ALMA
POESIA, VERSO LA LUCE
IMPRESSIONI
DI MILVIA PAGLIARINI
Ha
ancora un senso la poesia in un mondo così disincantato e tecnologico? O forse
ha ancora più senso proprio per questo?
Montale
diceva che, quando gli veniva richiesta ufficialmente l'attività svolta,
scriveva “giornalista”; non gli sembrava serio scrivere “poeta”.
Poesia
è l'umanità che riflette su se stessa attingendo a sentimenti universali
nell'esprimere la felicità di un attimo o la paura, il dolore più profondo. Si
dirà: tutti lo sanno fare, quando lo provano; ma non è vero. Ecco quindi la
qualità del poeta: trovare la parola che esprima quel sentimento, quella
emozione, inserendoli in uno spazio più grande dove tutti ci possiamo
riconoscere. I quattro protagonisti di questo piccolo volume mi sembrano
possedere questa qualità essenziale.
C'è
anche ad accomunarli un motivo di fondo ricorrente nella poesia: il senso della vita che fugge, declinato secondo le
diverse sensibilità ed esperienze.
Quelli
che io esprimerò qui in relazione a ognuno di loro non sono – né potrebbero
esserlo – giudizi ma semplicemente emozioni.
Il
primo autore di questa raccolta è
Pasquale Balestriere che nelle dieci liriche qui incluse dispiega tutta una
visione della vita con espressioni
estremamente suggestive che, a volte, ci
fanno cogliere solo in un secondo momento il senso più profondo delle parole.
C'è
nei suoi versi spesso il sole della sua terra (“sapevamo / però di soli appesi
nell'azzurro / a nutrire la voce della luce”)
C'è
l'impeto selvaggio proprio della sete di esperienze che accompagna la
giovinezza (“avidi attraversammo / esplose primavere”; “un fuoco divorava a
riga a riga / le parole sul foglio della vita”).
Vi è
descritta, quasi con rabbia, l'ansia di cogliere l'attimo (“sapias, vina
liques, carpe diem”) allentando con ciò inevitabilmente le corde degli affetti.
Ma a
questa musica forte si affianca, come un accompagnamento in minore, un tono
disincantato, perché tutto è visto in un momento successivo, quando arriva la
consapevolezza che il viaggio non è
interminabile e sopraggiungono “grappoli fitti d'accese memorie” a svelare il
passo corto del tempo. Quando si arriva a chiedersi , con Neruda e Montale,
quanto si è vissuto.
È il
tempo del ripiegamento, espresso nelle liriche “Memorie di Ulisse” e soprattutto “Sorte” in cui ritornano anche l'infanzia e la nostalgia degli affetti.
C'è poi, vicina a questo mondo degli affetti e resa con uno stile appena più
sommesso e colloquiale, l'intensità di liriche
come “È morto ieri”, “Ultimo canto per il padre”, “Se a me in forma di
soffio” dove prendono vita nelle parole la compassione, il rimpianto, l'amore
oltre la vita.
A
chiusura di queste brevi considerazioni vorrei riportare, di Balestriere,
alcuni versi della poesia “Tramonto a Paestum”:
“
………………...E
sono i templi,
arpe
d'oro, che forniscono suoni
alle
dita del vento:
de te narratur, soffiano
leziosi
perché davvero questa storia
antica
ci appartiene da sempre…”
La
forza evocativa di questi suoni riesce ad allontanare l'opacità del quotidiano.
Certo il peso della vita ritorna sempre, ma una scheggia di bellezza rimane in
qualche parte di noi a renderci più umani.
Seconda
nell'ordine di questa raccolta è Carla Baroni.
È
un'acqua fonda Carla Baroni.
Nell'accostarmi
quindi alle liriche di questa raccolta non posso non ricordare quello che lei
stessa, in altra sede, ha detto di sé:
“Io
sono l'acqua, amico, sono l'acqua
che non
conosci, anche se è sincera.”
Suona
un po' come un guanto di sfida, nella consapevolezza della propria complessità.
Se ne
dovrà tener conto nell'analizzare i temi della sua poesia che troviamo in
queste dieci liriche.
Bisogna
dire che nessun aspetto della vita e della storia le è estraneo (“Il pendolare”, “Lascia i
terreni affanni”, “La terra trema”) ma qui ricorre anche il mistero
dell'Universo e, dentro questo, il miracolo dell'uomo, capace di percepire se
stesso, di amare, di soffrire, di distinguere il bene dal male, “minimo cosmo”
ma “ misterioso più dell'universo” e destinatario, forse , di un progetto
d'amore (“Ancora splende / la chimera lontana di un approdo”; “Dammi un segno
dall'ombra del tuo vuoto / dammi quel segno che mi renda certa / che polvere
non siamo ma qualcosa / che sopravvive in un disegno eterno”).
Ritroviamo
anche, ricorrente nella sua poesia, il motivo del rimpianto per aver troppo
rinunciato e insieme la consapevolezza che
comunque l'attesa dell'amore non
finisce mai (“ma io attendo sempre il fiore rosso / che mi schiuda le labbra
nella sera”),
ma qui
non dobbiamo indulgere nella tentazione di un giudizio sentimentale.
Dobbiamo
ricordare che accanto alla nostalgia per quanto nella vita è mancato,
ricorre sempre, nella Baroni, la consapevolezza, allo stesso
tempo dolente e autoironica, che nessun amore sarà mai all'altezza del sogno
cui si accompagna.
Dietro
la sua poesia c'è sempre un'intelligenza disincantata che misura ogni
slancio con il metro della realtà,
capace di passare per vari gradi di ironia, fino all'aperta canzonatura (“La ballata della strega”, “La
pozione”).
In
questa raccolta questo suo tocco da strega gentile lo troviamo esercitato
niente meno che nei confronti di T. S. Eliot.
È
irresistibile la garbata ironia fra il tempo - non tempo di Eliot, apostrofato
come “astuto ladro di altrui rime”- e la grazia di Filomela, piccolo usignolo,
che ancora canta “il suo liquido canto alla natura / immemore che il tempo non
sia tempo / ma lieta del chiarore della luna”.
La poesia
è anche questo e nemmeno Eliot si sarebbe adontato, lui capace di scherzare con
i suoi “gatti tuttofare”.
Si
giocano soprattutto sul tema del ricordo le dieci liriche di Nazario Pardini e
si connotano in una particolare nostalgia.
C'è un'intensità quasi lacerante nel ricordo più
remoto: lo stradone della scuola ( si indovina tutto un mondo durissimo dietro
quello stradone); la scuola a cui si giungeva infreddoliti ma sognando prati
verdeggianti anche a dicembre. Poi il ricordo dei sassi lanciati con le fionde
e l'impeto che accompagnava il gesto (“riuscivo a silurare il cielo con le
pietre / convinto di bucare anche le nubi”).
I falò
dell'autunno caratterizzano la nostalgia dell'adolescenza e risvegliano la
sensazione quasi fisica del “tiepido muretto adolescente”in cui si concentrano
memorie di altre stagioni.
Non può
mancare l'amore in questa “rêverie”
ed ecco Delia, le mani che si sfiorano, un bacio rubato tra le foglie
amarognole delle viti, durante la vendemmia.
C'è
anche evocato con levità, come per non destare un dolore sopito, il ricordo di
Lidia, dagli occhi lucenti, che non cedette “la luce dei vent'anni / in cambio
di vecchiezza”.
Ma
quello che soprattutto rimane, come l'immagine di un quadro, è la piazzetta in
mezzo ai tigli, la piazzetta degli incontri con il barettino che offriva
cioccolato caldo; la piazzetta dove rimane la sensazione di “un'aria che sapeva
di speranza”: a ogni ricordo comunque, in ogni fase della vita, si accompagna
la percezione costante della bellezza della natura nella successione delle
stagioni; il biondo dei covoni, i pampini invecchiati, il rosso dei gerani e,
su tutto , il senso di pace della campagna, lasciando i rumori della città (“Tornavo
ch'era sera”, “L'erbale silenzio”).
Dal
passato non ritornano comunque solo ricordi personali ma anche, come evocate
dal paesaggio del sud, memorie del mondo classico (Cilento, Meridione).
Ecco
quindi i fantasmi di Mori guerrieri, di Normanni e Angioini e soprattutto di
lui, il “laico imperatore”, Federico, stupor mundi, straordinaria figura di
sovrano, spregiudicato politico, guerriero, statista, poeta fra i suoi poeti di
scuola siciliana e grande esperto di falconeria.
Non a
caso forse alcuni dei versi più belli
della lirica “Meridione” vedono un falcone librarsi su mura di severi
castelli e su “rami imbionditi di ginestre” tra spine di fichi d'india, profumi
di zagare e limoni; e questa è soprattutto l'immagine che resta, dove la
memoria storica e il paesaggio si fondono in un'unica suggestione.
Che
dire infine di Umberto Vicaretti e dello sguardo lucido e desolato con il quale
contempla il dolore della vita fino a sentirsi “uccello migratore perso al
vento / straniero ai cieli ed alle rotte amiche”?
L'Eden
sognato è svanito ed ora siamo tutti
come viaggiatori senza una meta in un mondo dove “bruciano le città” e
“alti crepitano fuochi e ampolle d'odio”.
Il suo
sguardo sul mondo coglie il dolore, l'orrore , la disumanità (“Via delle cento
stelle”, “Dicotomia del fuoco”, “Stabat mater”, “I fiori di Bodrùm”). Ne esce
un tragico elenco in cui il Male ha raggiunto un punto di non ritorno con
Hiroshima e Nagasaki da Bergen-Belsen al deserto Srebrenica, fino ad Aisha che ignara attraversa il fiume
con passo leggero ed Aylan che “dorme” sulla spiaggia di Bodrùm.
Eppure
nella musicalità del verso e nella straziata dolcezza con cui sono descritte le piccole vittime
sembra di cogliere - ineliminabile- il desiderio di ritrovare uno smarrito
sentiero di luce, come se la cetra della poesia potesse “mitigare le ferite”. Forse
le vittime Aisha e Aylan troveranno
“passaggi e mappe per un altro approdo”, anche se in questo mondo, al di là di
ogni immeritata redenzione, la terra ancora brucia.
Ma c'è
una corda più intimistica nella poesia di Vicaretti che trova voce in liriche
quali “Notturno”, dedicata alla
figlia, “Canzone di Orfeo”, “Scrivimi che stai bene”, rivolta alla madre, “Dicotomia
del fuoco, II”.
In
questo ambito collocherei anche
l'affetto-amicizia espresso nei versi rivolti a Mario Luzi (“Il prezzo da
pagare”) e soprattutto nell'immaginario contraddittorio con l'amico Pasquale
Balestriere (in “Montaliana II”). Qui, riferendosi ad una poesia dell'amico (“Sorte”)
e riprendendone alcuni versi – di montaliana suggestione – ne trae una
conclusione che si traduce in “pegno d'amore a disarmare il male”.
Mi
piace comunque chiudere, sul tema
dell'amore, con gli ultimi versi della lirica rivolta alla madre, di
particolare musicalità:
“Ma intanto che io scrosto
palmo a palmo
rubini e stelle al cielo dell'infanzia,
nel tempo chiaro e indenne
in cui tu vivi
prendi una rosa e scrivi,
scrivimi che stai bene.”
A
conclusione di queste mie personali considerazioni (ribadisco: non giudizi) mi
verrebbe spontaneo ringraziare questi quattro poeti per le emozioni che mi
hanno procurato. Ma poi mi dico? Perché ringraziare? Come disse Mario il
postino nella sua isola a Pablo Neruda: una poesia non è di chi la scrive ma
“di chi gli serve”. E così sia sempre.
Carissima Milvia, infinite grazie per aver commentato con tanto acume e generosità le poesie di ciascuno di noi, mettendone sempre in evidenza i pregi e le peculiarità. Un giudizio - sebbene tu non lo chiami tale - molto positivo che ci rallegra e che speriamo venga condiviso anche da molti altri. Ancora grazie da parte di tutti noi.
RispondiEliminaCarla Baroni
Mi unisco a Carla nel ringraziamento a Milvia Pagliarini per questa nota di lettura densa e mossa, che rivela spiccata sensibilità interpretativa, acutezza d'intelletto, ricchezza verbale e apertura mentale. Doti, queste, che non mi capita di riscontrare in note critiche, letture o considerazioni tanto pretenziose quanto inadeguate, talvolta pubblicate sui blog letterari e (purtroppo)anche su questo.
RispondiEliminaPasquale Balestriere
"Poesia è l'umanità che riflette su se stessa": perfetto questo "abito" su misura con cui Milvia Pagliarini "veste" la Poesia; e in tale dimensione, io aggiungo, la Poesia non è che la sublimazione dell'umanità. L'assunto di Milvia Pagliarini richiama l'apostrofe "Vola alta Parola" con cui Mario Luzi evoca il magistero del Poeta e sottolinea la sacralità della Parola, in quanto "essa è il segno e la testimonianza del divino che è nell'uomo; perché la Parola" (e la Poesia è la Parola per eccellenza) "ha il potere di richiamare l'uomo a se stesso, alla sua coscienza".
RispondiEliminaUn apprezzamento convinto e sentito a Milvia
Pagliarini per la sua articolata , pertinente e profonda nota critica, in cui ha saputo individuare perfettamente non solo elementi, stilemi, visioni che caratterizzano i nostri mondi poetici, ma ha anche saputo "leggerne", in filigrana, la valenza e la tensione etico-filosofica che li attraversano.
Di ciò le siamo davvero grati.
Umberto Vicaretti.