Veloce il tramonto.
Lungo è l’inverno,
lungo e tedioso l’inverno.
Ho sparso briciole di pane
sul balcone:
i passeri guardinghi vengono
e vanno come i miei pensieri.
Leggere i versi di Luigi Gasparroni significa farsi
poeti, tanto è immediato l’impatto emotivo-esistenziale che trasmettono. Le
occasioni sono plurime e contaminanti. I giochi metrici, vari e articolati,
coinvolgono per semplicità e forza creativa. Una semplicità che è il sale della
poesia. Non ricorre, o ricorre raramente, a figure stilistiche di cui spesso si
abusa nella letteratura contemporanea e che spesso sono d’impatto alla
comunicazione e alla sintonizzazione sentimentale. Una poesia che scorre
limpida e cristallina come l’acqua di una sorgente fra gli argini di una
quotidianità sconcertante nella sua dimensione temporale e ambientale. Sì!, è
proprio la quotidianità il suo raggio d’azione, è là che attinge il poeta,
dalle questioni di ogni giorno, dalla vita, dalla sua realtà, ma anche dalla
memoria di affetti e sprazzi di esistenza che ritornano a galla alimentati da
un sentire fortemente presente:
Ora dall’alto continui a rimirare
la tua terra dai prati luminosi
e i tuoi animali
che docili ti seguono ancora. (A mio
fratello).
Quando l’esistenza fluiva lenta
tra le colline verdi
e l’allegro frondeggiare dei pioppi,
(…)
era l’innocenza che ci rendeva
felici. (Infanzia).
E il tutto, con le
sue sfaccettature tuffate in un animo tanto disposto al poiein, si eleva dal
soggettivo all’oggettivo, dall’umano all’ultra, al cielo, con un sapore di
smarrimento, di grande emozione:
Fermi alle finestre guardammo il
sole
arso da sinistri bagliori.
Sulle nostre labbra un lieve sorriso
e piccole parole senza senso. (
Bufera).
Un giorno saremo al di là
di questo magnifico cielo
e guarderemo con nostalgia
la terra ormai lontana. (Terra lontana).
Ed è la natura, con tutto il suo potere, tutta la sua
energia, che si offre al poeta, disposta e disponibile a concretizzare tutto il
suo pathos, tutta la sua carica esistenziale: la vecchia quercia, le briciole
di pane, il barlume dell’alba, lo scirocco, la prima neve, le siepi di spine,
le stanze dell’infanzia, i boschi e le vigne sono tanti frammenti di un’anima
tutta volta a ritrovarsi in colori e sapori per farsi viva. Ed è così che la
natura con tutte le simbologie cromatiche e visive, con tutti i suoi autunni,
inverni, primavere e fulgori estivi,
aiuta il poeta a trasmettere il senso di precarietà dell’essere e
dell’esistere; la visione della caducità del tempo. Tutto si rende allusivo e
simbolico. Tutto si fa fortemente terreno ed umano:
dell’infanzia
guardiamo un cielo colmo
di striduli voli.
E’ fragile tregua di tempo
che più non ritorna. (Vecchio
cuore).
Nei chiari occhi appare
il tormento dei giorni dell’attesa
e un’amara dolcezza è la memoria
del tempo fuggitivo. (Tempo
fuggitivo).
Dum loquimur
fugerit invida aetas.
Questo senso del presente che fugge s’insinua nel fluire della versificazione come
filo conduttore, come leit motiv a rendere omogenea e compatta l’opera.
Ma il Nostro sa anche fuggire da una realtà che incombe, per
trasferirsi, anima e corpo, nell’amore per la vita. E c’è il senso della sua
sacralità. C’è il modo di vincere questo sentimento di precarietà; questo senso
d’inconsistenza della felicità “che già muore dopo averla/ appena goduta”; la
possiamo vincere questa nostra dicotomica avventura di esseri terreni col pensiero all’oltre, sì!,
“se col cuore in mano/ guarderemo il nostro vicino” ed è allora che “vedremo i
prati più verdi/ e lo scorrere felice di un ruscello”.
Ed è così
che il poeta sa tuffarsi, anche, in silenzi di raccoglimento per ritrovare
concordia con la sua anima; è in questi silenzi che riposa lontano dalle
monotonie dei giorni, perché è allora che
affiora questa fame
di parole non dette,
di racconti dimenticati,
di nidi rubati fra le siepi
a margine di fossi abbandonati,
di favole stregate.
Sì!, è nella ricerca di queste favole stregate che
l’autore sa ritrovare l’alcova del suo esistere.
Nazario Pardini 15/02/2013
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