Poesia
nuova, fresca, generosa, audace, che
lavora sulla parola con scalpello e
temperino graffiandola e limandola per sincronizzarla alla materia, alle
piccole cose, alle quotidiane occasioni, e farne, con accorgimenti di plurale
misura, simbologia di meditazione e riflessione.
Un
lavoro certosino che non è certamente solo frutto di un richiamo calliopeo ma
di accorgimenti tecnici, di esperienze e di lavoro continuo sul verbo e i suoi
marchingegni. Sarebbe lungo ripercorrere tutto il tragitto letterario del
Nostro per ricavarne una netta comparazione. Ma uno come me, che ha avuto
l’onore e il piacere di leggere quasi tutta la sua produzione, di scrivere
recensioni e note critiche sui suoi lavori, può notare come la sua penna si sia
sempre più affinata, ontologicamente, graficamente, sintatticamente e
retoricamente. I suoi messaggi umani sono qui affidati ad una versificazione
concreta, fatta di simboli e allusioni, ma circoscritti ad un ambito reale,
minimo, con l’urgente preoccupazione di tenerli sotto controllo; sotto il
continuo sguardo di un poeta che vuol fare delle cose la memoria, l’evocazione,
la rappresentazione delle vicende non sempre serene ma piuttosto inquiete,
direi, come inquieto risulta un
qualsiasi cammino umano senza sbocchi precisi, sicuri.
Sta qui l’irrequietezza di Nota uomo, della sua poesia; ed è in questo
subbuglio che si fa terreno anche se nella sua intenzione non di rado c’è un
tentativo di escatologico miraggio, di impennata verticale:
(…)
Le scale
questi penosi tabernacoli
bianchi
dalle antiche radici di ferro
che non danno colore
non spargono odore
a chi stringe più in alto lo
scettro (Le scale).
D’altronde ognuno di noi ambisce a toccare con
le dita la coda dell’eccelso ma sa, ognuno di noi, e ne è cosciente, che il
nostro destino è quello di soffrire della nostra collocazione fra cielo e terra;
della nostra pochezza di fronte al tutto:
(…)
Vedi, è troppo il mare, la sua
grandezza
fa male, bisogna ridurre.
Il detrito è un corpo stabile,
nessun colpo potrà dividerlo.
Vieni, osiamo farci falda,
resa armonica oltre la porta.
Muoviamoci in quella pila
d’acqua (Pila d’acqua).
E
della terra Nota fa un dettagliato racconto, una implacabile descrizione; una
relazione puntuale sull’esistenza, la sua precarietà, sugli intimi travagli
dell’essere, e su ogni fatto che possa servire a mitigare o a provocare l’insoddisfazione
di essere terreni. E questa sua silloge azzarda arrampicate in cerca d’aria
nuova; nuove scalate verso montagne
scabre o mura di città o di paese che nascondono crepe di annose scomposizioni,
di polivalenti sussulti.
Questo
è Nota e questa la sua poesia: una simbiotica fusione fra anima e
versificazione; una attenta ricerca verbale che tende a superare la realtà
partendo dai suoi appostamenti; da fatti contingenti per farne un trampolino di
lancio verso l’oltre della parola. Sì, non è sufficiente il termine comune, la
grammatica tradizionale, il soggetto e il predicato, per concretizzare le
spinte di un Autore che cerca di trasferire l’oggetto nel mondo delle idee. Forse
è proprio lo spiraglio di luce a fare capolino dalle crepe per significare
quella insaziabile voglia di estendere lo sguardo oltre la siepe; di affrancare
lo spirito a ché anche a noi poveri umani possa toccare uno squarcio di cielo o
un’inerzia tanto simile a un’atarassica quietudine dell’anima.
LA SCALA
Non sono fatto d’azzurro
neppure di rosa.
Sono ancora legato a una scala
fatta di pioli e di vuoti
un insieme di solchi
che cremano l’atrio
il puntello.
Di continuo sento
il crepitio stordito del legno
del cibo ammassato
sul terreno. Mi chiedo quale vento
possa io inalare
nel lanciare il mio corpo
oltre l’oro del vuoto
lasciandomi stendere
nel gorgo dell’inerte
Nazario
Pardini
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