Rossella Cerniglia, collaboratrice di Lèucade |
Rossella
Cerniglia. Penelope e altre poesie.
Campanotto Editore, 2009
PREAMBOLO
(…)
Conta i suoi giorni Penelope
lentamente,
lentamente fumigare come
incenso,
tra le mura di casa, fiamma
vana,
sterile fuoco che si consuma
solo
Poesia
onesta, schietta, vibrante, intensa, che, con tutti i suoi scarti
sinestetico-allusivi, accompagna e vivacizza i processi ontologici del testo.
Un modo di fare poesia scavando e ricercando; è qui il focus della poetica di
Rossella Cerniglia. La sua visione del poièin è chiara e coinvolgente: ella
tesse una trama tutto attorno ad un mondo unito e compatto; non intende
frammentare, dividere, segmentare, ma unire in un unico afflato partecipativo.
Si sfronta con il modernismo o post-modernismo teso alla frammentazione. Sta qui la sua intelligenza critica, il suo
pensiero etico-filosofico, emotivo-creativo. I suoi versi sono vòlti a
concretizzare un animo zeppo di motivazioni umane; di cose da dire; di concetti
da esternare. Ella ama, studia, scompone e ricompone i tasselli di un
puzzle a ché tutti riprendano il loro
posto in un quadro di forte impatto simbolico. Totale. E’ il percorso che si
rivela arduo e razionale, filosofico e poetico insieme. Eccola l’organicità del suo mondo. Non è di certo
una poesia sperimentale, la sua; ma attiva e fattiva, ha le idee ben chiare:
ama fare del passato la soglia del futuro. Direi con T. S. Eliot: “Il tempo presente e il tempo
passato sono forse presenti nel tempo futuro”. Spiritualità, sentimento, storia
personale, vicissitudini memoriali, mito e attualizzazione sono il substrato
del suo canto; la miccia del fuoco. La poesia deve emozionare coi suoi ritmi
sinfonici, deve parlare di noi, del nostro esser-ci, delle ferite, e delle
gioie che la vita ci propone continuamente. Non è concepibile una poesia
amorfa, disgiunta dalle epigrammatiche vicende. Ma quello che la Nostra fa va
ben oltre: riesce coi fremiti del suo
poema a tramutare i personali tragitti
in universali sentieri. La sua è una confessione sincera e spontanea di
palpiti ontici che riguardano tutti noi; tutti noi umani che, disuniti,
dobbiamo compattarci verso mete di improbabili soluzioni. Sta qui l’essenza del suo poema. E’ cosciente
della esiguità della sua vicenda, della nostra, e non si apparta, ma si
aggiunge compatta ad un tutto che soffre e si inquieta di fronte all’idea del
sempre e del mai. Questo libro della Cerniglia è un dono di preziosa valenza
per penetrare nei suoi giochi esistenziali: la prosodia dà segno di padronanza
lessicale e connessione col mondo della poesia. I versi si alternano da più
brevi a più ampi per stare dietro al dettato dell’animo. Una successione
altalenante di un grafico consono al
sentire: “E nel mutamento le cose si riposano” afferma Eraclito. Una
penetrazione psicanalitico-naturalistica che ritratta con icasticità la sorte
umana senza cadere mai nella palude dello psicologismo; dello sfogo deteriore e
decadente, dacché sono gli argini ben strutturati a evitare le esondazioni del
sentimento. Sta qui il leitmotiv che
lega tra loro gli intenti poetici della Cerniglia: riflessione, memoriale,
storia, sentimento, senso del tempus fugit, fuga verso ambiti edenici per
sopperire alle aporie del quotidiano; e ricerca continua di se stessa e di un
verbo capace di contenere tanta energia speculativa. Osserva, sorveglia, con scrupolo analitico, tutto l’ensemble che
fa da cornice alla vita degli umani; e lo fa con un realismo lirico che tanto
l’avvicina allo stile capassiano, affidandosi, anche, a riflessi panici che si
umanizzano, quasi dannunzianamente, nel
loro apporto figurativo. Questi sono i punti cardinali del suo percorso, pur
mantenendo ogni sua opera l’unicità che contraddistingue il carattere
inequivocabile di ogni creazione: la ricerca di un unum che riporti all’origine
della grandezza divina “Un’attesa di vivere la vita, un’attesa che il suo
destino, quello di incontrare la sua metà, si adempia.”, come scrive l’Autrice.
NOTA CRITICA
Rossella
Cerniglia, novella Penelope, affida la sua mitopoietica ricerca a versi di
classica architettura che niente hanno a che vedere con le vane sperimentazioni
di positura prosastica che tanto si allontanano dalla vera poesia; da quella
che la Poetessa ama e alla quale affida ogni su ontologico pensiero: emozioni,
inquietudini, coscienza della precarietà del tempo, fuga verso isole
irraggiungibili, sogni, attesa, nostoi, unione, verticalità e orizzontalità; un
Ulisse che naviga in acque turbolente e nemiche, di un navigante che, idealizzato
nella struttura epigrammatica del poema, si fa uomo indefinito, attuale, presente, moderno con tutti gli
scarti emotivi che comporta; “… un amore incondizionato… trasferito su una figura
maschile, quella d’un amante ideale, mentre la situazione che si profilava
sullo sfondo sembrava richiamarsi all’eterna vicenda dell’uomo e della donna di
tutti i tempi” (da uno scritto
dell’Autrice). E’ così che la novella Penelope si fa moderna e attuale; più
pronta, spiritualmente, ad una navigazione che ferma in un’Itaca ad attendere.
Non è questo il ruolo dell’odisseica itacense; non è quello di stare a combattere tra Proci
invasori, aspiranti alla sua mano; non è staticità la sua; immobilità; attesa
passiva; ma aspirazione attiva; fattiva circolazione di emozioni che si
incuneano nel suo animo rendendolo proteiforme; insoddisfatto di una
narrazione che chiude l’ultimo capitolo
con abbracci ed incontri. Tutto è da definire; tutto è in fieri; tutto è
proseguimento come richiede la poesia; e la Nostra si imbarca, con la mente e
l’animo, sul vascello delle sue memorie in cerca dell’isola che niente ha a che
vedere con Itaca; con approdi di quietezza e soluzione. Soluzione sì, ma vista
come: “Una Penelope votata ad una vita tutta interiore, contemplativa, una vita
che è dell’anima, che appare, all’esterno, passiva e immobile, o la cui
mobilità è di vivere la vita, un’attesa il cui destino si adempia… Una Penelope
in cui il vivere non è, in realtà, un’autentica vita, ma un’attesa di vivere la
vita, un’attesa il cui destino- quello di incontrare la sua metà- si adempia…
Ma la vicenda di Penelope non stigmatizza solo una visione unilaterale, solo
mia. Le due metà…. Uomo e donna congiunti, rappresentano il corrispettivo umano
dell’Unità e perfezione divina…” (scrive
la Poetessa). D’altronde la voce del suo canto è chiara e lampante: anche se il
molo le è consono, è là, imperterrita e
pronta alla fuga mentale, davanti all’orizzonte della pura immensità. Tanta
motivazione esistenziale, tanto volo oltre, comportano versi dove troneggia,
non di rado, il maestoso endecasillabo a richiamare il passato in una
connessione diacronica con il presente:
“Ho dentro il cuore lo spento/ focolare, la
casa lontana/come le cose spente del
passato,/ anche se in essa vivo,
vegetando/ come pianta di un giardino/ abbandonato…”.
In
quarta si legge una struttura poematica con tanto di interpunzione a centro
verso, con emistichi a maiore e a minore, e
endecasillabi in tutte le salse, quasi a mettere in evidenza il rapporto che la
Cerniglia ha con la poesia: equilibrio, compattezza statuaria, epicità della
forma, a fare da argine a tanta effusione esistenziale; a tanto sentire
vicissitudinale che ci dice della vita, del suo correre, “dell’umana necessità fatta persona”:
Io, Penelope, qui, da sempre,
attendo:
da secoli senza nome, tanto
che
alcuno dice che io sono
l’attesa,
il concreto atto, l’umana
necessità
fatta persona. E così via.
Ma non v’è
attesa in chi voracemente
inghiotte
e rigurgita la vita. Io
resisto
ai suoi margini. Io,
solamente,
attendo. Il molo mi è consono,
lo stare di vedetta e lo
scrutare
l’orizzonte della pura
immensità.
Scrutare
l’orizzonte è come intravedere la sagoma di un porto a cui ognuno di noi
intende approdare. Si sa che l’uomo per natura, essendo insoddisfatto della sua
precarietà, vorrebbe ovviare a questo stato di disagio, intraprendendo un
nostos tanto improbabile quanto impossibile. E la Poetessa scruta l’orizzonte
per captare quell’immensità di cui si sente parte; infinitesima parte. E’ là
che vorrebbe portare la sua soma, il bagaglio delle memorie, l’entità del suo
esistere; in quell’isola che esiste solo nella sua ricerca, nella sua
immaginazione di Poetessa; un’immaginazione che nutre il serbatoio del suo
canto: l’inerzia velenosa, eterne odissee
cerebrali, la vela lontana, ignote parole, lo spento focolare, la pura
immensità, la misera Penelope, greggia materia, sogno naufragato, mio lontano cuore, irraggiungibile allo
sguardo, sarà solo la morte, lunga notte, trasparente morte il mare, l’oscuro andare, una fievole luce,
mistero eterna luce, odorosi sentieri, scontento senza nome, in pura gioia la
bellezza?. Tre le sezioni della silloge editata per i caratteri di
Campanotto Editore: Penelope, la
prima; Ulisse, la seconda; Altre poesie la terza, tenute insieme da
un leitmotiv che nel substrato della versificazione si fa tema conduttore da opera
lirica. Un filo rosso che si offre come visione filosofica dell’Autrice:
(…)
Così Penelope va per la
pianura
osservando le cime dei bei
colli,
i santuari spenti, non più
santi, con le luci defunte
d’un vecchio teatro ormai
disarmo,
celato nella quiete polverosa…
Una
staticità innaturale quella della Nostra, tutta volta ad una luce che la
chiama; che la invita a superare i limiti del suo esistere, il nulla,
l’assenza. Tutto finisce in questo mondo, tanto vale consumarci o rinnovarci
nel viaggio vero la Bellezza, pur
cosciente, la Nostra, della insufficienza delle proprie ali per un così arduo
volo:
(…)
E le ali mi mancano per potere
volare e il labirinto
infecondo resiste
e una fievole luce lontana mi
chiama…
Questa
la Cerniglia, il suo dilemma esistenziale, la simbiotica fusione dei
contrappesi, l’equilibrio classico delle forme: questa la filosofia del suo
poema; sta qui, nella ricerca continua del bello, in tutti gli interrogativi
irrisolvibili che la vita ci pone davanti, e che lei cerca di risolvere
avventurando lo sguardo oltre il limite della sua venuta; ove “… la vita rimane, come in una mia poesia Il vascello, l’immagine di questo maestoso veliero che scivola via,
lentamente, davanti allo sguardo interiore, mentre la brama di partire, di
vivere la vita, diviene rinuncia e rimpianto… (… E già rimpianto è la brama di partire)”.
Quando camminerai insieme agli
uomini, compagno
o compagna dell’ebbrezza,
quando la dirompente
tua fermezza frantumerà i
cuori di carne
trasformando in pura la
bellezza?
Dove
Ulisse scontento va, visitando le terre e il nero mare, dove gli preme tornare,
là dove si attende; ma sempre pronto a ripartire con quella voglia umana di
scoprire, a costo della vita; dove tutto è diviso, scisso il dolore come
vollero gli dèi. Sarà solo la morte la fine dell’attesa e del cammino, a
riunire “quanto è disperso nell’oceano vasto”:
(…)
Ma altra è la mia natura. Sempre scontento
vado, visitando le terre e il nero mare,
sempre il tornare mi preme là dove so
si attende. Tutto è diviso. Scisso è,
o Penelope, il mio dal tuo dolore.
Così per gli uomini vollero gli dèi
gelosi d’una diversa sorte. Sarà solo
la morte, la fine dell’attesa e del
cammino,
che finalmente porterà vicino
quanto è disperso nell’oceano vasto (Il
cammino, pg. 43).
Quell’unum di cui la scrittrice è in cerca, dove morte e
vita si completano per l’unità divina: un maestoso veliero che scivola via,
davanti allo sguardo interiore, mentre la
brama di partire – di vivere la vita – diviene rinuncia e rimpianto:
Davanti a me, sul mio occhio interiore
passa il vascello silenzioso,
immenso.
Con la bellezza enigmatica
delle cose superbe,
indifferenti,
così leggero scivola sullo
stupore muto.
Passa e mi sfiora il suo
ricurvo fianco.
La vita? Solo visione, visione
silenziosa.
E già rimpianto è la brama di
partire. (Il vascello).
Nazario Pardini
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