La bicicletta da corsa
Il V Ginnasio iniziò sotto i
migliori auspici, avevo superato un periodo difficile della mia vita giovanile,
ora bisognava mettere a frutto le esperienze accumulate ed impegnare tutte le
energie migliori, sotto lo stimolo della maggiore maturità acquisita. Ero stato
sempre un cultore convinto dello sport in genere, anche per educazione
familiare, mio padre era stato uno sportivo vero e si era dedicato a diverse
discipline, anche agonistiche.
Ero
appassionato, in modo particolare al ciclismo, sin da piccolo avevo avuto
regalata una bicicletta ad ogni evoluzione fisica del mio organismo e questa
mia passione era sempre stata seguita e secondata da mio padre. Eravamo agli
inizi degli anni ’50, il periodo d’oro del nostro ciclismo agonistico, durante
il quale due mostri sacri della bicicletta, che tutto il mondo c’invidiava,
dettavano la ferrea legge del più forte sulle strade d’Italia e di Francia:
Coppi e Bartali. Non credo che l’Italia abbia più avuto dei campioni così.
Mi
piaceva andare in bicicletta e, di questo sport, mi appassionava soprattutto il
contatto continuo e quasi osmotico con la natura circostante, era esaltante per
me, lo sforzo agonistico per primeggiare sugli altri che con me condividevano
questa passione, e lo sforzo fisico che spesso diventava sofferenza, era al
tempo stesso, soffrire e gioire, per poi sentirmi gratificato, da ogni piccolo
successo personale.
Con
il mio piccolo sogno nel cassetto e con la prepotente voglia di andare in
bicicletta, avevo espresso, accoratamente, a mio padre il desiderio di
possedere una bicicletta da corsa. Quella che avevo, infatti, era piuttosto mal
ridotta e non corrispondeva più alle mie nuove e mutate esigenze. Egli,
tacitamente, aveva acconsentito, io sapevo, però, che la condizione necessaria
e sufficiente per essere accontentato, era il raggiungimento della promozione.
E
venne il tempo degli esami che furono da me aggrediti, quasi con furore, avevo
fretta di liberarmi di questo fardello, il loro esito dentro di me, era quasi scontato,
non potevo fallire l’obbiettivo, non era la solita sfida con me stesso, era
qualcosa in più, perché racchiudeva in sé il raggiungimento di una méta
agognata. Superati brillantemente gli esami, mio padre, visibilmente
soddisfatto per il risultato da me conseguito, mi accompagnò nell’unico negozio
della città che, allora, vendeva biciclette da corsa ed acquistò per me, una
fiammante “Legnano”.
Quella
bici, a quell’epoca, era il massimo che si poteva desiderare, con il nuovissimo
cambio “campagnolo”, l’ultima evoluzione della tecnica ciclistica, con il suo
tradizionale colore verde oliva, con i profili dorati e le cromature
sfavillanti, a guardarla era un sogno, per me, divenuto realtà. Era la
bicicletta con la quale correva Gino Bartali, allora una leggenda vivente del
ciclismo mondiale, per il suo modo di correre, per le imprese sportive che
regalava al ciclismo italiano e per il dualismo competitivo che lo opponeva,
costantemente, all’altro grande campione di allora: Fausto Coppi, che correva
con una bicicletta “Bianchi”. Quante volte,
durante l’inverno, passando davanti la vetrina di quel negozio, mi ero fermato
e avevo guardato e riguardato, in una sorta di contemplazione estatica, con
desiderio e ammirazione, quel piccolo gioiello della tecnica che era, anche, un
modello recentissimo, per l’epoca, di pura estetica ciclistica. Ora,
quell’attrezzo sportivo meraviglioso, tanto anelato, era mio.
Avevo
un compagno di scuola, del quale ero anche il migliore amico, che con me
condivideva la passione per la bici. Appena vista la mia, se ne innamorò e, in
breve tempo, riuscì a farsene comprare da suo padre, una identica. Quell’anno
si unì a noi un terzo giovane, romano, figlio di genitori siciliani trapiantati
nella Capitale, per motivi di lavoro. Questo giovane, ogni anno, veniva a
passare le vacanze nella mia città, in casa dei nonni, nostro coetaneo ed
appassionato di ciclismo. Il padre gli aveva regalato una bicicletta da corsa
“Bianchi”.
Si
costituì, così, tra noi il più affiatato e completo terzetto ciclistico della
nostra città, in realtà, a quell’epoca c’erano pochi giovani che disponevano di
una bicicletta da corsa così prestigiosa come la nostra e chi la possedeva, era
un corridore professionista. La definizione di affiatato terzetto ciclistico, corrispondeva
esattamente ai comuni interessi, alla comune sviscerata passione per il
ciclismo che avevamo e, infine, era completo perché, sia insieme, sia
singolarmente, poteva esprimere le migliori doti atletiche di un corridore
ciclistico. Il mio amico e compagno di scuola era un ottimo passista, io ero un
interessante scalatore ed il nostro amico romano era un perfetto cronoman.
I
percorsi stradali che sceglievamo per le nostre “uscite” erano tutte comprese
nel circondario provinciale della città
di Trapani, tuttavia, spesso e volentieri era privilegiata la scalata al vicino
Monte Erice ai cui piedi, appunto, sorgeva la nostra città, vuoi per la
bellezza dei luoghi, vuoi per la natura circostante, irripetibile e quasi
incontaminata, vuoi per la difficoltà tecnica del percorso. La bicicletta, in
fondo, al di là di quello che può essere il suo utilizzo a fini sportivi ed
agonistici, è un perfetto strumento ecologico per tutti, piccoli e grandi,
possono usufruire di questo attrezzo per attraversare parchi, giardini,
passeggiate lungomare, godendo del contatto con
un ambiente esterno salubre e bello da vedere.
L’uomo
ha bisogno del contatto con la natura, nella quale s’identifica come
espressione suprema di essa, la vita stessa di tutti noi non avrebbe futuro
senza la natura che ci circonda, in tutte le sue manifestazioni. Gli animali,
le piante e l’aria che respiriamo sono linfa vitale per la nostra salute e la
sopravvivenza, nostra e dei nostri figli. Oggi, purtroppo, viviamo nelle città
troppo caotiche ed inquinate dalle auto e dagli scarichi industriali, è
necessario quindi accostarsi quanto più è possibile alla natura, cercando di
ritornare alle origini dell’uomo che in essa ha trovato la culla della sua
vita.
Per
ritornare alla nostra bicicletta, con questo meraviglioso attrezzo sportivo,
affrontavo spesso, in compagnia dei miei amici, la scalata al Monte Erice.
Allora, eravamo all’inizio degli anni ’50, le due strade che consentivano
l’accesso alla Vetta, erano ancora con il fondo sterrato, non avendo ancora mai
conosciuto l’asfalto. E si andava su a fatica, lungo i tornanti che
s’inerpicano sulle pendici del monte, per noi che amavamo lo sport, sapevano di
Stelvio e di Izoard e ci davano l’illusione di ripetere le imprese dei nostri
campioni. Ogni volta era uno sforzo immane, un sudore ed una sofferenza notevoli,
ma il raggiungimento della Vetta, ci ripagava ampiamente.
Quell’atmosfera
di pace bucolica, il silenzio, l’aria serena, tersa, profumata dalla resina dei
pini, si sposava con il nostro desiderio di riposare, dopo un’estenuante fatica
che, tuttavia, per la passione sportiva che ci animava, era goduta come un
piacere dell’anima. Sotto di noi, fin dove poteva spaziare il nostro occhio, si
poteva ammirare il paesaggio da favola che, ogni volta, si offre con una
spontaneità ed un’immediatezza unica ai visitatori che giungono in quel luogo
mitico.
Fra
mare e cielo, Erice ci veniva incontro con il profumo delle sue secolari
pinete, con la magia delle sue viuzze nitide e silenziose, con l’affascinante bellezza
dei suoi cortiletti fioriti e addormentati. Sospinta dal vento, giunge a volte
dal mare una nebbia che avvolge la vetta e, alternativamente, s’infittisce o
dirada, suscitando con le sue sfumature i fantasmi di un passato antico ed
eterno.
Alla
fine, se avessimo avuto un’età più adulta e la volontà di farlo, avremmo potuto
scegliere d’intraprendere la carriera sportiva ed agonistica, ma, a quindici
anni, ci accontentavamo semplicemente di divertirci, in fondo, in quelle
piccole sfide tra noi, non era molto importante chi vinceva, bastava che
avessimo potuto esprimere la passione che ci animava e ci spingeva a fruire di
uno sport nel quale ci identificavamo e che consideravamo un valore aggiunto
alle opportunità che la vita ci offriva.
Vittorio Sartarelli
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