Antonia
Izzi Rufo: Mi manchi
Il mio libro.
Roma. 2011. Pg. 86
Una
via crucis le cui tappe segnano la storia della Nostra
Un
libro strettamente autobiografico, che, zeppo di abbrivi vicissitudinali, si
nutre del dolore di una mancanza irrimediabile; della sottrazione di un lui che
continua a vivere in una memoria densa di vita. Mi manchi, il titolo; distribuito in due sezioni (Poesie dell’attesa, senza speranza, e Mi manchi), nella prima si alternano composizioni
ora secche, apodittiche, e ora più ampie e riflessive; mentre, nella seconda,
eponima, prose poetiche di forte impatto
introspettivo in cui le cose più semplici, legate alla persona scomparsa,
tornano a vivere con grande visività; un vero diario in cui si succedono
pensieri, descrizioni, stati d’animo, e ambiti familiari: il letto, il volto,
l’ultima notte, il sorriso, gesti, abitudini, fatti, emozioni, confessioni,
spesso monologhi, di grande partecipazione emotiva; di forte intensità umana.
Mi
piace iniziare da una citazione testuale che, da subito, ci introduce in quello
che è il motivo centrale di questa plaquette:
Torno a te, amico foglio,
per riversare sul tuo candore
pianto e dolore,
dolore e pianto.
Un
dolore che percorre tutto lo spartito, determinandone continuità e compattezza;
una via crucis le cui tappe segnano ed hanno segnato, in profondità, la storia
della Nostra, fino a condurla ad uno stato di sconforto e di solitudine. Anche se
la memoria interviene con voce rasserenante a riportare suoni e visioni di
grande potere affettivo con i suoi ritorni da nirvana edenico, da alcova in cui
la poetessa possa rifugiarsi per rivivere momenti e tempi, luoghi e fatti che tornano
ad alleviare una realtà esiziale con visioni d’immaginifico impatto rigenerante.
È così, in questo modo, che l’Autrice tenta di cucire un legame fra sé ed una
voce “che chiama da lontano/ che vuole ascoltare…”. Ed è così che quello che
gonfia nel suo petto, anche se impalpabile, diviene vivo, caldo, reale:
Solo in me ti ritrovo,
vivo, caldo,
reale nella tua immagine,
ma impalpabile.
Ma
c’è la paura della notte, della solitudine, della voce del silenzio, subdola,
ambigua, ostile:
Un lume acceso
mi protegge,
là,
sul letto,
dove tu
lottasti con la morte…
E
c’è tristezza ora, in tutto ciò che prima brillava di luce e di amore. Perfino
la natura sembra partecipare a questa emotività, si fa viva, corposa, incidendo
psicologicamente nel cristallizzare gli stati d’animo della Poetessa: il sole è
triste, i raggi ne celano il pianto, triste è il canto degli uccelli, tristi le
mammole e le primule, e la primavera è deformata da nuvolette melanconiche. Un pathos
che poi tanto lontano non è dal potere di Thanatos:
…
respiri a fatica,
(…)
vuoi solo morire
(Soffrire).
Lo
spartito tematico continua nella sezione eponima con più possibilità di analisi
introspettiva per un dire prosastico ampio e generoso; e fin dagli inizi ne rivela
il focus centrale, che si fa leitmotiv dell’intimo “Diario”:
Mi
dicevi spesso: “Che ne sarà di te, quando
io non ci sarò più?”. Un brivido mi attraversava il petto e tremavo.
Lo
stesso volto dell’amato stenta a farsi vivo per il dolore: “Non ricordo il tuo volto il dolore ha
cancellato l’immagine davanti ai miei occhi”.
Fino
ad una conclusione che sembra dare speranza e sollievo per la visione di un
Oltre, di uno spiraglio di luce che sa tanto di unione e di fiducia ritrovata:
“Certo, amore, resteremo
uniti, beati tra i beati, e dal nostro imponderabile Infinito manderemo
influssi benefici sui poveri mortali, per alleviare i loro mali, per rendere
più agevole il loro cammino verso la Meta prefissa dal Fato”.
Nazario
Pardini
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