martedì 1 gennaio 2019

MARIA GRAZIA FERRARIS: "OMAGGIO A E. DICKINSON"



Maria Grazia Ferraris,
collaboratrice di Lèucade

Omaggio a EMILY Dickinson



Ogni giorno sul quotidiano Q.N. nella rubrica  NOTIZIE di POESIA, curata dal prof. M. Marchi, viene pubblicata in bella evidenza una poesia di autore italiano o straniero, preceduta da una breve introduzione. Aspetta i commenti dei lettori, che non mancano mai,  e spesso sono di notevole interesse e grande coinvolgimento: la poesia non muore, qualsiasi il tempo deprecabile si stia vivendo, per nostra consolazione!
Alla fine del mese si tocca con mano quale delle poesie pubblicate ha avuto i maggiori consensi dei lettori. Ed è un bel test! Questo mese di dicembre appena concluso ha visto tra i finalisti EMILY  DICKINSON (Amherst, Massachusetts, 1830- 1886) …e  tutto sommato, nonostante il vasto consenso, mi sono stupita: non è certo una poetessa facile la Dickinson, orecchiabile, immediata, dilettante… è un colosso della storia della poesia, che sfida il tempo. Consuma l’esistenza in una stanza, nella lettura, l’introspezione, nella scrittura, una fragile esistenza “di porcellana”.  Ama leggere in solitudine, riflettere, pensare, studiare e le  sue avventure, i suoi viaggi sono di natura intellettuale e poetica. Grande Emily.
Ottima la scelta dei lettori, ma ancor più quella del curatore che via via nel tempo ha dato spazio a più poesie dell’autrice, di cui vorrei farvi partecipi, leggendone alcune, tradotte da notevoli poeti-scrittori  italiani, insieme a voi..
Scrive come introduzione il prof. Marchi:
“Per pochi altri poeti come per Emily Dickinson valgono e trovano compimento in un’opera le ipotesi formulate da Montale in una intervista del 1972: ipotesi secondo le quali “solo gli isolati comunicano”. Parole che anche un altro importante poeta italiano del Novecento, Andrea Zanzotto, ha fatto proprie, elevandole nel suo stesso biografico consistere a Pieve di Soligo, un paese del trevigiano con il suo paesaggio, a condotta di vita e inverandole, quel che più conta, in una produzione letteraria complessa quanto decisiva, implicante e determinante.
Ed è così che anche Zanzotto, articolando sinteticamente il discorso su base testimoniale, può illustrarci in maniera esemplare il paradosso dell’atto poetico, “originato – sue parole cui non mi pare ci sia niente da togliere o aggiungere – da un estremo sentimento della irripetibilità, dell’unicità proprie dell’individuale, ma anche di un prepotente senso di necessità di partecipare ad altri questa ‘unicità’ e di riceverne quella altrui”. Il poeta colto sul crinale tra io e mondo della sua espressione, del suo pressante bisogno di affidarsi a parole ogni volta osmoticamente avvertite – miracolo dell’arte – sue e non sue.”
Di tutto questo l’opera di Emily Dickinson, qui mirabilmente rappresentata da un testo come “Because I could not stop for Death”, costituisce “una prova inconfutabile, radiosa: perfettamente in se stessa risolta e come tale ancor oggi universalmente riconoscibile, da affiancare per bellezza e verità alla certificazione che proprio della solitudine la poetessa americana ci ha lasciato in una delle sue lettere (spesso poesia pura anch’esse): “Dipingerei un quadro capace di commuovere fino alle lacrime, se avessi la tela adatta, e la scena sarebbe la solitudine, e le figure solitudine, e in ogni luce, ogni ombra una solitudine. Potrei empire una sala di paesaggi così pieni di solitudine che gli uomini vi sosterebbero davanti a piangere, e poi si affretterebbero verso le loro case, grati di ritrovarvi un essere amato”.
Ecco la poesia: Poichè non potevo fermarmi per la morte (traduzione di Natalia Ginzburg).

Poichè non potevo fermarmi per la morte
lei gentilmente si fermò per me
La carrozza portava solo noi due
e l’immortalità.

Andavamo piano, ignorava la fretta
e io avevo abbandonato
il mio lavoro e il mio riposo
per la sua cortesia.

Passammo oltre la scuola
dove i bambini nell’intervallo facevano la lotta in cortile
Passammo campi di grano che ci fissavano
Passammo oltre il tramonto

o piuttosto fu lui a oltrepassarci.
Scesero rugiade tremanti e gelide
solo garza il mio vestito,
il mio mantello di tulle.

Ci fermammo a una casa
che sembrava un gonfiore della terra
Il tetto era appena visibile
il cornicione sepolto nel suo oro.

Da allora sono secoli eppure
sembrano più brevi del giorno che intuii
per la prima volta che le teste dei cavalli
erano rivolte all’eterno.

La poesia, l’arte, la solitudine, la vita vissuta senza fretta,  l’immortalità ...e la morte- “solo noi due”-: i temi principi di Emily Dickinson, il suo mondo, parallelo a quello quotidiano, un mondo che può far posto “gentilmente” –all’ultimo viaggio, oltrepassando i paesaggi della banale quotidianità, i bambini che giocano, i campi di grano, il tramonto …- alla morte, la più democratica dei sovrani, che ha la sua casa dai cornicioni d’oro posta in un luogo non definibile, l’eternità.
Poesia dedicata alla morte che pure piano, cortese, gentilmente la conduce lontano, distogliendola dal suo lavoro e dalla sua solitudine, verso l’immortalità, su una carrozza trainata da cavalli che volgono la testa all’eterno.
E.D. traduce verità filosofiche vertiginose in linguaggio terrestre. La sua quotidiana prigione dorata e volontaria è infatti soprattutto un punto di osservazione, di ascolto che le permette di sentire anche il centro dell’universo– specchiandosi nella propria vasta irrinunciabile solitudine. La morte diviene metafora della distanza; e la vita si traduce nel viaggio di avvicinamento ad essa:
“Fu questo un poeta –colui che distilla/ un senso sorprendente da ordinari
significati, essenze così immense/da specie familiari…”

Una seconda poesia conferma la presentazione: - I’ll tell you how the Sun rose, Ora ti dico come vidi il sole  (traduzione di Silvio Raffo)

Ora ti dico come vidi il sole
nascere: un nastro dopo l’altro,
nuotavano le guglie in ametista –
correvano, scoiattoli, le novità del giorno –
Le colline si sciolsero la cuffia –
il bobolinco incominciò a cantare –
Allora sussurrai dentro di me:
“Non può essere che il Sole!”
Ma come se ne andò non ti so dire –
una scala di porpora sembrava
su cui s’arrampicavano di corsa
schiere di bimbi del color dell’oro –
Quando giunsero al sommo ecco d’un tratto
un precettore dall’abito grigio –
gentile pose le sbarre alla sera
e guidò la brigata via, lontano.

La poesia è tipicamente dickinsoniana: il paesaggio naturale consueto la sfiora e talvolta la cattura gioiosamente, anche se non l’impiglia mai. Lei sa uscire da ogni limite naturalistico, sa volare con la sua sensibilità e la sua fantasia che elabora misteriosamente il quotidiano: comunica con un’anima sensibile, immensa, mai definibile una volta per tutte. Del paesaggio sa apprezzare tutto: i colori, gli animali, le colline, anche gli aspetti estremi. Permea il tema dell’umano quello della natura, sorgente di meraviglia e di fascino rinnovato, nelle stagioni che si ripetono, nei fiori, negli animali osservati con interesse gioioso. Sono filtri, finzioni decorative, estetiche, lampi, intuizioni - carichi di stupore e  mistero- che si sovrappongono al mistero di chi guarda, e che spesso si caricano di messaggi che conducono all’eternità.  La sua quotidiana prigione dorata e volontaria diventa soprattutto un punto privilegiato di osservazione, che si specchia  nella propria vasta irrinunciabile solitudine, dove “il precettore dall’abito grigio”-gentile- pone le sbarre conducendo lontano ogni luce.

Ma la Dickinson  sa salire anche  a vette vertiginose, come nella poesia La “Speranza” è quella cosa piumata (traduzione di Barbara Lanati):

La “Speranza” è quella cosa piumata –
che si viene a posare sull’anima –
Canta melodie senza parole –
e non smette – mai –

E la senti – dolcissima – nel vento –
E dura deve essere la tempesta –
capace di intimidire il piccolo uccello
che ha dato calore a tanti –

Io l’ho sentito nel paese più gelido –
e sui mari più alieni –
Eppure mai, nemmeno allo stremo,
ha chiesto una briciola – di me.

La “Speranza”, la “cosa piumata”, un’immagine alata e indecifrabile. Ha in sé il segno intransigente del pensiero, che fatica, nel luogo comune interpretativo, a tradurre la voce poetica con l’idea della “femminilità” dell’Autrice: pochi aggettivi, poche parole, incisive, ritmo spezzato, poca effusione, niente lacrime, poca volontà seduttiva. Eppure comunica un’anima sensibile, immensa, mai definibile pacificamente una volta per tutte. Sa immaginare nella metafora leggera della “piuma” la speranza e la sua gioia, ma anche frequentare l’assoluto, la “gelidità dei mari più alieni”, sa volare.
Risponde alteramente e orgogliosamente al dolore: “E dura deve essere la tempesta –….Io l'ho sentito nel paese più gelido – e sui mari più alieni – Eppure mai, nemmeno allo stremo,/ ha chiesto una briciola – di me.”
La quotidiana prigione di Emily è soprattutto pensiero e ascolto: un cerchio perfetto che le permette di sentire anche il centro dell’universo e di poter dire NO al mondo - si nutre di se stessa, si specchia nella irrinunciabile solitudine e nella bellezza, salva nella POESIA, perfettamente consapevole dei limiti, delle insufficienze, della parola in genere e della parola poetica in particolare, come ben ci dice in Raccontare la bellezza significa svilirla ( traduzione di Franco Buffoni):

Raccontare la bellezza significa svilirla,
Definire l’incantesimo intaccarlo;
C’è un mare senza sillabe
Di cui bellezza e incanto sono segno.
Con la volontà mi sforzo invano
Di ricreare la parola giusta,
Ma sempre poi me la rapiscono
Miniere di pensieri introspettivi...

M.Grazia Ferraris




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