martedì 13 gennaio 2015

N. PARDINI LETTURA DI "PARTI DEL DISCORSO (POETICO)" DI UBALDO DE ROBERTIS


Ubaldo de Robertis: Parti del discorso (poetico)
Marco Del Bucchia Editore. Massarosa (LU). 2010. Pg. 104

Abbrivi che portano il Poeta a scovare sentieri in cerca di se stesso


Prepàrati a misurarti con i silenzi scroscianti
tu che hai conosciuto i fragori delle cascate
zampillanti di acqua e di luce.

Iniziare da questa citazione testuale significa sintonizzarsi da subito con la più profonda ricerca spirituale, che, qui, l’Autore affronta motivato dalle riflessioni decisive sull’esistenza; da un palingenetico azzardo verso un oltre troppo umano per le ristrettezze in cui siamo destinati a vivere; per orizzonti pressoché impossibili ai nostri miopi sguardi:

Lapidi strette le une alle altre fiori anneriti
volti stanchi
con alcuni eravamo cresciuti insieme
Queste mura raggelano
alzo il bavero e lo sguardo oltre il filare dei cipressi
Per capire ciò che realmente affiora
i pensieri sempre più incapaci
di significare il mondo
Ma l’Oriente dov’è?

Filari, o siepi, che delimitano il nostro esser-ci per  verità imperscrutabili; per verità improbabili.
Ed è così che dopo un lungo viaggio ci appare un cul de sac avvolto da veli di brume inquietanti. Un redde rationem, un consuntivo, un pensiero a tutto tondo su un percorso di silenzi e di cascate zampillanti, dove l’ieri l’oggi e il domani si embricano indissolubilmente per dar forma al pathos del poièin. D’altronde la poesia è sentimento, riflessione, sedimento, meditazione, repêchage di fatti, immagini, momenti, vólti, illusioni e delusioni che tanto hanno a che fare con una storia. E da là il Poeta trae la linfa che, col tempo, si fa patrimonio prezioso, compagno fedele del suo esistere. Un serbatoio a cui attingere per farne alcova rigenerante; per rinvigorire presenze che tanto ambisce riportare a nuova vita, e con cui desidera tornare a sognare:

Lasciai valle colline compagni
alcuni destinati a compiere altrove
la propria avventura. Mai immaginavo
che sarei tornato io solo…;

ma, anche, un confronto col tempo; fra gli impietosi granelli della clessidra e noi che siamo destinati ad una perentoria sconfitta: È nelle corde umane cercare di sottrarsi alla terrenità per azzardare slanci verso il duraturo: un’impresa che ci rende perdenti considerando la precarietà della nostra vicenda. Un raffronto che ci rende coscienti, solo coscienti, della futilità della nostra permanenza, e della brevità del nostro cammino. È da lì che nascono i tanti perché irrisolti e irrisolvibili, quelle inquietudini che alimentano con la loro intensità epigrammatica il cuore del canto. Le insoluzioni del nostro iter esistenziale. E in questa opera plenitudinis vitae, priva di sterili espedienti sperimentalistici, il Poeta si affida al supporto di intrecci narratologici di urgente resa ontologica, e umana;  confessa tutti i suoi abbrivi emotivi, col ricorso a nessi di iperbolica metaforicità di grande resa lirica. Sì, parlerei di realismo lirico-introspettivo, di tante piccole realtà che, tutte assieme,  compongono un polimorfico quadro; un quadro che ognuno  di noi fa suo, vivendolo come propria esperienza vicissitudinale. Un parenetico messaggio che il poeta rivolge a se stesso, all’altro di sé, a quella parte del suo essere che si avvia improrogabilmente ad un silenzio assordante. E lo fa con un’ossimorica contrapposizione fra luce e buio, fra giorno e notte, fra realtà e mistero. Fra realtà e verità. D’altronde sta tutta qui la sostanza della vita: nella simbiotica fusione delle contraddizioni. Nello scandalo delle contrapposizioni che, al fin fine, determina il sale e il pepe del messaggio poetico. E de Robertis lo vive pienamente questo abbrivo eracliteo fra Eros e Thanatos:

e sono pesci
le ombre tratte a secco
e vorranno perdonarmi
se sarò io
per indole più simile alla preda
a dar vita al frastorno
a incatenarli all’amo
con la quiete della morte
intorno


Giace sull’arenile l’amuleto
carpito alla roccia madre
Libero a suo senno potrà incendiare
il cielo ardere le foreste proteggere l’amore
armonizzante Più di quante virtù vanta il monile
più grazioso attraente il collo della donna
che indossa l’ambra gialla…  (Lola),

dacché è pienamente consapevole che il burrone nero fagocita ogni nostra illusione, nell’indifferenza:

Non devi affrettarti
Non è di un bianco neve
non è soffice il sangue
dell’ultima stagione
è di un nero inclemente
miseramente ostile indifferente.

Sì, nell’indifferenza di una stagione che, come il presente, ci sfugge con tale rapidità, da non essere mai con noi a dirci qualcosa sulle questioni che ci assillano:

Come furfanti s’ammassano gli anni
ma non sarà l’inverno cupo e sciatto
a schiantarti il respiro…

E c’è la natura che, con i suoi colori, con i suoi rumori, con le sue onomatopee, con i suoi colli verdeggianti, o i suoi tramonti decadenti, avvicina l’autore e lo aiuta a rendere corposi e visivi i barbagli più intimi, gli stati d’animo più impellenti: il mare, l’avvento dei colori, la poiana, gli occhi di gabbiano, l’aria fresca della notte, i petali rosati nei cespugli. Tutto si fa colore o incolore, espansione o recessione, slancio o svolo, per accostare i significanti dei versi. Un andare ondulatorio che si amplia o si rattiene per abbracciare quegli abbrivi che portano il Poeta a scovare sentieri in cerca di se stesso. Che lo portano, col paltò ormai consumato, sui gradini della vecchia casa. È là che potrà sedersi ormai consolato, ad accogliere l’indifferenza dei vicini: “come fosse/ un nuovo addio” (Commiato). Un melanconico ritorno che fa da sottofondo a tutta l’opera e che permea di sé la storia di questa plaquette, senza, però, scadere mai in becera lamentatio. Anzi per fare da terriccio fertile ad un fiorire di versi di estrema forza creativa; per aprirsi a pertugi di luce, a squarci di rinnovamento epifanico, ad amori, a battiti di labbra e di sorrisi:

Un battito di labbra e un sorriso
per non turbare i fanciulli come alla partenza
di un viaggio lungo anni luce

Bene così! C’è già il salice a piangere
Basta e avanza

Dunque? Dove eravamo rimasti?

Un iter complesso, polivalente, vitale, disarmonicamente armonico, che, tracimando ex abundantia cordis, si conclude con due inni: a Pisa, nuova città del Poeta, (Austera e incantatrice/ Aquila nobilissima e sdegnata); e a Galilei, colui che meglio la rappresenta:

Mai che venisse meno la magia
quando occhi minuscoli indagavano
spazi sfavillanti di atomi (A Galileo). 

Nazario Pardini







1 commento:

  1. Complimenti ad Ubaldo e a Nazario Pardini per la sua critica sempre così emozionante. In attesa di leggere il libro nella sua interezza, sommessamente mi avvicino ai versi di Ubaldo, ascoltando la sua ansia di significato e la sua ricerca rigenerante. Mi soffermo allora sulle due domande : " Ma l'Oriente dov'è?, ed inoltre" Dove eravamo rimasti? , che testimoniano il coraggio e la generosità del poeta, mai domo, nel suo viaggio e nel suo slancio verso un percorso sempre rigenerante .
    Nadia Chiaverini

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