Claudio Vicario collaboratore di Lèucade |
Solitudine
Non so dire più niente:
sono un’anima morta,
vagante nell’incerto,
incomprensibile mistero
fatto di sospiri,
non più aulente
di vaghi pensieri.
Non odo alcuna voce,
né l’alito del vento
riesce a sopire il palpito
d’un pensiero fugace.
Tutto ho perduto
di ciò che amavo tanto;
tutto e per sempre:
care persone e cose care,
e la mia amata terra.
Son solo e di me soffro
e nulla dico.
E in questo triste pensar
che mi tormenta,
anche tu, mia poesia,
che pur tanto cara
una cosa per me,
mi lasci solo.
La mia
pena
Solo io conosco la mia pena,
quella che porto dentro
e nei miei occhi
un dì gioiosi, oggi sovente
tristi.
Io la so la mia pena:
ero un albero grande,
un albero sereno,
di frutti generoso,
in quella valle,
che i monti Irpini
cingono d’amore,
valle ubertosa e lieta,
ove possente
saldo e serrato nelle mie
radici,
nodose e forti,
abbarbicate e strette
a quella terra
di che sapido è l’idioma mio,
già nell’età cui il trapianto
nuoce,
la bufera stroncò e portò
lontano.
Ora dolenti
per il sangue sparso,
piangono indarno
quelle mie radici
il tronco a lor reciso,
mentre in altra terra,
tra genti fredde,
anonime ed ostili,
solo io vago
e inutilmente
tra tanti volti
cerco un volto amico.
E talora ho un sussulto:
parmi veder,
tra tanta folla ignota,
un volto conosciuto;
ma, quando s’avvicina,
m’illude…..
ed io sospiro!
E talora mi fermo sui portoni
e accanto ai campanelli
cerco i nomi,
trepido di trovar tra tanti
ignoti
un nome noto,
qualcun che la mia valle
stessa pianga
ed ora qui risieda
stabilmente,
qualcuno cui legarmi con
l’affetto
che lega quelli d’una stessa
terra.
Irpinia mia, quanto mi manchi!
Ahi la mia terra!
Cara terra mia,
terra del mio dolore e mio
rimpianto,
terra che porto sempre nel mio
cuore
e che di sé mi empie ogni
pensiero!
Terra pietrosa d’oliveti
adorna,
foscheggiata di macchie
e boschi e siepi,
soleggiata sui campi,
ove le viti,
rosse in autunno come un sacro
fuoco,
regalavano grappoli dorati
per quei vini corposi
di che l’Irpinia ha fama!
Terra di mormoranti chioccolii
d’acque d’argento
sinuose e lente
tra rose ed erbe,
terra d’uccelli e ricci e talpe e ghiri
e scoiattoli e corvi,
terra a volte spaccata
in larghe e lunghe crepe
dal furor della pioggia,
terra alta e severa e ricca e
bella,
terra che sembri salutare il
cielo
con le cime eloquenti dei tuoi
pioppi,
biancheggiante alla luna
e gialla al sole, doviziosa
mia terra,
terra odorante di selvagge
brume,
che le bionde figliuole dei
coloni
dai volti accesi e gli occhi
tutta luce,
calcavano scalze,
mentre d’amor cantando,
con la zappa a spalle,
felici andavan sul pietrisco
vitreo,
a rivoltar le scure zolle
erbose;
terra che ne la mente io
sempre vedo
e nel cuore ricerco,
terra ch’ormai non altro che
un ricordo,
terra ormai non più mia,
quanto mi manchi
e mancherai per sempre
ché troppo grande e troppo
bella sei!
E le tue donne ancora
io vorrei riveder recare in
capo
l’antica brocca
di lucente rame,
e scender saltellanti giù alla
fonte,
che, uscendo di tra l’erbe,
or ride or piange,
mentre un bel canto lor
fiorisce in bocca
e le gote s’arrossan sotto il
sole!
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