(di Arnoldo Mosca Mondadori)
Leggendo i versi di Ninnj Di Stefano
rimango continuamente stupito.
La sua
poesia è come parola che torna a dare vita al mondo.
Come se la poetessa avesse uno specchio
profondo, dove il mondo si sia immerso nel tempo e nelle parole potesse di
nuovo prorompere, appena nato. La parola spesso diventa altissima, per dare la
possibilità a ciò che ha perso senso di ritrovarsi. Ed è forse solo per questa
ragione che può nascere ancora la poesia: dall’anima dell’uomo, da luoghi
profondi e inaccessibili, risale il significato della creazione. Così la natura
si rivela nelle sue minime manifestazioni e si
sente vibrare la sua grazia. Forse nella parola di Ninnj Di Stefano vi è
qualcosa di miracoloso, una specie di patto segreto con la natura e il suo
respiro. Alcuni versi sembrano volersi scolpire, come strumenti di rivelazione
e di pace:
“Si
spengono i violini dentro la carne”
“Ti
aspetto in punta al cuore, come un richiamo di luce”
“Ti
parlo a un passo dalla carne”
I brani di alcune poesie sembrano poi
scaturire come gemiti dello spirito, come enunciati di grazia:
“Scorrerò
l’enigma dei deserti
per
riscoprire cattedrali bianche,
o la
voce dell’infinito, nel dono
di un
pensiero che si levi a Dio.”
****
“S’impiglia
l’anima, come una cometa
che
filtra il grido della luce e si fa
spora
d’altri cieli,
o
appena oblìo in calici di brina.”
La sua scrittura non cede mai a nulla di
retorico. L’autrice sembra rispondere sempre a un’esigenza di volumi
bilanciati. Anche quando le immagini si ammassano riescono a snodarsi sempre,
come fossero un groviglio di fiori che sanno poi naturalmente separarsi. In
questo senso la scrittura sembra molto vicina agli stessi processi che danno
vita alla natura e ai suoi misteriosi andamenti.
“Tu
parlami di soffi appena in boccio,
di
conche di basilico e di menta.
La
parola che sciogliemmo al vento della sera,
ha
steli di magnolia e filigrane, farfalle
che
inazzurrano gli orli della terra.”
La solitudine della poetessa la
aiuta a osservare i minimi mutamenti di un mondo di grazia e di dolore, ma non
è mai una solitudine che si ripiega su se stessa, è piuttosto qualcosa che
trema, che si innalza come una specie di preghiera.
“Abbruna
ora l’infanzia che progettava
pagine
di cielo e latte appena munto
all’albeggiare
lieto delle labbra.
Resiste
solo il frullo d’ali,
qui,
dove il dolore è più mite.”
Le poesie di Ninnj Di Stefano Busà
potrebbero essere poesie scritte migliaia di anni fa, perché in esse sono
nascoste le verità che ci appartengono. Proprio oggi, mentre siamo invasi e
tempestati da messaggi web, e-mail e social-network di ogni tipo, avere tra le
mani questo libro è un immenso dono. Leggendo avverto il volo di un insetto,
l’umore dei fiori e della terra, il senso del sole. Ecco ancora il mondo, con
la sua anima lenta, capace di attendere infinite stagioni ma anche con i suoi
istanti improvvisi - di una velocità e immediatezza che nessuno può cogliere se
non lo sguardo del poeta. Ma non è tecnologia, è altra velocità, è pensiero di
creazione.
Crescere in verticale,
vuol dire aderire alla vita,
senza la sofferenza,
custodirne il perdono, la
verità dell’oltre.
Gaudio? O solo memoria di una
filigrana di pace:
la morte non fa paura,
addolcisce il dono,
risuscita dal suo apparente
esilio ogni pensiero.
Lì è il segno, (pur minimo),
l’evento che riscatta ogni
forma circolare
che gira torno torno all’anima
per giungere al punto di
partenza.
Oltre la soglia…c’è? Forse?
Anche se non sappiamo...il
nostro Dio umiliato
A chi non crede e lo cerca,
a chi finge di credere, ma è
sordo ai suoi richiami…
Un attimo dopo la morte siamo
nell’ipotenusa,
nell’eclisse più cupa della
pece,
il burattino col filo
spezzato,
l’occhio cieco della luna che
smuore,
(di sua morte naturale, che
altro?)
Sei tu Dio l’acqua che
tracima?
o il fiume che scorre lento, a
fatica,
ma per cotanta sete non c’è
acqua a dissetarci.
Chi tu sia carne o eternità
non serve a chiarire il
peccato,
ad orientare lacrime e grida
del mondo,
profumo dell’unica terra che
possediamo,
dell’unico luogo che non
conosciamo...
Questo volevi, che gli angeli
reggessero l’inferno con le
loro ali? ...
Desti loro il fuoco per
ustionarsi,
il dubbio per non credere ai
tabernacoli.
Ora l’insonne disperazione
apre il vomere:
la terra si accende di amore
pagano,
si mimetizza con ali di carta,
l’incipitario rovello della
tua assenza,
morte apparente, ci presenta
un conto salato.
Solo la pietà ora mostra il
suo volto
in cui l’anima si perde.
Il mio verso non ama farsi
Poesia,
smagarsi forse, quel tanto che
basti
per incrociare il gorgo dei
silenzi.
L’infinito nulla “ centuplicato”
di una misericordia che non
serve
si veste di cielo per
adescarci.
Violentemente amputati, ci
attrae
la bellezza consumata
delle nostre infinite
sfioriture...
Eppure,
pare sciogliersi da qualcuno o
da qualcosa
il lievito del mondo.
Ognuno come cristallo si vena
del suo male,
rimargina la ferite, si ritrae
davanti all’unica salvezza.
Cercarti senza requie,
a questo ci hai chiamati?
Eppure,
in qualche modo è sicura
salvezza,
di animale ferito che cerca la
sua tana.
Tutto depredato dal profondo,
sempre più frammentato dalla
tua assenza
ogni cosa pare sciogliersi
dalla sua antica grandezza:
le forme che tu esponi ci
danno: scacco matto.
Silenzio che sfiora
all’insaputa
ogni possibile segno,
questo voler trovare le orme
dei tuoi piedi.
Alla cieca, senza direzione,
brancoliamo
in cerca della possibile
traccia.
Il Relativo e la Forma incarnati
nell’uomo, nel suo primordiale
morire,
nell’infausta
solitudine dei vivi,
il frammento della mortalità.
Ogni cosa attratta dalla luce
si fa Luce essa stessa,
creatura a tua immagine,
per reggere l’impatto coi
cieli,
senza precipitare...
Dal cratere di dolore,
dalla sostanza atomizzata
emergiamo,
talvolta,
per annegare nel magma delle
nostre piccole morti,
con una intemperanza che ci fa
nudi,
carne di ogni cielo, o forse
solo,
punto focale di ogni
resurrezione...
L’uomo si cimenta ogni giorno
con l’orgoglio, precipita nel
fondo
della disperazione, si fa
murena senza mare,
traiettoria di vento, ala di
colomba e corvo
per una ipotetica salvezza.
Ci hanno detto: “morto per rinascere alla necessità
della
nostra salvezza”, non ne vediamo
il miracolo, ne intuiamo solo
l’intenzione.
Straripiamo nel fuoco della
miseria,
che ci affolla segretamente
ogni morte.
La vita non può essere ciò che
trapassa,
senza perturbamento...
Perciò mi parli anima mundi,
pienezza di soffi e brezze
che l’onta perdona di ogni
nefandezza,
distillato di rovi,
tutto il patimento si contrae
sul tuo volto.
L’inconoscibile
che
fiorisce e fruttifica.
Eppure, spendiamo ogni luce nella profanazione,
a cercarti, a chiamarti,
mentre perseveri nel dono di
salvezza:
sei la spiga e l’ombra, lo
stelo e la rosa,
la grazia e il perdono. Ma
dove sei?
luce
nella luce,
essenza creaturale
dell’essere(ci).
vigilia d’avvento che divora
la morte...
Pane e miele alla tua mensa,
non abbiamo altro luogo,
all’infuori
della cittadinanza celeste, accoglici.
proteggi la nostra ignavia...
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