Pardini concepisce
l'assenza (il vuoto) come necessaria componente alla luminosità di un poetico
volo (Icaro) dal finito all'infinito. Tutto si coagula nel non essere presente
per immaginare un mondo antico e nuovo. Campagne, vigneti, fiori, profumi,
Natura, genitori, morti per vivi, amori, invocazioni, ricorrenze, stagioni...
ogni verso del suo “Canto” cesella emozioni assenti (ma estremamente vitali) in
silenzi personificati dai quadranti del ricamo ritmico.
Ancelle promozionali di
un inestricabile “logos”che il poeta sigilla nel paradossale del ricordo
smemorato, nella strada dei solchi sbilenchi, nelle strida dei rumori che
inneggiano alla vita.
La “casa” dei ricordi è
l'essenza dell'attesa più clamorosa: tutto si ascolta e declina i passi, i
gesti, i momenti di un tempo felice e spensierato (la Buca dei tassi) con gli
zufoli nelle spighe, il palpito d'ottobre, il fornello della nonna, i piedi
scalzi del bimbo... Attendere un impensabile ritorno...
La “casa” dei ricordi è
tentarsi al ritorno nella luce dei trilli di una rondine e della compagnia
degli amici tra le chiome del “chianti” dove si incorpora la visione di
presenze dolenti, in sensazioni gioiose e pervasive (la mia casa...) sino a
perdersi nelle memorie dei pampini. Ecco l'intreccio esaltante tra forze
naturali (onnipresenti) e rifugio intimistico di Nazario (il profumo della
giovinezza...), un rifugio che si delinea per immagini di “assoli” fugacemente
evidenti in una piazza di paese, o in una corsa sulla sabbia... Assoli in una
“fuga” intensificata poi nell'incontro di una vecchia zia, o illuminata nel
ricordo del primo amore per dissolversi nel riviversi “marmoreo” di una
novembrina terra degli affetti (“...vivere la morte con voi miei cari...” così
si esprime il poeta).
E' l'anima più
interiorizzata che si misura in un vorticare di echi immaginari e vertiginosi
tra cielo, mare e terra per approdarsi e confrontarsi con i “perché”
eternamente presenti (in quanto assenti) e con le parole dell'ansia e del
dubbio. (Di qui l'accorata “fuga” di popoli sul mare e il “precipizio”
carsico...). L'ansia di una apparizione spettrale e graffiante dove la “luce”
diviene disumana anche per un Pardini altruista e giocoso, ma meditabondo nel
contatto con il “sacro” e l'ineluttabilità del tempo. Il “sacro” dei Miti
futuri dove si evidenzia la caduta dell'essere (dimentico del cielo...) che
soffre il peso delle sue pietre (il sacco aggrappato alle spalle...) rischiando
la “gabbia” del limite e confine terrestre.
Noia, malinconia,
curiosità dei confini, tormento di parole sfuggenti, “assenza” sinonimo di un
“vuoto” presente: pathos che l'amore libera, qualifica ed eleva sino
all'eterno, avvalendosi di un sostegno celeste da accogliersi sullo sfondo del
suo misterioso assillo.
Ma tutto sembra reale
anche oltre l'eterno: e l'assenza si trasforma dinamicamente nella presenza di
“nuova realtà” che le appassionate cantiche a Francesca e Delia dimostrano e
che il “tempo” potrebbe rioffrire al poeta nel desiderio del padre o nel raggio
di una vita a superare l'indifferenza dei pensieri...
L'eterno ritorno è
anche il “muro” che si rianima di essenze spirituali (sotto le ombre dei
cipressi...) pronte all'incontro alle soglie dei sepolcri: un incontro “totale”
dove le immagini della natura si accompagnano alla “luce” della notte e dove la vita e la morte vibrano
nell'aria e nella beatitudine più cristallina.
E la “luce” (flebile
lume...) ritorna nell'orizzonte pardiniano per oscurarne le impossibili “corse”
tra il vento, le arcane “mete” di alchimie liriche affollate di ricordi e di un
pensiero smarrito nel naufragio “del nostro eterno esilio”.
L'esilio che si
abbraccia alla sua primavera ora senza memorie e continua la vita di sempre, ma
rinnovata da una giovinezza spirituale inaudita che si incontra in spine
colorate senza rovi.
L'esilio che il “volo”
di Icaro non scopre ma verticalmente brancola prima di precipitare nello
sprofondo degli abissi onorando il padre e cercandone l'aiuto alla sfida: il
“pendolo” familiare che Pardini pone a simbolo del suo narrare libero e ardito
che trova nel “sepolcro” d'Icaria la dimensione più autentica e nella ricerca
di “orizzonti” smarriti il corso itinerante del suo tentativo esistenziale dal finito all'infinito.
Marco dei
Ferrari
Un'analisi puntuale che entra nelle viscere ddll'opera e la rende interattiva sotto il profilo di comunicazione critica.
RispondiEliminaLeggendo queste notazioni di Dei Ferrari, chi si pepara alla lettura ne può intuire da subito gli intenti emozionali,attuando preliminari collegamenti di Pardini con i Poeti classici ed una certa impostazione pascoliana.
Tuttavia le sollecitazioni sono anche a riflessioni filosofiche introspettive , come ad indagare anche su una sorta di silenzio ermetico che si presenta e ripresenta pulsante tale ad cuore che batte.
Marco ci dà la dimensione di una critica espansiva che va oltre l'esame testuale e si addentra nei segreti dell'anima.
Non ho ancora letto "I canti dell'assenza" di Nazario Pardini e questa analisi di Marco dei Ferrari non può che invogliarmi a farlo.
RispondiEliminaCon la consueta maestria di critico e di poeta Marco penetra nelle pieghe più intime del testo e ne rivela l'essenza: il rapporto con il tempo, le antinomie finito/infinito,mythos/pathos.rimandano a una ricerca esistenziale che si pone in una prospettiva universalistica e trova nella poesia l'espressione più propria, per la densità di significati e le suggestioni culturali e letterarie che vi si respirano.
A Marco dei Ferrari il merito di aver colto ll senso dell'opera nella sua complessità e di avercelo restituito con la consueta profondità e finezza.