoda su un
percorso versificatorio vario, dove l’alternarsi di misure metriche accompagna
con agilità musicale la molteplicità dei sentimenti, la pluralità delle occasioni
esistenziali. Questa poesia è vita, sintagma, parola; parola, sì!, che con il
suo abbandono, o con il suo rinascere dà corpo al diluirsi del poiein con la
sua melodia intrecciata ora in endecasillabi, ora in senari, ora in settenari.
Ed è realtà, immaginazione, è slancio verso rive a cui approdano ambizioni,
illusioni, delusioni, ma, soprattutto, melanconici sentimenti di un effimero
percorso interiormente decantato.
E
cosa è la poesia se non che memoriale, realtà macerata nell’intimo e ridata al
foglio zuppata dei fondali dell’esistere? cosa è se non che sogno, quel sogno
che azzarda lo sguardo oltre la vita, oltre l’immaginario per superare gli
spazi ristretti del nostro soggiorno? che cosa se non che acquisizione di spazi
fugaci, di cieli infiniti, di mari senza confini, di colli vaganti, di volti,
di baci, di parole non dette, di ricordi sfumati e ripescati? che cosa se non
che acquisizione di tutto questo, per concretizzare fughe, ritorni, segreti,
coscienza del tempo e rendere umana, troppo umana la propria storia? E il
linguaggio si intensifica di simboli, di allusioni, di traslati, di assonanze,
consonanze, rime e tante figure stilistiche. Il linguaggio va oltre la
sintassi, si contorce, si dilata, si addolcisce, si inasprisce con arditi
stratagemmi verbali. E cosa è la poesia se non che questa parola che racchiude
in sé il volume della nostra interiorità, l’eterno mistero di un dilemma: a chi
le nostre memorie? vinceranno la forza dell’oblio? o saranno destinate al
sacrificio sull’altare della dea del sempre? È in noi umani azzardare lo sguardo oltre
i confini, pur essendo coscienti della nostra miopia. Sì!, perché la vita è uno
spazio breve, troppo breve e la nostra condanna, come afferma Pascal, è quella
di vivere da umani con un animo rivolto all’ultra/umano. Da lì c’è chi affida le sue memorie a un
credo religioso, chi a uno laico, chi a un valore estetico che sappia tanto
d’infinito, come la poesia. E vedere la vita come un passaggio breve e
fuggitivo Tra l’uno e l’altro nulla,
dove tutto è precario e inconsistente, è
ciò che emerge da questa silloge di Scatena, la cui poetica scaturisce,
soprattutto, dalla coscienza di tale brevità e incapacità di tenere le cose più
preziose: “Ci si ricorda per non stare soli. / Avverto a tratti quello che ho vissuto:
/ quello che ho avuto, ciò che non ho dato. / Il vento soffia storto sopra il
mare, / affoga l’orizzonte / come un amore da dimenticare.” (Nel fondo dello
specchio). La solitudine, il memoriale come compagnia di edenico sapore, il
rimpianto di non avere detto o non avere fatto. Tutto poggia sulla percezione
di una effimera e breve stagione. Sulla convinzione di una irrecuperabilità:
“Le contingenze che pensammo eterne / adesso sono andate e vanno via. / Tra
cielo e terra resta tanto poco / da essere per sempre ed ogni volta / un segno
imperscrutabile del niente / che avido ci attende.” (Rivelazioni). E veramente
eterne apparivano le nostre vibrazioni, i nostri palpiti vitali, i nostri abbracci
giovanili, le nostre primavere colorate; e lontani o quasi inesistenti gli
autunni sapidi di fine. Questo senso eracliteo dell’essere e dell’esistere
permea di sé tutto il percorso della silloge. La fugacità del giorno,
l’inafferrabilità del presente, sono la filosofia della poetica dell’autore. Ed
è qui che la memoria interviene coi suoi imperfetti a declamare i pezzi più
lirici e poeticamente più validi dell’opera: “ Nel rivelarsi mitico del mondo /
il vento s’abbracciava alle colline / e la pioggia baciava le pianure, / la
neve a volte si stringeva ai monti / e il sole a lungo carezzava i mari. /
Dolci e chiare giungevano le notti / nell’oscuro languore delle cose / con lo
sconcerto immobile del tempo / proteso al firmamento.” (Rivelazioni).
Ricordi del presente il titolo. Come se
il presente esistesse solo e solamente nel passato. Come se fosse memoria nella sua inconsistenza temporale. Non possiamo scendere due volte nella stessa
acqua di un fiume, recita un frammento di Eraclito. E la memoria assurge a
funzione di dea consolatrice, alcova, répêchage
di ciò che ci è stato sottratto dalla voracità del tempo. La presenza del poeta
equivale ad un semplice luccichìo nella notte: “Nel buio che t’avvolge e che
tratteggi / cerchi anche tu effimeri compagni / a cui affidare un po’ della tua
vita? / Timido luccichìo della speranza / che t’accendi e ti spegni in una
danza.” (A una lucciola) Una speranza? Sì!, può sorgere. Ci si può aggrappare.
Ma si accende e si spegne nel tempo di un palpito di lucciola. E fra l’uno e
l’altro nulla, scorre quest’attimo vitale: “Tra l’uno e l’altro nulla, /
narrati all’incanto, / si va, nell’incanto / terrestre che splende alla notte,
/ cercando le tracce / di baci non dati, / di corpi affogati / nel sole, di
volti copiati / per farsi ammirare e scordare / a futura memoria.” (Tra l’uno e
l’altro nulla). La memoria stessa è destinata all’oblio. Levare lo sguardo
oltre i confini poco vale “In questo spazio chiuso e senza margini / tu dove
sei che in mente mi ragioni? / Come ora e allora non ti riconosco, / rimani
d’ombra e in ombra mi raccolgo.” (In ombra). Ma è in Padre che si attua un’esplosione lirica fra le più sentite ed
arrivanti: uno stacco da romanza operistica tutto vòlto a ritrovarsi
nell’immagine eterna e pur caduca della figura del padre. Niente di nuovo nello scorrere del tempo:
“Così diverso, in tarda età canuta / più ti somiglio e chiedo / nel sogno degli
umani una memoria / che sia come la tua fatta di vento.” (Padre). E il mondo
scorre, vive, e passa senza che niente muti. La vita sarà forse preziosa, dico,
perché contiene la morte? “Ormai senza storia / facciamo baldoria / appesi ad
un mondo / che, essendo rotondo, / rigira se stesso / e torna lo stesso.” (Fine
della storia). Il tempo e lo spazio resteranno perpetuamente invariati oltre il
piccolo evento, oltre i minimi accidents.
Dalle piccole scomparse, dai minimi annullamenti prende sostanza la continuità
del vuoto: “Così lo spazio e il tempo sopravvivono / oltre gli eventi labili
del giorno, / oltre ogni umana conoscenza d’essere / sempre e soltanto
rappresentazione, / falso barlume d’anima in viaggio, / un punto singolare
inesistente / e in ogni istante l’agonia di sé.” (Meditando il non-senso della
vita).
Ed è proprio
nell’alcova del memoriale, alfine, che si rifugia il poeta; è là che trova la
sua identità, la sua pace, e la sua, seppur fragile, forza. La memoria da binomio si fa monomio nel suo
duplice simbiotico senso: da una parte è indice di questa sottrazione, di
questo repentino annullarsi del tutto; dall’altro di un mondo rimasto, di una
verità catartica, filtrata dagli anni a dall’esistere. E le due cose si
compenetrano e si fondono in ritmi di avvolgente poesia: “Scendevano cieli
profondi / a toccarci le mani. / C’era un domani da inizio del mondo / confuso
nel verbo / che stavamo per dire / e non volevamo finire.” (C’era una volta). E
la natura con la sua forza evocativa, con i suoi messaggi simbolici, con la sua
metamorfosi in ancella disposta e disponibile, accompagna per mano il poeta nella
declinazione dei suoi stati d’animo: il mare, l’onda, l’acuto gabbiano,
l’ultimo sole, nuvole nere, l’orizzonte, la neve, i monti, la lucciola, il buio
e il vento, il vento, il vento nella sua ripetuta azione che attornia,
lambisce, spazza, e delicatamente “Piccolo vento che mi frughi dentro, /… /
Piccolo vento che indeciso corri /… / Piccolo vento che su questa terra / danzi
a volte canzoni ai miei ricordi,…”, sono gli elementi naturali che meglio di
ogni magica penna raccontano il fatto di essere umani.
Non c’è, di
certo, uno sguardo all’oltre, vissuto con fede in questi versi. Ma nemmeno si
può parlare di mancanza assoluta di un credo. Perché il poeta è talmente
attaccato alla vita, che cerca di ripescarla in tutti i suoi aspetti memoriali.
E fa del passato un presente da rivivere e
riportare alla luce con tutte le sue forze. E soprattutto assegna alla
poesia un grande compito: quello di mantenere in vita la sua realtà artistica,
forse l’unica realtà che può competere col tempo. Perché il Nostro ama la
Poesia a tal punto che le affida, nel suo intimo, una funzione di storicismo
foscoliano. Il grande credo del Poeta.
L’ultima
sezione, di appena tre componimenti, funge da mini canzoniere d’amore. Retrospezioni.
Vi troviamo, già, quel linguaggio metaforico-allusivo che sboccerà, in seguito,
con più carica umana, quando il poeta avrà arricchito di maggiore substantia
memoriale la sua avventura. Poesie intimistiche, d’ispirazione platonico-sentimentale,
dove, indicativo, appare il ricorso ad una natura che infoltisce di vento, di
mare, di sera, di lidi, di tempeste, di isole, di porti di stelle, un animo
tutto indirizzato ad amare l’amore: “Navighiamo col
cuore verso un’isola / ad un porto di stelle.”
Se keats apre
il poema Endimione con il celebre esordio: “Una cosa bella è una gioia per
sempre: / cresce di grazia; mai passerà / nel nulla; ma sempre terrà una silente
pergola per noi, e un sonno / pieno di dolci sogni, e salute, e quieto fiato” il
Nostro esalta il suo canto con: “C’erano frecce di fuoco e pensiero, / volavano
dritte contro il mistero; / c’erano estati con scie luminose / di lune sul mare
e navi a salpare;...” lo esalta, dunque, con estati di scie luminose e navi a
salpare. E non è detto che su quelle navi non possa salpare la bellezza eterna
della Poesia, a confortare l’inquietudine di essere umani.
Nazario Pardini 21/07/2012
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