Giorgio Manganelli: Poesie. Crocetti Editore.
Milano. 2007. Pagg. 360. € 20,00
Un
massiccio volume di ben 360 pagine, editato per i caratteri di Crocetti
Editotre nel 2006 e nel 2207 come seconda edizione, suddiviso in Poesie, Appendice I, Appendice
II, Appendice IIA, II Altre poesie, III Poesie giovanili, che contiene
l’attività poetica di un’intera vita di Giorgio Manganelli. Un libro di grande
valore documentaristico e epigrammatico per conoscere la poetica e la filosofia
di vita di questo grande personaggio del mondo intellettuale dell’altro secolo.
E quello che risulta da una lettura diacronica del testo è un crescendo di
attenzione che l’Autore pone alla forma, Forma come vita, come desanctisiano
risultato, forma come totalità di pensiero, come contenitore di un’anima tutta
volta a dire di sé a volte anche con un certo distacco, ma soprattutto a dire
del rapporto fra l’esistere e la morte, fra thanatos e eros. La vita in tutta
la sua complessità gioca la parte principale nella narrazione. L’inquietudine
del fatto di vivere in spazi ristretti, l’insoddisfazione di fronte
all’impossibilità di risoluzione delle questioni dell’esistere. D’altronde
l’autore ricorre a rocambolesche strutture metrico-sinestetiche, a slargature
sintagmatiche, a forzature sintattiche, anacoluti, a stratagemmi retorici per
cercare di protrarsi al di là di un linguismo calcolato a misura umana. È lì il
bisogno di fuga di Manganelli, quello di
andare oltre la gabbia in cui è chiusa
la sua permanenza terrena: un tentativo di volare o di agguantare il
cielo, però coi piedi appesantiti dal fango della vita. Un peso che non ti
permette di affrontare viaggi troppo spaziosi. Le ali s’ingrumano, sbattono
sugli alberi, cadono al suolo. Ci sono orizzonti che vanno oltre i limiti del
nostro sguardo, e che denunciano la povertà della nostra permanenza; una
sottrazione che si traduce in saudade, spleen, malessere, inquietudine,
coscienza di una precarietà di fondo che ti rende umanamente troppo umano. Il
verso cerca con tutte le sue forze di agguantare gli input del pensiero,
dell’intelletto, o della cavità emotiva; si fa sdegnato a volte, a volte
sarcastico, irriverente, ironico, raramente lirico; risponde al bisogno di un
nichilismo spesso invadente e anche quando le emozioni appaiono più placate e
distese sono sempre in preda ad una melanconica visione dell’oggi e del poi,
confessando con voce franca e schietta “La gioia di essere tristi” come afferma
V. Hugo. In una lotta corpo a corpo con l’immagine di Thanatos; in un
confronto, a volte, all’ultimo sangue in cui Manganelli non cede le armi; si
ribella fino a trovare un elemento di gioia persino nella morte:
C’è
nel morire un elemento di gioia,
quando
s’abbrevia il corpo
nella
positura del grembo,
e la
nudità fusiforme
s’appunta
ad uno sforzo di luce:
mentre
il niente morde
il
cuore paziente, rosso,
della
maturità. (Pg. 77)
Nazario
Pardini
DAL
TESTO
Sia
lode a Dio per lo spazioso inferno
per l’assenza
del sole, la sdentata
fame
del vento sulle rosse foglie,
a la
blesa querela dementi:
per
ogni forma prefigurante
la
violenza attiva
del
ragionevole niente:
per la
città sotterranea dagli angoli esatti,
luogo
sintetico, oggettivo,
esente
da speranza, imperfettibile –
per
il, suo cielo di rame.
(1958,
estate)
III
(il
morto)
Eh
noooo!
D’accordo
ci riescono tutti/
Muoiono
gli analfabeti, i cani
cimurrosi,
i re di damasco,
i
pederasti, figurati:
muoiono
anche i fascisti.
Eppure:c’è
morte e morte, cavaliere!
Eppure:
io sono un feto:
fu
facile, credi? No.
Un
pezzo di dio salato d’anima.
Senza
parole. Non stupido, ignaro.
Interrogami!
Mi chiedi di dio:
del
male e del bene.
Io
sono figlio di dio, nient’altro:
un
escremento.
31/III/
‘61
L’indemoniato
Resterò
qui accanto alla tua croce
Luogo
sgombro, distante, solitario:
qui
non salgono i dèmoni a toccarmi.
Ho
capelli lunghi come fuochi
sottili, aggrovigliati: ho la luce
che
brucia nelle mani.
I
dèmoni ogni giorno
cavalcano
il mio corpo.
La mia
carne ha paura di bruciare:
non so
che pentirmi.
Porto
i peccati sulle labbra:
non li
voglio ingoiare.
Stringo
il tuo corpo
deserto,
lungo nell’aria:
la mia
chioma minuta mi spaventa,
le
dita rapide e sottili:
il
terrore mi abbacina, mi salva.
Giuda
La
notte estiva è lacerata
dai
piedi degli angeli:
hanno
spade ferme
nell’aria,
hanno lance le mani luminose:
ora
sono le mie mani
come
quelle degli angeli: le mie membra
non
sanno più corrompimento:
già mi
ardono i capelli.
Ecco
le spade, ecco le lance
ferme
sopra di te nell’aria:
il mio
corpo illumina
la
strada dove c’incontriamo:
ecco
su di me discendere
il
vento dolce delle lame.
Giorgio
Manganelli
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