I
DINTORNI DELL'AMORE, RICORDANDO CATULLO di Nazario Pardini
Collana
di testi letterari Alcyone 2000 – Editore G. Miano
PREFAZIONE
Rossela Cerniglia, collaboratrice di Lèucade |
I
dintorni dell'amore, ricordando Catullo, la più recente opera
poetica di Nazario Pardini, proposta nella memoria del grande poeta latino, è
anch'essa divisa, come la precedente, I dintorni della solitudine, in tre sezioni; è inoltre preceduta da una Lettera
ad un'amica mai conosciuta, testo che ne richiama subito alla memoria un
altro, che immagino vicino al sentire e alle intenzioni del nostro autore. Si
tratta della poesia di Luis Cernuda, dal titolo A un poeta futuro dove
troviamo gli stessi interrogativi, le stesse incognite, lo stesso bisogno di
colmare il vuoto e la solitudine interiore e di trovare un senso alla propria
vita che rintracciamo nel testo di Nazario Pardini. Vi compare anche l'immagine
di uno stesso fiume che porta in Uno vicende ed esperienze umane -
metafora dell'esistente da cui precisamente prende l'avvio il testo in prosa
del nostro autore. Ma, al di là di questo, un unanime respiro connette le due
scritture: un tono epistolare intimo e confidente che con movenze accattivanti
ed emblematiche, si innesta in una concezione dell'amore fortemente
idealizzata, a testimonianza e suggello di una visione poetica e di un credo
artistico che rimane a fondamento della loro opera.
Il testo di Pardini si apre, come già detto,
con una lettera che prende l'avvio dall'immagine di un fiume che trascina,
insieme alle sue acque chiare, tutto ciò che incontra sul cammino, fino al mare
infinito.
Ed è, per l'appunto, una metafora della
vita: il fiume che porta nell'immensità del mare, ovvero nella totalità
dell'Essere, bene e male insieme a tutte le contraddizioni e le antinomie che
connotano il contingente: il nostro essere, e quella realtà limitata,
parcellare, conclusa che sembra fronteggiarci, ma che ci costituisce nel nostro
essere più proprio, essendo una con noi.
Il poeta, che si interroga intorno a questo
“fiume”, si interroga sul senso dell'esistere, e in altri termini si
chiede dove andiamo, a cosa siamo
destinati, e che senso abbia la vita umana in quanto costruzione di
qualcosa a cui - nel bene o nel male - siamo chiamati.
Quando “foscolianamente” ci induciamo a
pensare nei termini di una nostra eternità laica, dicendo che ci eterniamo
nella memoria dei posteri, credo che intendiamo dire anche questo: tutte le
esperienze e conoscenze dell'uomo sono
fiumi, rivi, torrenti, che confluiscono nel grande, sconfinato mare della
conoscenza che è nuova creazione e nuova vita. Un mare, dunque, che mescola la
ricchezza e multiformità delle tante acque che affluiscono in lui, riportandole
ad Unità. Riportando il multiforme e difforme ad Unità, cioè a nuova
realtà e a nuova vita. Pertanto, l'uomo è parte integrante di un processo che
estende l'opera divina, anche in forza del suo “libero arbitrio” - che non è
assoluto, ma condizionato, anzi spesso pesantemente condizionato - ma è
comunque quella facoltà di scelta che mette in moto il divenire, e che
contraddistingue il suo pensare e il suo agire.
A proposito dell'Amore, un tema che
riveste vitale importanza in quest'opera, il poeta afferma che non debba mai
allontanarsi dall'ideale della Bellezza, e dunque dalla Poesia.
L'Amore, infatti, primo attributo divino, è il principio che informa
l'universo. È Pneuma, spirito, energia del cosmo, che costituisce anche
la nostra parte divina, la quale, tuttavia, nell'attuale civiltà sembrerebbe
messa da parte, dimenticata in qualche oscuro canto di noi stessi. In questo
concetto che lega insieme Amore ed
Arte, il Bene e il Bello, possiamo rintracciare
quello della Kalokagathia che esprime l'essenza di quello spirito
dell'arte greca, da Nietzsche definito apollineo.
Nello stesso testo, inoltre, partendo delle
premesse che l'autore va sviluppando, si fa strada l'idea di una poetica ben
definita sulla base, non nuova - perché mai risolta e sempre, di epoca in epoca
risorgente - di una quaestio a carattere
concettuale e linguistico che contrappone, in ambito letterario, il
valore del “Nuovo” a quello dell'“Antico”-
Pardini opta per una concezione in cui
l'“antico” si innesti sul “nuovo” per dare nuovi germogli, nuovo frutto, nuova
vita all'arte. Ma anche dove l'antico possa intendersi come il terreno, l'humus,
il sostrato, la base feconda e intatta (eterna) della poesia che
verrà dopo: una poetica che pienamente condivido.
La prima sezione del libro, quella che dà
anche il titolo all'intera silloge, sembrerebbe una rivisitazione dello schema
amoroso catulliano delle Nugae, che costituiscono la prima parte di quel
Liber di 116 componimenti poetici a noi pervenuto.
Nelle Nugae vivono le alterne
vicende della passione amorosa del poeta latino per una donna cantata col nome di Lesbia - nel riecheggiamento
del mito e del fascino della poetessa di Lesbo, Saffo.
Anche nella prima sezione della silloge
pardiniana trovano posto le vicissitudini di un amore nel dispiegarsi di
momenti e tappe che in qualche modo richiamano ed intersecano il paradigma
catulliano che procede dalla passionalità e fedeltà amorosa fino alla tragica
constatazione del disamore e dell'abbandono finale. I componimenti di questa
prima sezione non hanno titolo e sono separati tra loro da un asterisco.
Questo attraversamento di momenti e di stati
d'animo dispiega, anche nel nostro autore, un corollario di sentimenti ed
emozioni, finemente elaborati, che stempera, tuttavia, e ammorbidisce i toni
della passionalità più accesa di certi carmi catulliani.
Le liriche pardiniane hanno lo stesso
andamento tematico, e tutto è rivissuto e rivisitato nello spirito e - per
certi versi - nello stile catulliano che è quello amoroso per eccellenza
- anche se di un amore che ha i connotati e le sfumature peculiari dell'anima
del poeta: connotati e sfumature che indicano una consonanza spirituale che
attraversa il tempo per divenire nei due autori, afflato, visione, emblema di uno stile che è misura di vita e immagine
di una realtà.
I componimenti sono brevi e, come i carmi
catulliani delle Nugae con continui riferimenti alle personali vicende
amorose. Si innestano nel tessuto dell'opera richiami più puntuali, e parziali
rifacimenti di alcuni dei testi più rappresentativi del poeta latino, come è
nelle pagg. 33, 45, 47, 48, e forse in qualche altra ancora.
L'incipit di questa prima sezione è
dato da versi pregni di amara dolcezza e del senso di ogni fatale declino che -
sempre all'insegna dell'amore - conduce alla ricerca di una vita che sia più
vera ed essenziale. I paesaggi sono un riflesso dell'anima, un esempio è
fornito dalla pag.38: mare e spiaggia, pensieri e immensità che recano
connotazioni dell'anima “...e un'aria grigia / ricopre i miei pensieri. (…)
brusio di poca gente / ma tutto è vuoto /non mi consola niente.”
Natura
e paesaggio sono,
del resto, lo
sfondo costante dell'opera,
che i versi dispiegano in ampia e variegata fenomenologia. Vivono
sovente della dimensione del ricordo, e aprono a scene in cui si mescolano note
passionali che vagheggiano sogni lontani (pagg. 37 e 39).
In alcuni componimenti di questa prima
sezione incontriamo una dolcezza che sconfina, a volte, nel gesto voglioso e
irruento come pure avviene in qualche testo del poeta latino. Il personaggio
centrale, è una Delia/Lesbia che ci riporta alla donna amata da Catullo,
e che, come la Lesbia catulliana, si mostra a noi di riflesso,
attraverso i sentimenti che suscita nel nostro poeta. Gli stessi versi aprono
talora a suggestioni e vagheggiamenti di un passato arcaico in cui l'immagine
femminile era accostata a quella della divinità, e vi si effonde una
malinconica dolcezza che pare emanare dalla natura e dal paesaggio ed
irradiarsi in palpito e in levità che si fanno canto di delicata elegia.
Così la nostra Delia/Lesbia, trasfigurata,
diviene ninfa vagante per i boschi, che ci appaiono intramati di elementi
vegetali e umani: “ ...tingevano i capelli / i raggi rossi / penetranti tra i
rami / e i butti smossi. / Olezzava il salmastro e la tua
pelle...” E poco più avanti, in
un altro componimento: “(…) Forse non giungi, Delia, / ché più non mi ami?
(...) Ma dal fondo del bosco, / ninfa vagante, / dal fondo del viale / verso i
miei dubbi / muovi le tue grazie (...) ed io respiro / il tuo dolce profumo, /
il tuo sospiro.” Una mescolanza visionaria in cui la bellezza femminile
compenetra e anima la natura. E questa, a sua volta, si mostra come la degna
cornice entro cui cantare la donna amata. Ma in essi si insinua il dubbio della
fedeltà amorosa della donna, che ci riporta alla parabola catulliana, prima
ascendente, poi declinante, di un amore che ci appare, nel suo incedere,
fatalmente segnato.
Comunque - al di là delle affinità che
accomunano i versi dei due poeti - le vicende amorose sono, nelle loro opere,
diversamente contestualizzate e il sentimento che le anima dipende dall'apporto
complessivo delle singole esperienze di arte e di vita.
L'immagine della donna amata riflette, in
ognuna delle due opere, atmosfere che appaiono consone al suo tempo, così la
vicenda dell'amore tenero e appassionato del poeta latino riceve l'impronta
nuova della realtà che vive nel nuovo poeta: e l'”Antico” trova un prezioso
innesto nel “Nuovo” che avanza.
Nella seconda sezione del libro Di vita,
di mare di amore, i temi affrontati sono esplicitati nel titolo. E il primo
componimento sembrerebbe, appunto, un inno alla vita e alla natura, tradite e
devastate dall'uomo. Delle quattro strofe che lo compongono, le prime tre
presentano l'anafora del verso iniziale “E noi ti demmo morte” a ribadire con
enfasi e immagini di brutalità, lo scempio operato su di esse dall'uomo. D'ora
in avanti, infatti, anche in considerazione dell'opera nefasta dell'uomo su di
esse, percepiremo il sentimento dell'autore mutare, e i paesaggi e la vita
intera ci appariranno, nei versi, disabitati, inquieti, silenti... “(...) Mi prende il largo spazio: / sono il
nulla e il nulla si dilegua / nel vento salmastro dell'immenso./ Non odo più la
bàttima né provo / sogni e tristezze in questo diluirsi / del cuore nel mio
mare.”
Anche nei versi di Chissà per quali mete,
troviamo lo stesso abbandono, lo stesso senso di vuoto e dismissione che si
riflette nello sguardo che si allarga alla campagna “ Spentisi i girasoli,
ammorbiditisi / i colori della mia campagna / resta un canto che accompagna / i
rintocchi di una campana funebre. / Questo rimane di un'intera stagione: / un
suono lento e peso /che rinnova un trasporto; / seccumi senza scricchi / per
assenza si sole; / viti disabitate; / uccelli che svolazzano nel vuoto, /
immemori di nidi.” Il senso di una morte incombente emana da questo lento
sfiorire della natura, dallo spegnersi dei colori accesi dell'estate: cenni che
divengono segni e simbolo dell'inesorabile fine di ogni cosa.
Alcuni versi, come quelli di Ignoto verso
il mare hanno poi un andamento lento e riflessivo, modulato, si direbbe, su
una meditazione che proceda sugli stessi passi del poeta “E' febbraio. Non vedi
per i campi / traccia di paesani; tutto è fermo. / Persino lo svolare attende
l'ora calda...” L'occhio osserva la natura che lo circonda, minuziosamente, in
una calma riflessiva che conduce al ricordo di un tempo lontano, di una
giovinezza colta nel dolce e amaro sentimento del nostos. Il presente,
infatti, non vive più delle grandi speranze di allora: “ (…) “A te mi dono /
mese di nostalgie! Di quando a sera / ci si accostava al fuoco con un animo /
già pronto ad incontrare primavera: (…)
E ti rivivo, / seppur la mia speranza / non cova rami in fiore”
In altri momenti, l'interiorizzazione del
paesaggio è dovuta a un sentimento di vastità panica che abbraccia il Tutto,
tutto il paesaggio in un unico afflato, e la terra in un sentimento filiale:
“Nessun pensiero / mi assalirebbe di dolore o di paura / sui sentieri di campo solitari
/ di papaveri tinti e di ginestre. / Volerei felice tra le reste /
scricchiolanti di calura estiva / alla deriva / in possesso dei suoni e degli
afrori /della mia madre antica.” E l'uso ottativo del condizionale avverte,
appunto, dell'insanabile distacco tra la realtà e il desiderio.
Ritorna spesso, come in E' l'aria di
novembre, il parallelismo tra il trascolorare della natura e il declino
della vita umana, già rilevato nei versi di un'altra silloge I dintorni
della solitudine: “ (…) Resta / un silenzio che ingloba nel suo manto / la
stanchezza del mondo. (…) Qui respiro il riposarsi fragile dell'aria, / lo
scorrere caduco di stagioni / che sembravano eterne. (…) E se mi specchio / mi
vedo stagione / che lascia alla corrente / l'ultimo verde delle sue memorie.”
La consonanza tra immagini e sonorità del verso è di straordinaria bellezza
e levità. E straordinaria, come dicevo,
appare la chiusa della poesia dove il pensiero e il sentire umano trovano
espressione nel simbolismo universale della natura.
Il tema dell'amore ricompare evocato dal
ricordo di un paesaggio visitato insieme all'amata. E il personaggio della dolce Delia torna
nei versi di Ode, - e in altre pagine - e si mescola a questo
tenue rammemorare, al vagheggiamento di momenti estatici che si fondono
al paesaggio e lo nutrono di atmosfere vaghe e fluenti come il trascorrere
delle stagioni nell'aria. Torna anche, nell'ultima strofa, un riecheggiamento
dei versi catulliani del “soles occidere et redire possunt”, a commento di
questo dileguarsi di eventi e di visioni che è la vita.
Nell'Ecfrasi, intitolata il Canto
della bellezza, compare il tema dell'idealità amorosa che si dispiega nella
sublime immagine di un amore estatico, immortalato fuori dal tempo attraverso
la descrizione di un gruppo marmoreo in cui gli amanti non consumano l'acme
della loro attrazione, che è magnetica, fatale. E la rappresentazione delle
forme è, pertanto, la rappresentazione di questa attrazione che rimane
ferma in se stessa, senza trovare un divenire nella materia. Attrazione
che diviene astrattezza e pura
idealità nel suo esimersi dalla incarnazione ed oggettivazione nel reale, e
dunque dallo scadimento di quel gesto puro in una contaminatio che lo
priverebbe di quella assoluta bellezza che lo apparenta al divino: sublime
descrizione di un attimo che ferma sulla soglia del divenire un gesto estatico,
e lo rende eterno simulacro dell'Amore.
Il tema del mare, presente in
vario modo nella silloge, si presta ad esprimere, per traslato, più di un
aspetto della vicenda umana, e al tema
del mare è da ascrivere La barca, ultima lirica della seconda sezione:
qui i versi sono tutti intessuti di metafore – barca, mari indifferenti, onde
pellegrine, aspri scogli, porto, faro ecc.– afferenti per lo più a un'area semantica
di dominio psicologico-esistenziale, ma anche a quella valoriale delle
esperienze umane “ Sono una barca che s'inarca al mare, / sono un fuscello in
balia del vento / che cerco un porto (…) I remi stenti / hanno solcato mari
indifferenti / verso il chiarore delle mie speranze. (…) Ho navigato incerto in
queste acque / sbattuto spesso da onde pellegrine / in scogli aspri e crudi; in
rocce scure. (…) Aspetto un porto. Un faro che m'illumini; / una scia che segni
la mia rotta (…)”. E i versi chiudono con un desiderio e una ricerca, dentro
una quasi disperata speranza.
La terza sezione della silloge è intitolata
Canzoniere pagano; ed è da escludere, naturalmente, che l'attributo,
abbia alcun riferimento al significato che esso andò acquistando in relazione
alla sopravvivenza degli antichi culti politeistici nelle campagne dopo
l'avvento del cristianesimo.
In questi versi non è implicato alcun
rapporto con la religione se non quello con una realtà che, nella sua
idealizzazione, conserva tuttavia qualcosa di sacrale – tema anch'esso rilevato
nella silloge I dintorni della solitudine - dove è intimamente rivissuto
il rapporto con un paesaggio della memoria e con uno stile di vita, che
riconducono l'autore alle sue lontane radici, alle ancestrali forme di un mondo
dalla bellezza e purezza archetipiche.
Compaiono, come in precedenza, immagini
scelte di luoghi amati - accomunati in un canto intensamente lirico - ma ci si
mostrano spesso anche in abbandono: luoghi dove, a volte, una Natura malata,
quasi moribonda, parrebbe esalare un ultimo respiro “La zappa è appesa al filo
del vitigno / incolto e abbandonato e tra i filari / è cresciuta gramigna (…)
filtra quell'aria sana di campagne
/odorose e feraci che a frinire /continua in mezzo a scorze rosicchiate // da talpe o a
sibilare alle micragne /rimanenze di vita. (…) Paesaggi, cari alla memoria che
rappresentano per il poeta un richiamo
vitale, un amore cui, nel vago, si mescola una incerta malinconica speranza.
Così, talvolta, come nei versi di Albeggia, lo sguardo si posa con
affetto sulle cose, le osserva vagheggiando un lontano, impossibile ritorno a
quel passato, a quel minuscolo paradiso che racchiude gli esseri cari,
il senso di un tempo che l'anima custodisce: centro e forza del suo essere stesso,
richiamo e voce di cose care e sacre non più presenti, non più
raggiungibili come un tempo, e da cui nasce il respiro dolce e amaro di questa
poesia.
L'amore per la bellezza è una costante della
continua ricerca che i versi sottendono, dipanandosi in un cammino attraverso
un universo reale e, nello stesso tempo, entro il se stesso, nell'interiorità
della propria anima che della bellezza fa tesoro, di essa respira. Nella lirica
San Rossore, i passi, lo sguardo, lo spirito dell'autore documentano,
appunto, questo anelito e ricerca costante della bellezza nelle forme di quel
grembo paradisiaco che è la Natura, la grande Madre che questi tesori ancora elargisce, a
dispetto dell'incuria e del degrado cui l'ha condotta l'uomo. L'andamento dei
versi, il loro ritmo riposato e lento, ci riportano ancora a un andare “Solo et
pensoso per i deserti campi...” -come già, forse più palesemente alla pagina 49 della prima
sezione - ma non per nascondere agli occhi indiscreti l'animo esacerbato da una
passione amorosa divorante, bensì in meditazione, per una necessità di ascolto
di se stesso in solitudine e di un colloquio col suo essere più intimo e
profondo, vale a dire con la sua stessa anima. Gli accenti e le sonorità dei
versi, le descrizioni dell'elemento naturale, evocano l'insistente richiamo di
questa voce che tutto riporta a un ancestrale mondo di sanità e purezza,
ormai in disuso, e a canoni estetici e valoriali che hanno dato un imprinting
radicale all'anima del fanciullo e dell'adolescente, in un tempo lontano.
In tutte le poesie di questa sezione,
torna, infatti, e trascorre, proprio il ricordo di “quel tempo lontano”:
troviamo versi memorabili in All'alcione; e in Giusto figure di
un'antica età compare un aspetto di quel mondo che una sacra nicchia conserva
nel suo cuore: il ricordo dei pastori transumanti la cui anima sembra
vivere, in pienezza, degli spazi smisurati e della purezza dell'essere in una
natura ancora incontaminata.
Troviamo, in alcune poesie, echi e
rimembranze di altri testi, per esempio in Il tempio, la memoria va alle Correspondances baudeleriane, mentre
La casa del
colle - ma solo per lievi
assonanze -
vagamente
richiama La casa dei doganieri di
montaliana memoria.
Anche l'amore si lega spesso a queste
immagini di paesaggi, e di quel mondo
che lo santifica e lo rende eterno nel ricordo. E nelle descrizioni talora
aleggia l'impronta di un passato leggendario, e il mito si frammischia alla
realtà e alla storia come è, ad esempio, in Volo pagano: “Lèucade
profumata di salina / memoria io ti trovai tale alla spiaggia / dell'ombrata
Versilia, ove la pina / rumoreggia con tonfi sulla gaggia / dorata dai suoi
tirsi (…) Mi ghermirono / con violenza
gli artigli di possenti / avvoltoi e mi levarono su rade / tanto in alto, che
vidi sotto me / il brulicare d'isole affollate / di miti, ninfe, dèi e antichi
re. (...)
Fedeli alla sostanza delle affermazioni
presenti nella prosa iniziale, in cui il poeta ci dava visione del suo modo di
intendere e di fare poesia, i versi di questa silloge coniugano in modo alto
tradizione e modernità in una sintesi di elementi e valori che procedono naturaliter,
come genuino sentire di chi questi valori ha maturato nei lunghi anni di studio
e di ricerca, ed elaborato con profonda raffinata sensibilità che investe tutto
il portato esperenziale della sua individualità umana, poetica e culturale.
Ci appare consono, pertanto, trovare nella
raccolta, a fare bella mostra di sé, versi che seguono lo schema fisso della
tradizione, come i diversi sonetti, finemente elaborati, che punteggiano e
impreziosiscono il testo. E una corposa presenza dell'endecasillabo, anche a
prescindere da essi.
Altra peculiarità è il subentrare, e a
volte la mescolanza, di livelli linguistici che potrebbero sembrare eterogenei:
quello di una lingua aulica, colta e raffinata, e quella di una più dimessa, di
matrice bucolico-agreste, con terminologie che partono da un quotidiano che
inerisce a quella specifica realtà, verso una parlata che si assottiglia in
idioletto come specchio di una realtà in disuso, abbandonata e dismessa.
E questo scarto del linguaggio è,
naturalmente, lo scarto stesso di una realtà che sempre più si allontana al
nostro sguardo. Lo scarto e l'allontanamento di un mondo caro al poeta, e che il
poeta torna a rivivere, e a far rivivere con la nostalgia del suo cuore
innamorato e devoto.
Una dissonanza che, al tempo stesso, convive
e “consona” nell'unità dell'anima che compendia e condensa ogni diversità e
disparità in nuova e unitaria acquisizione, in personale patrimonio di cultura
e di vita.
Rossella Cerniglia
Grazie, carissimo Nazario, per aver postato sul tuo Blog la mia prefazione al tuo bellissimo libro. Complimenti e auguri infiniti per i tuoi versi che meritano davvero tanto!
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